Sei in: Mondi medievali ® Le Opere e i Giorni

a cura di Stefania Mola

 

IN QUESTA PAGINA:

CICLI DEI MESI:

Le opere e i giorni Il calendario miniato delle Tres Riches Heures del Duca di Berry

Cattedrale di Otranto

gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre, dicembre,

Un tempo senza definizioni
Il tempo nel Medioevo
I calendari figurati
Da leggere

 

 

 

Le opere e i giorni

Per ogni mese dell’anno, sulla scorta delle intenzioni di Esiodo e grazie alle suggestioni di alcuni calendari figurati di età medievale, proponiamo commenti e riflessioni sulle opere (nel senso di lavori agricoli, ma anche più semplicemente “azioni” all’interno del tempo terreno) e sui particolari giorni dell'anno cui esse vengono associate (tenendo conto delle stagioni, ma anche del loro riflesso rituale e tradizionale così come è giunto sino ai nostri giorni).

Mare insondabile! le cui onde sono anni,
Oceano del Tempo, le cui acque di profonda pena
sono salmastre per il sale delle lacrime degli uomini.
Tu, diluvio inarginabile, che nel tuo flusso e riflusso
cingi i limiti di ciò che è mortale
e nauseato di prede eppure gridi ancora
e vomiti i tuoi relitti sulla sponda inospitale,
infido nella bonaccia, e terribile nella tempesta,
chi metterà gemme su di te,
Mare insondabile?
 

P. Bisshe Shelley, Tempo, 1821, in Posthumous Poems of Percy Bisshe Shelley (ed. Mary Shelley), London 1824;
ed. it. con testo a fronte, P. Bisshe Shelley, Poesie, Milano 1989, p. 235.

 

Un tempo senza definizioni

L’istante e l’eterno. Per sua intrinseca natura, il tempo è sempre stato qualcosa di indefinibile, pur essendo indiscutibilmente avvertito come quella realtà che da sempre scandisce la storia esterna a noi, contemporaneamente battendo intimamente anche dentro di noi, e facendone parte integrante.

Per questo i Greci riconoscevano un chronos (tempo convenzionale, “esterno” e misurabile) ed un kairòs (tempo esistenziale, personale, sfuggente per sua natura perché sede delle emozioni e dei pensieri). Per questo chi ha tentato di darne una definizione non si è potuto sottrarre a risultati ambigui e contraddittori: un “vile avversario” per Paul Valéry, la “sostanza di cui sono fatto” per Jorge Luís Borges, “un semplice pseudonimo della vita” per Gramsci, il “divoratore delle cose” per Ovidio, un “vorace cormorano” per Shakespeare, il “boia delle ore” per Gongora, fino al “sinistro iddio, impassibile, spaventoso” di Baudelaire.

Gli antichi pensavano che, tanto emergendo dagli strati inferi, quanto discendendo dall’essenza stessa della luce, il battito della natura si esprimesse attraverso schemi melodici e modalità ritmiche; un ritmo primordiale e solenne con il quale il cuore del mondo pulsa e si rivela in certa grande musica, scandito dallo scorrere ondivago delle grandi acque fluviali (rievocate da Wagner nel Preludio all’Oro del Reno o da Smetana ne La Moldava). La percezione antica non distingueva il mondo fisico da quello spirituale, ma li “sentiva” entrambi come “realtà”; “reali” erano gli esseri viventi e le cose inanimate, così come il tempo mitico/sacro e quello profano: un tempo non obbligato a protendersi verso il futuro, ma legittimato (prima di tutto dalla ritualità) ad un puntuale regressus ad uterum, un continuo ritorno al primo mattino del mondo, laddove le spire del tempo giacciono raggomitolate su se stesse.

Già nel sentire arcaico, però, il calendario sacro coincideva solo in parte con la fenomenologia stagionale e con gli eventi astronomici in sé e per sé, prevalendo già allora la portata religiosa di ogni fenomeno. Cosa non di secondaria importanza, giacché a differenza delle “scadenze” profane, il “tempo sacro” o liturgico subisce interruzioni solo apparenti (per via della dimensione dell’Eterno Presente): si esprime nella Storia ma non viene toccato dai mutamenti di costume. È il “vissuto” del tempo sacrale, comune tanto alle religioni primitive quanto a quelle più “evolute”.

E nel bisogno antico di misurarlo e padroneggiarlo, il tempo si manifesta, prim’ancora che come attributo cosmico quantificabile e rilevabile, come coordinata essenziale di tutte le civiltà storiche.

 

Il tempo nel Medioevo

Il tempo sacro, dunque, si esprime nella Storia. Il Medioevo fissa l’inizio del tempo (del passato e del ricordo), riflettendolo nelle rappresentazioni artistiche, nella Creazione ad opera di Dio (come suggerisce sant’Agostino dicendo “Id ipsum tempus tu feceras, nec praeterire potuerunt tempora, antequam faceres tempora”). Da questo momento inizia la Storia (che è Storia sacra), all’interno della quale vengono individuate le sei età del mondo, di cui fa parte anche il tempo terreno (“Sexta nunc agitur”), tempo dei sovrani, dei guerrieri, dei contadini, degli artigiani, dei costruttori e degli artisti, ma anche tempo della Chiesa, dei vescovi, del clero secolare, dei credenti e dei monaci, che aspettano il Giudizio universale pregando nei monasteri. La sesta età del mondo, cioè il tempo terreno rapportato al tempo della salvezza, viene “visualizzata” dalle rappresentazioni dei mesi, del lavoro nei campi e del suo mutare nel corso delle stagioni.

 

La visione del tempo in termini di comprensione allegorica è evidente nei calendari illustrati che, nei salteri e nei libri d’ore, precedono i salmi e i testi devozionali. Il benedettino Onorio di Autun, a nome della Chiesa medievale, dice che «Christus namque est annus Dei. Huius menses sunt duodecim apostoli». A questo tempo, speculare a Cristo, ai dodici apostoli e a tutti i santi, è subordinato il tempo terreno, quello in cui gli agricolae svolgono il loro lavoro nei campi. Il tempo della vita umana e il tempo cosmico verranno sempre posti in relazione reciproca: l’associazione più comune è quella che all’anno liturgico affianca i segni dello zodiaco e le immagini dei mesi, e non solo nei salteri destinati alla devozione quotidiana, ma anche nel contesto monumentale di una cattedrale.

Raramente, invece, il Medioevo ha rappresentato il “tempo” come tale. Se ne ravvisa un timido tentativo in un disegno a penna all’interno un manoscritto databile circa al 1100 (Monaco, Staatliche Bibliothek), dove è rappresentato Cronos munito di falce e falcetto (attributi di Saturno), e con il serpente che si morde la coda, segno dell’eternità. “Tempora sicut falx in se recurrunt”, recitava già un antico detto romano, e anche questa immagine del tempo si riferisce alla transitorietà e all’eterno ritorno.

Nella concezione medievale del tempo (non chiusa e non lineare) non c’è dunque spazio per l’idea del progresso, né per quella di uno sviluppo storico che vada al di là del piano prestabilito nella storia della salvezza. C’è il tempo legato alla storia della salvezza, il tempo della Chiesa, il tempo della preghiera, il tempo cosmico, il tempo della vita umana, il tempo dell’anno e il tempo del lavoro. E tutte le rappresentazioni terrene di questo “tempo” sono limitate e messe in dubbio dalla transitorietà e dall’eternità in cui ogni tempo avrà termine.

 

I calendari figurati

Per quel che riguarda il calcolo del tempo, il Medioevo occidentale si fondava sul calendario giuliano dei Romani (46 a.C.), da cui mutuò la suddivisione dell’anno in mesi, settimane e giorni. La suddivisione dell’anno liturgico (anni circulus o corona anni) ne ricalcava la partizione con la sequenza delle feste che ricordavano la vita del Redentore o celebravano i singoli santi. La data stabilita come inizio dell’anno variava a seconda dei luoghi, talvolta basandosi sulla festa della Circoncisione di Cristo (cioè il primo gennaio) ma più spesso sull’Annunciazione a Maria (celebrata il 25 marzo). Difficile era calcolare la data delle feste mobili, in particolare della Pasqua che, a partire dal VI secolo, venne circoscritta ad un periodo di tempo oscillante tra il 22 marzo e il 25 aprile.

Alla base dell’anni circulus liturgico, come già si è detto, vi è un modo di intendere il tempo in senso totalmente allegorico: l’anno terreno, cosí com’era misurato dal calendario giuliano pagano, nella sequenza delle feste religiose diventa metafora della vita del Salvatore e della presenza dei santi.

 

Al di là dell’allegoria, il tempo liturgico è però obbligato a fare i conti con la molteplicità dei tempi sociali con i quali si trova a convivere, e dei quali finisce per plasmare di volta in volta i ritmi quotidiani (tempi del contadino o dell’artigiano che regolano le proprie attività sulle campane del monastero, e non più soltanto sulla base empirica del ciclo delle stagioni o le fasi della luna) e le scadenze periodiche (pagamento dei tributi e dei canoni stagionali o scadenze contrattuali regolate sulle feste dei santi).

 

Benché le prime testimonianze di calendari figurati con l’illustrazione del ciclo dei mesi giunte sino a noi risalgano all’età ellenistica (II secolo a.C.), è ormai assodato che il calendario illustrato con le raffigurazioni del lavoro dei mesi rappresenti una vera e propria innovazione medievale.

Nei calendari antichi, infatti, i mesi venivano raffigurati attraverso una personificazione di natura allegorica (personaggi rappresentati in genere frontalmente e circondati da oggetti simbolici che avevano rapporto con il mese soprattutto in quanto rappresentavano i segni dello zodiaco, ovvero emblemi associabili alle festività religiose celebrate in quel periodo dell’anno).

Nei calendari miniati, affrescati, scolpiti o a mosaico realizzati a partire più o meno dal IX secolo, invece, pur persistendo la consuetudine di associare ai personaggi il segno zodiacale, i protagonisti si trasformano gradualmente in personaggi concreti e reali, cioè in contadini o in artigiani - da un certo momento in poi, negli ultimi secoli del Medioevo, si avranno vere e proprie scenette campestri di genere, come nei Libri d’Ore del XV-XVI secolo - intenti alle varie occupazioni e attività che, a seconda della provenienza dei committenti e dei fruitori dell’immagine, potevano essere considerate come tipiche di quel determinato periodo dell’anno.

Questo spiega - ad esempio - perché la raffigurazione della mietitura oscilli tra i mesi di giugno e di agosto in rapporto all’origine mediterranea o nordica del calendario; stesso discorso per un altro momento fondamentale della vita contadina, la vendemmia (oscillante tra agosto e ottobre) che, contrariamente ad oggi, veniva praticata allora anche a latitudini superiori a quelle attuali (l’Inghilterra medievale era una discreta produttrice di vino).

 

Quale funzione pratica e quale significato storico-culturale avevano questi cicli pittorici, miniati, musivi o scultorei che, soprattutto nella Francia centro-meridionale e nell’Italia centro-settentrionale (con qualche significativa eccezione meridionale, come il grande ciclo musivo pavimentale della cattedrale di Otranto) furono dedicati, specie nei secoli XII e XIII, all’illustrazione dei mesi del calendario?

Intanto, ne vanno sottolineate almeno due caratteristiche fondamentali:

1) in questi cicli figurativi non compaiono mai soggetti di natura religiosa, bensì prevalgono temi legati in senso lato ai lavori campestri e artigianali o ad abitudini del mondo signorile; gli emblemi astrologici, poi, interessavano tutti i cristiani, dal papa all’ultimo dei sudditi.

2) La prevalenza del “profano” in ambito soprattutto ecclesiastico si ricollega al problema della funzionalità dei cicli iconografici dei mesi: contrariamente a quanto si possa pensare, le figurazioni medievali dei mesi non erano concepite come strumenti pratici finalizzati al computo temporale, né come “promemoria” delle attività da svolgere.

Esclusa una finalità di carattere pratico-mensurale, rimane allora la possibilità di un significato simbolico-ostensivo e, in senso lato, di promozione ideologica. Se per gli uomini del Medioevo quello religioso era il fondamentale quadro di riferimento culturale, al di fuori del quale non si dava nemmeno la possibilità di esprimersi, l’ubicazione in un contesto anche fisicamente cristiano (edifici sacri e manoscritti) e la cronologia della diffusione delle rappresentazioni figurate dei mesi sembrano riflettere in maniera molto significativa un’importante evoluzione del pensiero cristiano riguardo ai temi cruciali del lavoro manuale e del tempo.

La Chiesa riconosce la dignità e la funzione dei lavori manuali, prendendo finalmente coscienza del fatto che i contadini sono il pilastro e il fondamento su cui si regge l’intera società del tempo, e da cui dipende, molto concretamente, il suo sostentamento. Ecco allora una nuova teologia del lavoro, lavoro che per la prima volta nella storia del cristianesimo diventa un mezzo positivo, cioè meritorio, per accedere alla salvezza eterna, ricucendo la rottura del patto tra uomo e Dio verificatasi con il peccato originale.

 

 

Da leggere:

C. Frugoni, Chiesa e lavoro agricolo nei testi e nelle immagini dall’età tardoantica all’età romanica, in Medioevo rurale. Sulle tracce della civiltà contadina, a cura di V. Fumagalli e G. Rossetti, Bologna 1980, pp. 321-341;

P. Mane, Calendriers et techniques agricoles. France-Italie, XIIe-XIIIe siècles, Paris 1983;

J. Le Goff, Il tempo del lavoro. Agricoltura e segni dello zodiaco nei calendari medievali [Storia e Dossier], 1988;

C.D. Fonseca, Lavoro agricolo e tempo liturgico, in Uomo e ambiente nel Mezzogiorno normanno-svevo, Atti delle ottave giornate normanno-sveve (Bari, 20-23 ottobre 1987), Bari 1989, pp. 67-87;

L. Canetti, Tempo, lavoro e liturgia. Alle radici del calendario medievale [a stampa, Parma 1999 - distribuito in formato digitale da "Reti Medievali"];

J. Le Goff, L’Occidente medievale e il tempo, in Id., I riti, il tempo, il riso. Cinque saggi di storia medievale, Bari 2001, pp. 115-138;

W. Sauerländer, Tempi vuoti e tempi pieni, in Tempi Spazi Istituzioni [Arte e Storia nel Medioevo, I], Torino 2002, pp. 121-170.

  

  

©2002-2004 Stefania Mola

   


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