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LE OPERE E I GIORNI a cura di Stefania Mola   Otranto

Le opere e i giorni       Il mosaico pavimentale      I mesi

 

Un pastore spinge al pascolo i suoi animali, aiutandosi con un bastone.

Accompagna la raffigurazione di aprile il segno zodiacale dell’Ariete, dal punto di vista astrale affine a Marte e al Sole, primo segno dello zodiaco (e, insieme al Sagittario e al Leone, segno di Fuoco) collocato a 30° dall’equinozio di primavera. Lo rappresenta l’animale corrispondente, il maschio della pecora che nella leggenda astronomica greca aveva un tempo il “vello d’oro”.

All’interno dello zodiaco, l’Ariete è il segno che corrisponde al risveglio della natura dopo il letargo invernale, all’ascesa del sole (che supera l’equatore celeste giungendo nella parte settentrionale del cielo, risorgendo dai simbolici inferi delle tenebre invernali), al passaggio dal freddo al caldo, dall’ombra alla luce. Il suo simbolo è intimamente collegato alla natura del fuoco primigenio, rappresentazione cosmica della potenza e dell’energia esplosiva, fuoco creatore e distruttore al tempo stesso cieco e ribelle, generoso e sublime. A tale forza ignea corrisponde l’idea della vitalità originaria che sgorga ed erompe, lo slancio primitivo della vita, l’impulso brutale e puro di ogni processo incipiente.

La scena è accompagnata dall’indicazione del mese (Ap[ri]/lis).

L’etimologia del nome di Aprile, traduzione del latino Aprilis, viene individuata da alcuni nella derivazione dal greco Aphrodíte, da aphrós, spuma, dalla quale si ritiene sia nata Venere; da altri nella più semplice ed immediata ragione che la primavera aperit, fa cioè sbocciare tutte le cose.

Macrobio Teodosio e Marco Terenzio Varrone, già scettici alla loro epoca riguardo alla prima ipotesi, ricordano infatti di considerare le condizioni climatiche che accompagnano l’equinozio di primavera: brutto tempo, cielo coperto, mare non propizio alla navigazione, acque e ghiacci ancora presenti sulla terra. A fronte di questa situazione, tutto si apre con la primavera, dagli alberi ai frutti della terra, ben a ragione sostenendo che Aprile possa essere considerato “mese di apertura”, in linea con il mese che ad Atene veniva chiamato anthesterión (“dei fiori”).

La presenza dell’Ariete, in linea con la maggior parte dei calendari medievali che collegano a tale segno l’inizio dell’anno agricolo e cristiano, rimanda nella sua iconografia all’omonimo animale dalla forte valenza simbolica che in molte tradizioni si identifica con il simbolo dell’autorità suprema: ad esempio in Egitto con Amon-Ra, dio supremo e creatore degli dei avente testa di ariete, o a Roma con Giove Ammone dotato di corna.

 

Mitologia della costellazione dell'Ariete

Fin dall'antichità, l'Ariete ha assunto un ruolo di rilievo nel quadro delle costellazioni, poiché in esso cadeva il Punto Y, ovvero il punto equinoziale di primavera, identificato con la stilizzazione di una testa di ariete nella suddetta lettera greca.

Nella mitologia classica la figura dell’Ariete è collegata al mito del “vello d’oro”. Re Atamante di Beozia, padre di Frisso ed Elle, aveva sposato in seconde nozze la giovane Ino la quale, vedendo nei figliastri una minaccia per la propria discendenza, ordì un piano a causa del quale il popolo fu privato del raccolto e ridotto alla fame; corruppe poi il messaggero inviato da re Atamante presso l’oracolo di Delfi, affinché riferisse che la carestia sarebbe cessata soltanto con il sacrificio del principe Frisso e della sorella. Approntato già l’altare per l’olocausto, Zeus volle salvare i due giovani innocenti inviando una nuvola in cui era celato un’ariete dal manto d’oro. L’animale sollevò sulla groppa Frisso ed Elle ma, mentre sorvolava lo stretto di mare conosciuto oggi come “dei Dardanelli”, la fanciulla cadde nelle acque che da allora furono chiamate Ellesponto (cioè il mare di Elle). Frisso, invece, raggiunta la salvezza sulle coste della Colchide, sacrificò l’Ariete a Zeus (che ricompensò l’animale trasferendolo tra le stelle) e donò il vello ad Eeta, re di quelle terre, che pose a guardia del prezioso manto un serpente mostruoso, all’interno di un boschetto sacro ad Ares. Di quel vello, benedetto dagli dèi e fonte di ogni possibile prosperità, si sarebbe impadronito Giasone nel corso dell’impresa degli Argonauti. Al fatto che il prezioso manto rimase sulla terra si attribuisce la debole luminosità della costellazione celeste.

Non ultima in fatto di importanza, la coincidenza “storica” secondo la quale la crocifissione di Cristo avvenne sotto il segno dell’Ariete.


Dal mito ai riti e ai simboli della Pasqua ebraica e cristiana

Le allegorie celate nel mito, prima fra tutte l’Ariete che viene sacrificato per offrire il vello d’oro, alludono ad un misterioso evento che si svolge “nel cielo” e che la cristianità medievale, insieme ad altri miti e riti pagani dell’equinozio, ha reinterpretato come un’allegoria della Redenzione.

L’Antico Testamento ci informa che anche gli Ebrei avevano una festa – il Pesah – che coincideva con l’inizio della primavera calcolato sul corso della luna e le cui celebrazioni iniziavano la sera del 14 di nisan (al plenilunio del primo mese lunare dopo l’equinozio).

Si trattava di un rito memoriale (Pesah = saltare oltre) risalente ad un’arcaica celebrazione familiare di ambito pastorale con la quale si solennizzava il rinnovamento del cosmo a primavera, immolando al chiaro di luna i primi nati del gregge e spargendone il sangue a protezione dalle calamità e in auspicio di fecondità, consumandone le carni in un pasto rituale e danzando in un ritmico “saltar oltre” che in seguito sarebbe stato “storicizzato” ed attribuito alla benevolenza di Yahweh che era “saltato oltre” le case degli Israeliti (segnate dal sangue del primo nato del gregge) e aveva risparmiato i loro primogeniti maschi uccidendo solo quelli egiziani.

Ai riti del Pesah fu collegata la settimana delle mazzoth, o azzimi, un’altra tradizione arcaica derivante da una festa primaverile celebrata nella zona di Canaan, terra di arrivo degli Ebrei dall’Egitto. Lì si celebrava l’inizio della mietitura con l’offerta del primo covone nel santuario e la consuetudine di cibarsi per una settimana di pane non lievitato (poiché durante il viaggio non era possibile farlo lievitare); anche questo rito venne storicizzato e collegato al Pesah, a ricordare la fretta con cui gli Ebrei erano partiti senza avere avuto il tempo di far lievitare il pane. Ancor oggi, nel tempo della Pasqua ebraica – che comprende molti altri riti memoriali della storia della salvezza – è compendiato tutto il percorso salvifico lungo il quale si snoda l’avventura del popolo eletto in cammino verso la meta finale.

La Pasqua cristiana, con il Cristo/agnello che deliberatamente muore in occasione del Pesah, si ricollega a quella ebraica. Liberati, come già gli Ebrei, dalla schiavitù spirituale grazie al sangue dell’agnello, i cristiani celebravano però non il memoriale del sacrificio bensì quello della risurrezione. Attraverso divergenze e scontri tra le diverse chiese nel corso dei secoli, la data di celebrazione della Pasqua cristiana (in stretta relazione con i paralleli riti ebraici) arrivò ad essere fissata (con tutte le caratteristiche della festa “mobile”) solo all’indomani del concilio di Nicea (325) che fissò l’equinozio di primavera nel calendario giuliano al 21 marzo; ragione per la quale la festa, fissata per la domenica successiva al primo plenilunio post equinozio, può cadere in una data compresa tra il 22 marzo e il 25 aprile.


Uova di Pasqua e Pasqua d’Uovo

Un tempo la domenica di Resurrezione era chiamata anche Pasqua d’Uovo, perché festeggiata donando e mangiando uova sode colorate, già benedette in chiesa. Spesso (fin dal XII secolo) in molti paesi europei si usava scambiare uova smaltate, arricchite con gemme e pietre preziose, in porcellana, in vetro, anche in oro e argento, decorate con scritte e simboli pasquali, secondo una tradizione che oggi sopravvive con le uova di cioccolato.

Attualmente la tradizione di colorare e donare uova benedette si ritrova esclusivamente nel mondo orientale, per esempio in Russia, dove l’uovo pasquale si chiama pysanky, parola che ha la stessa radice del verbo scrivere, poiché la sera del sabato santo è d’uso tracciare sul suo guscio simboli cristiani accompagnando questa consuetudine con la preghiera o con il canto di antiche melodie; la mattina di Pasqua ogni famiglia porta infine in chiesa il cestino di uova dipinte perché siano benedette.

La ragione simbolica celata dall’uovo risiede nella sua identificazione con il Cristo risorto, laddove l’uovo in ogni tradizione porta con sé il legame con il simbolismo della “nascita” e la memoria di arcaici riti primaverili in seguito “cristianizzati”. La Pasqua, come si è visto, cade prevalentemente sotto il segno dell’Ariete, in coincidenza con il nuovo anno astrologico, quasi un segno della ricreazione dell’anno e del cosmo. L’uovo, che nasce da una vita e dà origine ad una nuova vita, è simbolo universale del rinnovamento periodico della natura, del ciclo delle rinascite che inizia con l’equinozio di primavera: mangiare uova è dunque augurio solenne di un buon anno nuovo.

Nella mitologia indiana, da un uovo splendente e galleggiante sulle acque primordiali nacque Brahma, e dalla divisione dell’uovo stesso il cielo e la terra. A sua volta un mito orfico greco racconta che in principio era la Notte che, nelle sembianze di un grande uccello, depose un uovo d’argento nel grembo dell’oscurità: dall’uovo nacquero Eros, l’intero cosmo e tutte le sue creature.

Il Cristianesimo delle origini collegò all’uovo “cosmico” il principio di vita “futura”, ragione che spiega il ritrovamento, in alcune tombe romane di martiri (sepolcri di Santa Balbina e di Santa Teodora), di uova simboliche in marmo; ma l’uovo di resurrezione per eccellenza resta comunque il Cristo, adombrato nell’antica usanza propria di molte cattedrali di deporre nel sepolcro rituale insieme all’eucarestia – il giovedì santo – un uovo di struzzo, che sarebbe stato recuperato nel giorno di Pasqua. In alcuni reliquiari medievali quello delle uova di struzzo è un simbolismo ricorrente, al pari dell’usanza in vigore nella cattedrale spagnola di Burgos di sospendere alcune uova ai piedi del Crocifisso. È un uovo di struzzo, a sua volta, quello che pende sulla sacra rappresentazione nella celeberrima Pala di Brera di Piero della Francesca (1475), emblema della perfezione divina e simbolo della superiorità della fede rispetto alla ragione.


Un canto nella notte: l’Exultet

Nell'archivio diocesano di Bari si conserva una ricca raccolta di pergamene, tra cui spiccano i cosiddetti Exultet (primo fra tutti il prezioso Exultet I, trascritto in città forse nello scriptorium del monastero di S. Benedetto), così chiamati dalla prima parola del testo liturgico cantato dal diacono – «con voce piacevole e limpida», raccomanda Rabano Mauro – nel rito che introduce la veglia pasquale. Straordinario repertorio figurativo, ritmico-musicale e simbolico, l’Exultet è un canto festante e gioioso per un momento liturgico che rievoca la “meraviglia” centrale della storia della salvezza. La Pasqua, infatti, segna per il mondo cristiano il trionfo della salvezza definitiva, che si esprime attraverso alcuni riti assai significativi: in particolare, lo sfondo della celebrazione pasquale negli Exultet baresi è costituito dalla liturgia della luce e da quella battesimale, riti comprendenti le benedizioni del fuoco, del cero e dell’acqua, accompagnati da notazioni musicali.

Davanti a questa “meraviglia” il canto prende il sopravvento sul ragionamento filosofico e teologico. L’Exultet è una delle più alte espressioni della liturgia cattolica, nella quale parola e melodia si fondono miracolosamente, gridando l’esultanza della Chiesa dopo la benedizione del fuoco nuovo e l’accensione del cero pasquale che simboleggia il Cristo risorto. È dunque poesia, bellezza letteraria, musica, immagini, ma anche documento emblematico della capacità di Bari di armonizzare civiltà diverse, riappacificando le tante etnie che nel Medioevo concorrevano a disegnare il variegato mosaico culturale della città.
La consuetudine dell’epoca ne faceva un rotolo pergamenaceo, spesso illustrato da numerose illustrazioni miniate, caratterizzato dalla disposizione della scrittura in senso opposto alle immagini. Dobbiamo immaginare che questo accorgimento consentisse, nel momento in cui esso veniva srotolato dal diacono cantore dall’alto dell’ambone, di guardare le figure dal verso giusto, anche e soprattutto tenendo conto che pochi comprendevano il latino recitato dal celebrante. Sulla superficie istoriata si dipana il ciclo della storia della salvezza nella quale si fondono le raffigurazioni dei misteri della fede cristiana con le immagini della liturgia vissuta dal popolo di Dio, dalla gente comune come dai potenti, protagonisti del dramma liturgico all’interno della cui evoluzione il canto dell’Exultet diviene momento privilegiato. Bibbia dei poveri al pari degli affreschi che ricoprivano le pareti delle chiese, il rotolo di Exultet offriva così agli occhi dei fedeli la lenta sequenza di colori e di immagini in cui si rispecchiava la storia umana e divina.

Tecnicamente si tratta di fogli membranacei cuciti insieme e datati all’XI secolo sulla base delle caratteristiche grafiche: la scrittura è infatti indicata come beneventana del “tipo Bari” (Bari type), tipica per le sue lettere tondeggianti e ad aste corte. Particolarmente interessanti sono le notazioni musicali che accompagnano le parti della liturgia destinate al canto: anche per il canto liturgico, nonostante l’influsso della vicina Benevento, Bari si dimostra originale, tanto da aver fatto ipotizzare agli specialisti l’esistenza di una schola barese, latina, occidentale, ma dotata di modulazioni e repertori propri, fortemente influenzati dalla tradizione culturale greco-bizantina. È il canto che trasforma la parola scritta in poesia e in preghiera, un canto (quello cosiddetto “gregoriano”) che non ha senso se non in funzione della parola, che è legata al pensiero, che nasce dall’anima, che ha origine dal divino.

  

  

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©2002-2003 Stefania Mola


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