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L'EDITORE

José Ortega y Gasset, Meditazione sull'Europa, Seam, Formello (Rm) 2000, pp. 145.

MANLIO TRIGGIANI

  

L'Europa di Ortega y Gasset

  

  
   
Cos'è l'Europa, un prolungamento dell'Asia, come affermava con tono polemico Nietzsche, o un'idea nata nella cultura greca che ha assunto un'importanza universale, per dirla con Husserl?

Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset se lo domandò a Berlino, quando tenne una conferenza sull’Europa a studenti universitari. Era il 1949, quattro anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, nella capitale di quello che era stato il Terzo Reich, nei cui quartieri erano ancora visibili le macerie. 

La finalità di Ortega era di mostrare l’importanza e l’urgenza di un’unione sopranazionale fra tutti gli Stati europei. Una volontà di unione che il pensatore spagnolo considerava necessaria pur elogiando l’idea di nazione e reputando la sua esaltazione, cioè il nazionalismo, deleterio e contrario all’unione europea, un processo, secondo Ortega, che deve passare attraverso l'unità sopranazionale degli Stati europei, tenendo sempre in debito apprezzamento il concetto di nazione. In breve, positivo il concetto di nazione, negativa la sua ipertrofia, il nazionalismo. Anzi, per Ortega l’Europa era un equilibrio politico e spirituale anteriore agli Stati nazionali, da tararsi sulla base delle pluralità espresse dai vari Paesi. 

Già nell’Ottocento il nazionalismo era esploso in tutti i Paesi europei e la possibilità di unione e convergenza più tardi si allontanò lasciando spazio esattamente all’inizio del Novecento, a quella che giustamente Ernst Nolte ha definito «la guerra civile europea», che ha bagnato di sangue l'Europa in due guerre mondiali e ha allontanato per decenni la possibilità di una unione reale che ancora oggi è lungi dall’essere compiuta dal punto di vista politico. Di contro, la sua antitesi, l’internazionalismo, è considerato poco interessante, poco produttivo da Ortega, perché non comprende il nocciolo della nazione, il suo interiore significato, una realtà «con cui bisogna fare i conti» (p. 142).

L’europeismo di Ortega y Gasset deriva da due realtà: la nascita della società di massa e l’urgenza di un processo del rinnovamento del concetto di nazione, in particolare per lui, intellettuale spagnolo che aveva viaggiato e studiato in Germania e in Francia. In questi viaggi constatò l’arretratezza della Spagna, la necessità di dover fare i conti con la modernità e con il suo superamento; questo era, per lui, il compito da assolvere per lo sviluppo della Spagna e contributo alla civiltà europea. 

Infatti, nei primi decenni del Novecento, ferveva un dibattito, in Spagna, fra coloro che rimarcavano la centralità spagnola (Unamuno) e coloro che invece propugnavano la necessità di una nazione che avesse l’Europa come punto di riferimento per un radicale rinnovamento. Ortega era con i secondi, a favore della coniugazione di due poli di riferimento: la nazione e l’Europa. Perché l’Europa, per Ortega, era sinonimo di cultura, norma di ideali che poteva contribuire largamente a un rinnovamento e a una riforma intellettuale della Spagna. E non è un caso che proprio due aspetti della riflessione intellettuale del pensatore madrileno avessero investito la modernità e le masse (La ribellione delle masse, 1930; edito dal Mulino, Bologna 1962) e la Spagna moderna (España invertebrata,1920). E, ancora, non è un caso che uno dei primi volumi tradotti in Italia di Ortega sia stato proprio La Spagna e l’Europa (una raccolta di scritti sul tema edita da Ricciardi, Napoli, nel 1936), antologia di particolare interesse per quel tempo che aveva la finalità di far conoscere questo autore importante. Ma ne La Spagna e l’Europa (pp. 85-107) Ortega sottolinea l’importanza della comunanza di cultura e di tradizioni fra i popoli europei, sottolineando le cause dell’arretratezza spagnola, non mancando anche di sminuire il significato della Reconquista («non comprendo come si possa chiamare Reconquista una cosa che dura da otto secoli», op. cit., p. 99). 

Ma, contrariamente a ciò, negli anni Cinquanta del secolo scorso, Camus scrisse un intervento su una rivista anarchica in cui, parlando anche di Ortega, spiegò che l'Europa avrebbe potuto imparare dalla Spagna (cit. in Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari-Roma 1996, p. 106). Per Ortega la Spagna avrebbe avuto un significato «solamente se si integra intellettualmente all’Europa» e quindi il richiamo all’Europa si coniugava con un progetto di rinascita, definito sull'urgenza di un richiamo a valori e a una visione del mondo che facessero appello al futuro, con l’affermazione di nuove aristocrazie, di nuove élite (il riferimento è a Pareto ma anche, secondo alcuni critici, a un impulso nietzscheano e fichtiano). 

Ciononostante, per un certo periodo Ortega, liberale e conservatore, guardò con attenzione anche al magma socialista che in quegli anni si sviluppava in Spagna ma, come lui stesso ebbe a dire, il socialismo era inquinato di sindacalismo rivoluzionario e di anarchismo e quindi lontano dall’ansia di rigore, che manca a una classe dirigente, e a un popolo "invertebrati". Altra analisi interessante, collegata al concetto di nazione e Spagna, fu sviluppata ne Il tema del nostro tempo (edizioni SugarCo, Milano 1985). In Spagna, del resto, la cultura ristagnava nonostante ci fossero grandi personalità (per un affresco del periodo, cfr. Marcigliano, I figli di don Chisciotte, Editoriale Pantheon, Roma, 2003, pp. 60 e ss.).
Nella Ribellione delle masse, Ortega analizzò l’epoca dell’avvento delle masse, di una società che spersonalizza l’individuo, lo rende uomo-massa (pp. 9 e ss. e 51 e ss., Il Mulino, Bologna, 1974) e già allora, nel 1930, scorse la possibilità che l’America, intendendo gli Usa, potesse colonizzare l’immaginario europeo. Dice: «L’Europa non si è americanizzata. Non ha ricevuto ancora un grande influsso dall’America. L’una cosa e l’altra semmai si iniziano proprio adesso; però non si produssero dal più recente passato, dal quale germoglia il presente. (…) Il trionfo delle masse e la conseguente magnifica scesa del livello vitale si sono verificate in Europa per ragioni interne, dopo due secoli di educazione progressista delle moltitudini e in seguito a un parallelo arricchimento economico della società. Ma il fatto è che il risultato coincide con il tratto più decisivo della vita americana; e per questo, poiché coincide la situazione morale dell’uomo medio europeo con quella dell’americano, è avvenuto che per la prima volta l’europeo arriva ad intendere la vita americana, che prima era per lui un enigma e un mistero».
Un parallelo e un'analisi che la dicono lunga sull’evolversi dei rapporti fra i due continenti. Al centro della riflessione orteghiana restava comunque l’Europa lo scrittore auspicava un’Europa unita che non opprimesse le specificità nazionali e regionali, un’Europa unita nel nome del passato e del futuro, ma che tenesse conto delle particolarità, delle tradizioni, dei costumi locali. Un forte richiamo, quindi, a un ordine spirituale e politico unico, da ottenere superando le questioni monetarie in una dimensione europea, in una visione di "grande politica". Del resto, per Ortega l’Europa esiste già da secoli, con tutte le sue differenze e contraddizioni e per questo crearla non significa doverla realizzare a tavolino, grazie a politici o tecnocrati, ma solo attraverso lo sforzo di far affiorare una realtà latente, preesistente: la civiltà europea che supera le patrie, piccole e grandi, per rilanciare quello che per Ortega è un progetto rigeneratore. Ma l'Europa è anche concepibile, secondo alcuni intellettuali, come un'idea che nel corso dei secoli si è irradiata nel mondo (cfr. Reale, Radici culturali e spirituali dell'Europa, Cortina, Milano 2003, pp. 37 e ss., oppure Morin, Pensare l'Europa, Feltrinelli, Milano 1988, p. 75). 
E queste idee dell'Ortega degli anni Trenta, vengono da lui stesso riprese nel 1949, in maniera accorata, in occasione della conferenza per gli studenti tedeschi, con la volontà di sottolineare che l’Europa non è in decadenza, che restano possibilità di rilancio. E proprio per questo comincia la sua meditazione affermando che «Penso che è a Berlino, proprio a Berlino, dove si deve parlare di Europa» (Meditazione sull’Europa, p. 51) e più in là rimarca: «Al di sotto dei fenomeni superficiali, che si percepiscono a occhio nudo – la penuria economica, la confusione politica – l’uomo europeo comincia a emergere dalla catastrofe e grazie alla catastrofe! Ma conviene avvertire che le catastrofi appartengono alla normalità della storia, sono un prezzo necessario nel funzionamento del destino umano. Una umanità senza catastrofi cadrebbe nell’indolenza, perderebbe tutto il suo potere creatore (…). La storia appartiene alla categoria del mutamento».

Catastrofe e mutamenti per Ortega sono stati i due assi che hanno dato impulso alla storia ma sempre secondo una «forma duale di vita» (pp. 69 e ss.), «quella che viene dal suo fondo europeo, comune a tutti e la sua specifica che su questo fondo si è creata». Insomma, ogni nazione, ogni popolo europeo hanno avuto due piani di esistenza, due piani di identità: uno nazionale e uno sovranazionale, nella dimensione europea. Ortega individua un europeismo del IX secolo, con Carlomagno, e in quel periodo l'aspetto meno importante, sempre per Ortega, era proprio l'unità statale perché l'imperium era al centro della storia europea. Come anche nel Settecento, altro secolo considerato dal pensatore spagnolo «secolo europeo». Ma Ortega rimarca che già nel Seicento «la realtà nazione si presenta già con tutti i suoi attributi, integralmente costruita. I popoli d'Occidente erano arrivati nel loro sviluppo a costituirsi una vita propria sufficientemente ricca, creatrice e caratteristica perché in quell'epoca saltasse agli occhi di ciascuno che essa era diversa da quella degli altri. Per la prima volta, allora, almeno con dichiarata frequenza e intensità, si parla in ogni paese dei nostri capitani, dei nostri sapienti, dei nostri poeti. È la piena coscienza della nazionalità. (…) Ma questo rivela che una nazione non può mai essere una sola. Al rigoroso e non vago concetto di nazione appartiene invariabilmente la pluralità… Nessun popolo europeo si sarebbe riconosciuto come nazione, per esempio, di fronte agli arabi». 

Non solo: fu anche la contrapposizione all'Islam che sviluppò la coscienza di Occidente, tenendo presente che allora Occidente significava principalmente Cristianità, la quale peraltro coincideva con l'Europa. E per questo le Crociate furono possibili, perché da tutte le contrade d'Europa cavalieri e militari, ma anche mercanti e avventurieri, partirono alla volta del vicino Oriente. In altre parole, nazioni europee e idea d'Europa erano strettamente concatenate, sebbene varie identità nazionali si formarono nel tempo.

Ma, come affermò Federico Chabod, «Coscienza europea significa differenziazione dell'Europa, come entità politica e morale, da altre entità, cioè, nel caso nostro da altri continenti o gruppi di nazioni; il concetto d'Europa deve formarsi per contrapposizione in quanto c'è qualcosa che non è Europa» (Chabod, Storia dell'idea d'Europa, Laterza, Bari-Roma 1977, p. 23).

In questo affresco, Ortega richiama il concetto di nazione polemizzando con lo storico anglosassone Arnold Toynbee, che nell'opera A study in history (tradotto in Italia da Newton Compton con il titolo Storia della civiltà) considerava la realtà "nazione" una somma fra democrazia e tribalismo, mentre Ortega sottolinea che «una società è la convivenza di uomini sotto la pressione di un sistema generale di usi» sottolineando che proprio che il concetto di nazione già nel 1949 era una forma anacronistica di realtà, senza «fertilità per il futuro» che richiedeva un'evoluzione. 

È profetico Ortega y Gasset quando sottolinea l'importanza per le nazioni europee di proiettarsi in una dimensione di «unità politica sopra o ultranazionale" pena la decadenza («le avremmo viste passare rapidamente da un vivere in forma e dal comando del mondo a un avvilente lasciarsi andare. L'avvilimento è già lì; gli uomini politici non hanno fatto nulla per evitarlo. Ed è che fin dal 1850 per un meccanismo inesorabile ascritto alla democrazia - anche se in verità non le è congenito - la fauna dei politici europei è degenerata senza pausa», p. 76). Fu profetico nella lettura della decadenza, della progressiva perdita di forza dell'Europa nel mondo già un quindicennio prima che perdesse colonie e influenza nello scacchiere politico mondiale. Proprio in un momento in cui si credeva che le democrazie europee, che quattro anni prima avevano sconfitto, con gli Usa e l'Urss, i regimi autoritari europei, fossero nel pieno compimento e affermazione.

Né Ortega considerava positive le istituzioni sovranazionali al di fuori di confini di omogeneità. In merito alla "Società delle nazioni", infatti, già nel 1937 affermava che fu «un enorme e grossolano errore sia il sistema di idee filosofiche, storiche, sociologiche e giuridiche da cui emanarono il loro progetto e la loro figura era già storicamente morta». Una dichiarazione profetica che offre spunti di riflessione anche per l'oggi, se si pensa all'Unione europea e alla richiesta di ingresso di Turchia e Israele, paesi estranei alla cultura e alla tradizione europee.

Da questo punto Ortega si pone la domanda di cosa fosse la polis e rintraccia il concetto di nazionalità. In particolare, richiamandosi alla lezione greca e a quella romana, che concepivano la polis e l'urbs come qualcosa di estremamente concreto, fattuale e non astratto («era necessario che si avesse notizia chiara della famiglia alla quale si apparteneva») e questa evidenza, «in superficie» della polis «ha un fondamento nella sua origine stessa», dice Ortega che pone, quindi, nell'Origine una base essenziale. La differenza, quindi, fra nazione e polis, per il pensatore madrileno, si manifesta perché la nazione «ha un'origina vegetativa, spontanea e come sonnambula, si genera per proliferazione, come una scogliera corallina, cui si aggiungono accrescimenti alluvionali, come le conquiste e le annessioni per cause dinastiche, che solo si incorporano con effettività sociale al nucleo iniziale dopo molto tempo e anche in forma di innesto vegetativo, di lenta e non deliberata omogeneizzazione. La polis, al contrario, sorge da una deliberata volontà per un fine. Ha il carattere formale, di strumento. La sua origine, quindi, è un telos. Questo informa, anima ed è la polis, e come tutto ciò che è telos porta con sé, viva e operante, l'aspirazione alla teleiosis - alla perfezione. Ma questa perfezione non è sentita come la speranza di uno sviluppo futuro, bensì come una qualità presente» (p. 80 e ss.). 

Quindi, è evidente che nell'origine stessa della polis, per Ortega, «agisce già l'impulso, che è un imperativo chiaro e cosciente, verso la creazione di una forma di convivenza umana che sia migliore, che sia la migliore». Il richiamo è anche alla Repubblica di Platone - nella quale emerge la ricerca di un ideale di società ed è la stessa idea di città, di Stato, che ogni uomo greco portava dentro di sé. Di qui, il processo genetico della polis è inverso a quello che porta e deve portare a una Nazione. «La società Oikis - spiega Ortega - comincia già come Stato, come lucida e volontaria organizzazione politica, giuridica, amministrativa e bellica, mentre la nazione arriva a essere Stato solo nella sua fase di piena maturazione» (p. 80 e ss.). Insomma, come diceva anche Burckhardt, la polis faceva consistere la società in una radicale profonda, "concittadinanza" e l'uomo, come tale, in un cittadino puro.

Ortega dà una lettura suggestiva del concetto di grecità e di europeismo: la socialità dell'individuo ellenico si traduce in due piani: in una di queste è polites, cittadino della sua città, così come l'europeo della propria nazione. «Al di sotto di questa scorre, come un flusso sotterraneo, la coscienza di ciò che lo accomuna a tutti i greci, come gli europei si sono sempre sentiti in qualche modo appartenenti all'Europa». Insomma, nazione ed Europa da un lato e Città ed Ellade dall'altro. Ma Ortega sottolinea che le due cose non sono comunque perfettamente sovrapponibili.

Del resto, la formazione delle nazionalità in Europa avviene su un sostrato notevole, grandioso, appunto l'eredità greca e romana, e riesce a svilupparsi autonomamente grazie al portato proprio della cultura, la Paideia, insieme di retorica e ginnastica, tecnica guerriera e culti religiosi superiori, musica e filosofia. Per Ortega, la nascita della nazione avviene, sul continente europeo, con la Spagna (l'Inghilterra l'aveva fatto già circa un secolo prima) e prima della Francia, visto che quello di Luigi XI era stato solo un proposito ancora lontano dalla traduzione in pratica. è di un secolo il ritardo dell'unione della Germania, se si pensa che solo nel 1816 Guglielmo di Humboldt concepisce la Lega degli Stati tedeschi, ben sapendo che era comunque cosa diversa dalla compiutezza giuridica e statuale di Spagna e Francia. Del resto, fa notare Ortega, la mancata romanizzazione e la guerra dei Trenta anni fece slittare di un secolo la costituzione in nazione della Germania. Ma comunque, alla base, in Europa, c'è un carattere unitario nella magnifica pluralità, una forte omogeneità. Il comune denominatore resta, nelle nazioni europee, la società europea, la cultura.

Alla fine del volume, Ortega manifesta il timore che le relazioni fra i popoli possano essere danneggiate dalle opinioni e dai pregiudizi di altri popoli. L'ingerenza dell'opinione pubblica di alcuni paesi nei confronti degli altri è un «fattore impertinente, velenoso e generatore di passioni belliche». Ovviamente si tratta di una riflessione che riguarda proprio gli anni Quaranta ma che mantiene una certa validità tuttora se si pensa ai rapporti con paesi lontani dall'Europa nei cui confronti, magari, vigono ancora pregiudizi e prevalgono stereotipi piuttosto che la volontà di comprendere.

 

Manlio Triggiani

 

 
 
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da "Diorama letterario", n. 266, luglio-agosto 2004

 

  

 

 

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