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FRANCESCO STELLA

  

Con Marco Polo nel ventre dell'Asia agli albori della globalizzazione

   

Il nuovo libro di Vito Bianchi, una biografia che è un grande, affascinante affresco storico

  

    

   

È mai andato in Cina Marco Polo? Qualche anno fa Frances Wood, direttrice del Dipartimento Cinese della British Library, aveva suscitato con questo titolo lo scandalo necessario per attirare l'attenzione dei media su una ricerca storica. La sua perplessità si basava sull'assenza della Grande Muraglia dalle celebri memorie dettate da Polo a Rustichello di Pisa, suo compagno di prigionia nel 1298-99, e intitolate prima Devisement dou monde (Descrizione del mondo) e successivamente Il Milione. E il seme del dubbio è stato poi coltivato, fra gli altri, da David Selbourne, che ha attribuito la conoscenza del continente cinese in Europa a un altro mercante italiano, Giacobbe d'Ancona, sulla base di documenti tenuti segreti dai loro possessori privati. 

Ma storici più prudenti, soprattutto cinesi, come Fang Hao o Yang Zhijiu, si sono schierati per difendere dall'attacco dei revisionisti occidentali l'attendibilità di Marco Polo, che la Cina considera tuttora come il suo primo geografo. La sintesi sulla questione, appena pubblicata per Laterza dall'archeologo Vito Bianchi, aiuta a orientarsi su queste novità delle ricerche, e soprattutto restituisce con un'ariosa narrazione panoramica la visuale planetaria a un'esperienza che siamo abituati a relegare in un limbo quasi fiabesco. Se c'è ancora qualcuno che considera la globalizzazione un fenomeno esclusivamente contemporaneo, se c'è ancora qualcuno che immagina l'economia e la società medievali come realtà statiche e chiuse, la lettura di questo Marco Polo. Storia del mercante che capì la Cina lo aiuterà a liberarsi da qualche pregiudizio. Le descrizioni dei mercati di Venezia, Haifa, Hormuz, Samarcanda, Hangzou, Suzhou, Constantinopoli, Crimea, Alessandria d'Egitto danno l'impressione di alveari brulicanti di lingue, di etnie e di riti come oggi Hong Kong o domani la città di Blade Runner

Agglomerati di volti e di suoni in continuo movimento dove convivono filiali di repubbliche marinare e ordini religiosi, società di mercanti arabi e aziende tessili fiamminghe, dove si acquistano sete cinesi per la Francia o giraffe africane per la corte di Pechino. Paesi apparentemente remoti si rivelano tutti collegati, allora come oggi, da una rete fittissima di relazioni commerciali, politiche, militari. Per questo, la raffinata manovra a tenaglia articolata da Bianchi per contestualizzare il percorso di Marco Polo nella realtà globale del suo tempo parte da molto lontano, per «aggredire» la narrazione del viaggio solo a un terzo del libro: se la storia di Venezia è seguita passo dopo passo, la zoomata iniziale è su un accampamento mongolo del basso Volga, dove i cavalieri di Gengis Khan preparano l'attacco all'Europa orientale già allora fragile e divisa e gettano le basi di quella pax Mongolica che renderà possibile il viaggio di Marco. La loro inarrestabile avanzata e la loro improvvisa ritirata, alla morte del condottiero, sono scandite dalle leggende che li accompagnavano nell'immaginario occidentale, e che noi conosciamo attraverso testi letterari di difficile reperibilità: Bianchi ce li fa sfogliare col piacere di esplorare un mondo esotico, precluso al lettore non specialistico dalla carenza di traduzioni e dalla censura antimedievale dei programmi scolastici. Anche il personaggio-Cina, vero protagonista dell'avventura, viene introdotto dai resoconti letterari dei missionari francescani e domenicani che ne lasciarono le prime descrizioni. Portavano messaggi pontifìci agli imperatori mongoli nella speranza di intrecciare relazioni, e mentre i progetti dei papi puntualmente fallivano a causa di un approccio paternalistico e vagamente coloniale che non poteva non suscitare reazioni piccate, i racconti di questi ambasciatori, popolati da ricchezze inaudite e fenomeni prodigiosi, accendevano invece la fantasia degli europei. E quando la protezione bizantina sui porti mediorientali venne meno in seguito a mutamenti politici, l'impraticabilità degli scali consueti spinse i veneziani a cercare sbocchi proprio nei luoghi che avevano conosciuto dai racconti dei viaggiatori.

Spiegata così, la partenza di Marco con il padre Niccolò e lo zio Matteo ci appare nel libro come la soluzione più naturale alle difficoltà imprenditoriali del momento, un po' come i viaggi di Diego Della Valle per aprire nuovi mercati alle sue Tod's. Ma via via che si inoltra nel ventre dell'Asia il racconto di Marco, ripercorso qui con linguaggio preciso ma disinvolto, offre infiniti spunti forieri, ancora oggi, di stupore: dai dettagli pulp come l'uso di succhiare il sangue dei cavalli o i suicidi rituali, anche di massa, in occasione di funerali illustri, a mitologie paraterroristiche come i progetti politici del Vecchio della Montagna e della sua setta ismailita di Assassini, il cui nome una falsa etimologia collegava all'uso dell'hashish.

Chi avesse letto il Milione nella versione ridotta, diffusa fino a qualche anno fa, resterà sorpreso dalla disperata libertà sessuale con cui le famiglie tibetane offrivano le proprie mogli e figlie in ospitale e remunerativa consolazione ai viandanti stranieri, o dal romanticismo delle barche dell'amore, provviste di cabine con oblò, nei laghi di Quinsai; dalla tenerezza delle nozze virtuali, celebrate con figure di carta, degli sposi morti prematuramente o dalla comicità rabelaisiana dell'urina congelata mentre esce dopo una sbronza nelle lande siberiane. Pagina dopo pagina ci si abitua alle cascate di gemme e di spezie che inondano ogni porto di questa Asia ricchissima, civilissima, ferocissima, sensualissima, e tanto vasta. Bianchi e Laterza hanno scelto il momento giusto per riproporci l'epopea asiatica di chi per primo seppe «varcare la soglia della differenza», e tuttavia sarebbe riduttivo ricavarne il consueto panegirico dei mercanti come homines novi del tardo medioevo, classe in grado di muovere la storia e di cambiare la direzione dei rapporti politici e delle rigidità ideologiche. Nella realtà dei fatti Marco Polo fu derubato a Trebisonda, sulla via del ritorno, di quasi tutto quello che era riuscito a guadagnare in Cina, e arrivò a Venezia con pochi spiccioli, senza avviare mai un vero e proprio sfruttamento commerciale della sua straordinaria esperienza. 

La grandezza del suo ruolo culturale rimane tutta nei centocinquanta manoscritti delle molte versioni del suo diario, dal francese al latino al franco-toscano alle mille lingue di quel medioevo che proprio nell'immaginario - nella vituperata «letteratura» - trovò la forza in grado di sbloccare la modernità: come i racconti dei missionari contribuirono probabilmente a incoraggiare la partenza dei mercanti veneziani, così Cristoforo Colombo fu spinto alla ricerca dell'Eldorado orientale anche dalle meraviglie descritte nel Milione. Inventate o no.


Francesco Stella

 

 

dal quotidiano «Il Manifesto», 17/1/2008

 

    

 

 

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