| 
                                                     Giuliano
                                                    Volpe 
                                                   | 
                                                 
                                                
                                                  |   | 
                                                 
                                                
                                                  | 
                                                     Il futuro è cura del passato 
                                                   | 
                                                 
                                                
                                                  |     | 
                                                 
                                                
                                                  | 
                                                     Che
                                                    fare per i beni culturali?
                                                    Salviamo il nostro tesoro
                                                    più prezioso. Nascano in Puglia i «policlinici dell’archeologia»  | 
                                                 
                                                
                                                  |   | 
                                                 
                                              
                                             
                                           
                                         | 
                                       
                                    
                                   
                                  
                                 
                                   
                                     
                                  
                                 
                                 
                                Il 7 novembre sarà ospite
                                dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università
                                di Foggia il ministro per i Beni e le Attività culturali
                                Francesco Rutelli. Si tratta di un’occasione per riflettere sulla
                                situazione dei beni culturali dauni e pugliesi e sul ruolo dell’Università,
                                in un momento delicato della politica dei Beni Culturali
                                in Italia, che ha conosciuto negli ultimi anni la sua fase
                                più buia. A fronte di una sempre più significativa consistenza, il
                                patrimonio archeologico, storico, artistico,
                                etnoantropologico, paesaggistico, vive una condizione
                                tra l’ipnosi e lo scempio.  
                                Ad esempio, l’ambito del Beni
                                archeologici, meglio noto a chi scrive, conosce oggi una situazione
                                schizofrenica: da un lato un profondo processo di rinnovamento
                                metodologico in tutte le fasi della ricerca, dalla diagnostica
                                allo scavo e alle applicazioni delle scienze e delle tecnologie,
                                dall’altro un sistema di tutela ancora risalente alla legge del
                                1939. La tutela non consiste in un’azione asettica e oggettiva,
                                ma è condizionata da scelte che cambiano nel tempo e dalla
                                qualità della formazione di chi la esercita. Basti pensare all’enorme
                                dilatazione dell’archeologia dalla preistoria più remota
                                all’età moderna, all’estensione del concetto stesso di reperto a
                                tutti gli oggetti più antichi di 100 anni, all’attenzione ora riservata
                                non solo ai manufatti ma anche agli ecofatti e all’ambiente. 
                                La Daunia, e in generale la
                                Puglia, possiede uno straordinario patrimonio culturale diffuso
                                e integrato nel paesaggio, vero e proprio «museo» dell’evoluzione
                                culturale. Si dovrebbe pertanto superare definitivamente
                                la visione «filatelica» dell’archeologia, attenta solo al
                                singolo sito o manufatto, per una visione globale, tanto nella
                                ricerca quanto nella tutela, valorizzazione e
                                fruizione, attività oggi pericolosamente separate
                                tra loro, attribuite a diverse componenti dello Stato raramente
                                in sintonia, più spesso in conflitto. Emblematico di tale
                                concezione è l’istituto ormai anacronistico della «concessione
                                di scavo» che tende a confinare l’azione delle università in
                                alcune  enclaves, escludendole dai complessi processi di valorizzazione
                                di interi territori. Gli strumenti diagnostici tipici della
                                moderna archeologia dei paesaggi, dal telerilevamento alle
                                prospezioni geofisiche, dalla ricognizione sistematica allo scavo,
                                possono oggi offrire un contributo straordinario. 
                                Il coinvolgimento nei processi
                                decisionali di più soggetti, sensibilità e «saperi» nuovi potrebbe
                                aprire maggiori prospettive per la salvaguardia e la valorizzazione
                                del patrimonio. Manca invece oggi qualsiasi forma di pianificazione
                                e di scelta di priorità, com’è evidente anche dalla
                                incapacità di predisporre una strategia di valutazione dell’impatto
                                archeologico e dalla stessa assenza di un progetto di cartografia
                                archeologica e di un sistema informativo territoriale.
                                Negli ultimi anni le Soprintendenze sono state progressivamente
                                ridotte in uno stato agonizzante, con personale scarso,
                                mal retribuito e spesso demotivato, prive di risorse, di mezzi e
                                di quelle competenze che la moderna archeologia richiede, colpite
                                da un processo di depotenziamento, come emerge dall’annoso
                                blocco delle assunzioni e del  turn over: la metà circa delle
                                Soprintendenze è coperta per reggenza in mancanza di Soprintendenti
                                di ruolo, mentre l’età media dei funzionari raggiunge
                                55 anni. Si pagano ancora oggi le conseguenze della
                                Legge 285 per l’occupazione giovanile che portò agli inizi degli
                                anni Ottanta ad immissioni di massa senza un vero concorso.
                                A fronte di un esercito di custodi e di personale con basse mansioni,
                                a volte inutilizzato e inutilizzabile, sono stati ridotti al minimo
                                i funzionari tecnico-scientifici, tra i quali non mancano persone
                                competenti e impegnate in prima linea. 
                                Servirebbero forze nuove e risorse
                                adeguate, ma non basta auspicare un ritorno al passato:
                                bisognerebbe ripensare l’opera di tutela, collegandola strettamente
                                alla ricerca e abbandonando vecchie rendite di posizioni
                                che hanno portato alla creazione di piccoli potentati locali,
                                avviando cioè politiche «inclusive» e superando definitivamente
                                quel conflitto che oggi contrappone Soprintendenze, Università
                                ed Enti locali, favorendo reali e strette collaborazioni,
                                non più legate esclusivamente ai momentanei buoni rapporti
                                personali tra il singolo ricercatore e il soprintendente di turno.
                                Andrebbe inoltre superata l’idea che il nostro patrimonio archeologico
                                (paragonato inopinatamente ad un giacimento da prosciugare!) possa costituire la
                                panacea per la soluzione di tutti i problemi economici d’Italia. 
                                A proposito della cosiddetta
                                «competitività», di cui si parla spesso a sproposito, non c’è dubbio
                                che la risorsa culturale, di cui altri paesi sono meno provvisti,
                                possa e debba svolgere in Italia un ruolo strategico. Ma l’auspicabile
                                indotto turistico ed economico non può rappresentare
                                l’unica molla nella politica dei Beni culturali, con la conseguente
                                selezione e gerarchia che rischiano di condannare monumenti
                                ritenuti meno appetibili. Andrebbe cioè abbandonata
                                quella visione mercantilistica ed economicistica, che ha avuto espressione
                                nel «Decreto Tremonti» del 2002, con l’istituzione della
                                Patrimonio SpA e la possibilità di procedere a vendite di beni
                                culturali (come i gioielli dismessi da una famiglia aristocratica
                                decaduta!). 
                                Infine, si attribuisce oggi molta
                                più importanza alle attività culturali e soprattutto agli eventi,
                                ai grandi spettacoli più che alla valorizzazione del patrimonio
                                culturale, che richiede tempi più lunghi e un lavoro più oscuro
                                e faticoso. Assessori alla Cultura e ai Beni culturali a caccia
                                di facile visibilità si sono così trasformati in organizzatori di
                                eventi, «animatori di villaggi turistici» impegnati nell’allestimento
                                di spettacoli estivi e di «notti bianche». Lo stesso ministro
                                Rutelli in una recente ampia intervista («La Repubblica,
                                1° novembre 2006), pur sostenendo posizioni condivisibili sulla
                                «missione pubblica della cultura» o sulla necessità di incrementare
                                o studio della storia dell’arte nelle scuole, ha riservato
                                più attenzione alle attività culturali legate allo spettacolo
                                (proponendo ad esempio una «festa del teatro» da affiancare
                                alla «festa del cinema» di Roma) che agli interventi sul patrimonio. 
                                Non si tratta certo di negare
                                l’importanza di tali iniziative, ma perché allora non separare
                                queste competenze da quelle relative ai Beni culturali? In Puglia
                                si sta tentando un esperimento che potrebbe rappresentare
                                un modello a livello nazionale: i Beni culturali sono stati accorpati
                                all’Università e Ricerca, sottolineando opportunamente
                                l’aspetto di innovazione che dovrebbe caratterizzarne lo studio
                                e la valorizzazione. Da parte sua il sistema universitario, che
                                prevede varî, forse troppi, corsi di laurea in Beni culturali, dovrebbe
                                operare un maggiore coordinamento e una specializzazione,
                                ponendo fine alla dissennata proliferazione di sedi
                                (al momento cinque tra Puglia e Basilicata), che finiscono per
                                immettere su un mercato, di fatto inesistente, centinaia di giovani
                                laureati, per la cui formazione non sempre sono garantiti
                                standard qualitativi adeguati. 
                                Ecco allora in conclusione una
                                proposta operativa: la Puglia si candidi a sperimentare forme
                                innovative, proponendo, con una convenzione con i ministeri
                                dei Beni Culturali e dell’Università, la costituzione di distretti
                                dei Beni culturali con unità operative miste costituite da Soprintendenze,
                                Università, CNR, parchi tecnologici, Regione ed
                                Enti locali, dando vita a veri e propri «policlinici dell’archeologia», in cui mettere in comune
                                strutture, competenze,professionalità e coniugando finalmente
                                formazione, ricerca, tutela, valorizzazione e fruizione. 
                                     
                                  
                                Giuliano
                                Volpe 
                  
                                   | 
                                  
                                    
                                  
                  
                                      
                  
                                     
                  
                                     |