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                                                     MARCO
                                                    BRANDO 
                                                   | 
                                                 
                                                
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                                                     L’ombra di Gengis Khan arrivò fino a Castel del Monte 
                                                   | 
                                                 
                                                
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                                                     Un'avvincente biografia dell’imperatore mongolo scritta da uno storico barese per Laterza. Un libro capace
                                                    di “narrare” anche la storia
                                                    apparentemente più lontana
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                                «Castel del Monte, Mezzogiorno
                                d’Italia: un ottagono imperfetto e sontuoso, isolato al culmine di un
                                rilievo, fra pietra e cielo della Murgia pugliese. In una delle otto torri
                                che ritmano la geometria dell’edificio c’è una sala con il soffitto
                                esapartito. Nella penombra che s’addensa verso l’alto, sculture di telamoni
                                accovacciati evocano volti occidentali, un probabile ebreo, un
                                africano riccioluto. Un altro personaggio ha gote larghe e piene, il naso
                                un po' schiacciato, gli occhi allungati, una peluria men che scarsa sul
                                viso e la capigliatura tirata all’indietro. Lo si direbbe un orientale, un
                                uomo dell’Asia più profonda. Non necessariamente un mongolo. Eppure,
                                proprio negli anni di costruzione di Castel del Monte, l’Europa
                                veniva attraversata dal terrore dei cavalieri delle steppe…
                                Appena un braccio di mare separava i Mongoli dal regno meridionale di
                                Federico II e dalle pertinenze papali». 
                                È il prologo del nuovo libro di Vito
                                Bianchi:  Gengis Khan. Il principe dei nomadi, edito da Laterza
                                e appena giunto nelle librerie. Citare il prologo può apparire prevedibile.
                                Ma non lo è. Il volume non è affatto dedicato alla Puglia, citata
                                in quell’occasione e di sfuggita un paio di altre volte. Né, tanto meno,
                                s’aggiunge alla bibliografia sul castello fridericiano
                                (bibliografia «arricchita» anche da molte fantasiose
                                concessioni ai fan dell’esoterismo, alla faccia dell’incolpevole Federico
                                II). Anzi, è un’opera globalizzante, che ha tutte
                                le potenzialità per piacere a un vasto pubblico, diciamo...,
                                euroasiatico: i cui antenati ebbero a che fare con il vivace imperatore
                                mongolo, Gengis Khan. Tanto è vero che il volume è stato portato da Laterza
                                alla Fiera del libro di Francoforte, per essere presentato fra i titoli di
                                punta dell’editore barese per il 2005. 
                                Tuttavia Vito Bianchi è pugliese:
                                fasanese, professore a contratto di Archeologia all’Università di Bari,
                                archeologo specialista, si è dedicato ai rapporti culturali e religiosi
                                fra l’Europa, il Mediterraneo e l’Oriente. Collabora dal 1999 con
                                la rivista «Medioevo» e ha al suo attivo altri libri. Cosicché in quel prologo
                                testimonia, citando l’ipotesi del volto mongolo scolpito su Castel
                                del Monte, sia il legame con le proprie radici sia il
                                coraggio del ricercatore che lavora in modo
                                scentifico: d’altra Bianchi formulò pubblicamente
                                per la prima volta la sua teoria legata a quel particolare
                                telamone in un importante convegno internazionale
                                su Federico II svoltosi nell’aprile scorso a Innsbruck, in Austria. 
                                Non solo. Il giovane studioso già
                                nel prologo rende l’idea dello stile con cui ha scritto il volume: pur realizzato
                                con rigore scientifico, si fa leggere come se fosse un romanzo,
                                che avvince qualsiasi lettore fino all’ultimo e conferma una capacità di
                                scrittura creativa notevole. Bianchi dunque racconta la storia
                                di Gengis Khan (1155? - 1227), appunto: un nomade mongolo che
                                seppe aggregare tribù sparpagliate per le lande asiatiche e fonderà un
                                impero esteso in tre quarti di secolo dall’Oceano Pacifico fin quasi al
                                Mediterraneo e dalla Siberia all’Himalaya. 
                                «È un libro capace di “narrare
                                la storia”, anche quella che appare meno nota e più complessa -
                                conferma Raffaele Licinio, professore di Storia medievale a Bari -
                                Un libro che non si limita ad avvicinarci ad un mondo che erroneamente
                                continuiamo ad avvertire come profondamente “altro”, estraneo,
                                lontano: ce ne spiega invece il peso e l’influenza nel nostro Medioevo,
                                nella nostra cultura, nei nostri modelli di vita. E perciò ci scardina,
                                allargandolo alla dimensione della storia globale, il nostro piccolo
                                orizzonte storico eurocentrico. Anche qui, presso i popoli della
                                steppa, vanno cercate le nostre radici». 
                                 
                                 
                                Marco
                                Brando
                  
                                    | 
                                  
                                    
                                  
                  
                                      
                  
                                     
                  
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