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LE OPERE E I GIORNI a cura di Stefania Mola   Otranto

Le opere e i giorni       Il mosaico pavimentale      I mesi

   

Il contadino pigia i grappoli d’uva in un grande tino, a piedi nudi e aiutandosi con due bastoni, mentre il mosto defluisce da uno scolo laterale raccogliendosi in un recipiente separato.

Lo accompagna il segno zodiacale della Vergine, governato da Mercurio, sesto segno dello zodiaco (e, insieme al Toro e al Capricorno, segno di Terra) che si situa subito prima dell’equinozio d’autunno. Lo rappresenta una giovane donna che reca nella mano destra – come vuole l’iconografia zodiacale tradizionale – una spiga di grano: con la Vergine termina infatti il ciclo annuale dell’elemento Terra, che ha visto succedersi la terra fredda del Capricorno (quella delle semine invernali), la terra grassa, umida e calda del Toro (coperta della vegetazione verdeggiante e profumata della primavera) per giungere qui alla terra disseccata dal sole estivo e priva di virtù nutritive, sulla quale giace la spiga falciata in attesa che il grano si stacchi da essa e dal suo involucro. Il ciclo si compie su una terra nuova, vergine, destinata a ricevere nuovamente la semenza.

La scena è accompagnata dall’indicazione del mese (Sep/te[m]/ber). Tale nome deriva dall’antico september del calendario arcaico (composto da dieci mesi iniziando da marzo).

Siamo in un paese caldo: con il mese di settembre (così come accade per la raffigurazione di agosto) il ciclo otrantino rivolge l’attenzione alla raccolta dell’uva.

    

Eredità di un culto equinoziale: san Michele Arcangelo

In epoca ellenistica i due equinozi erano consacrati a Mithra-Sole, considerato demiurgo e kosmokrátor, signore e animatore del cosmo che talora, nelle sue funzioni di mediatore cosmico, veniva anche associato ad Hermes-Mercurio.

La funzione mediatrice riguardava il principio luminoso (simboleggiato dai sei mesi nei quali la luce prevaleva sul buio) e quello tenebroso (i restanti sei mesi, nei quali la notte era più lunga del giorno).

I suoi luoghi venivano chiamati mitrei, ed erano per lo più grotte sotterranee nelle quali il dio veniva raffigurato accompagnato da due portatori di fiaccola: sul lato meridionale Cautes, con la torcia alzata a simboleggiare l’aspetto primaverile di Mithra-Sole; su quello settentrionale Cautopates, con la torcia abbassata in atteggiamento triste e pensoso, a simboleggiare Mithra come sole d’autunno ed associato ad un albero da frutto che indica la produttività della terra giunta al suo culmine e pronta ad affrontare il deperimento.

Alcune delle funzioni equinoziali e mediatrici di questa divinità passarono con il Cristianesimo a san Michele arcangelo, la cui festa fissata al 29 settembre cade immediatamente a ridosso dell’equinozio (23 settembre) e fissa simbolicamente la fine della stagione luminosa e fertile per le campagne.

La sua funzione calendariale è sostenuta anche dall’esistenza (come accade in questi casi) di nuumerosi proverbi connessi alla sua festa e legati a previsioni meteorologiche e augurio di prosperità e abbondanza.

Numerosi indizi delle stratificazioni dell’eredità pagana si riscontrano non solo nella sua figura, ma anche e soprattutto nei luoghi destinati al culto: valga per tutti il complesso intreccio di simbolismo, storia e leggenda del più celebre dei santuari a lui dedicato, quello di Monte Sant’Angelo sul Gargano, cui vanno accostati almeno quello di Mont-Saint-Michel (Normandia) e la cosiddetta Sagra di S. Michele (Piemonte). San Michele, custode della sacra montagna garganica, è un protagonista indiscusso della memoria e della tradizione religiosa pugliese, per quel suo essere un simbolo universalmente riconosciuto, protettore di guerrieri longobardi e normanni, di principi, di crociati, ma anche di contadini e pastori, sulle cui case veglia da sempre in forma di immagine dipinta o scolpita, e le cui varie manifestazioni di devozione (dedicate anche ad altri patroni) accompagna occupando un posto d’onore. A maggio e a settembre, in coincidenza con la semina e con la raccolta, l’Arcangelo viene solennemente festeggiato da un’incredibile folla di pellegrini, un tempo provenienti da tutta Europa, oggi sicuramente da tutto il Sud, che giungono organizzati in compagnie, distinguendosi per il vessillo e per la croce ornata di fiori, talora anche a piedi, iterando antichissime pratiche penitenziali lunghe diversi giorni. La ricorrenza di settembre, rispetto a quella di maggio, ha più le caratteristiche della festa patronale: vi si svolge una fiera ed ha luogo la processione della spada d’argento, attributo dell’Angelo guerriero e capo degli eserciti celesti.

   

Da Mont-Saint-Michel a Monte Sant'Angelo

Qualcosa di più di un filo rosso lega i due punti estremi dell’Europa continentale da più di mille anni. Un flusso ininterrotto di devoti si è infatti da sempre snodato dall’estremo nord della Francia sino alle balze scoscese del Gargano in nome di san Michele, l’arcangelo guerriero che con singolari coincidenze si è manifestato a vescovi ed eremiti riuscendo ad imporre in modo assai convincente la sua volontà di sacralizzare un luogo impervio, dove in breve tempo sarebbe sorto un oratorio, una chiesa e quant’altro potesse essere funzionale al pellegrinaggio devoto di folle sterminate. Alla mappa devozionale del pellegrino medievale apparteneva anche il lungo cammino sulle tracce dell’Arcangelo, che in Europa poteva contare su un numero infinito di edifici di culto a lui dedicati, ma soprattutto su tre grandi tappe imprescindibili e dislocate strategicamente. Monte Sant’Angelo, punto di arrivo ideale perché materialmente situato al sud dell’Europa e già sulla strada della Terra Santa, costituisce in realtà l’antefatto significativo di un fenomeno di portata europea, di un culto nato in Oriente e fatto proprio dalle genti nordiche (primi fra tutti i Longobardi) che conferisce alla montagna impervia ed inaccessibile il ruolo eletto di dimora del principe degli angeli.

Così accadde al monte Tomba, sorta di isolotto granitico in forma di tumulo al confine tra Bretagna e Normandia avvolto dalle maree e dalle nebbie nordiche, dove all’inizio dell’VIII secolo l’Arcangelo apparve al vescovo di Avranches, Aubert, imponendogli la costruzione di un oratorio a lui consacrato. Sul monte, noto come Mont-Saint-Michel e ancor oggi meta di ininterrotti pellegrinaggi, si stratificarono fino al XVI secolo edifici di splendore sempre crescente, finalizzati ad onorare la volontà di san Michele fronteggiando il continuo afflusso di pellegrini. La fama dell’abbazia si diffuse ben presto in tutto il mondo cattolico sconvolto dalle oscure profezie millenariste: a partire dal X secolo migliaia di pellegrini giunsero al monte per chiedere la protezione dell’Arcangelo, incrementando il loro numero anche dopo il cessato pericolo (rimandato al millennio successivo) e costringendo a continui adeguamenti delle strutture di accoglienza. In quest’ottica va letta quella che viene definita la Merveille (la Meraviglia), lo spettacolare edificio eretto nel XIII secolo su tre piani divisi ognuno in due settori che accoglieva separatamente le tre diverse categorie di fedeli (monaci, ospiti illustri e pellegrini) secondo una tripartizione cara al Medioevo, operando una distinzione – anche sul piano spirituale – tra il nutrimento per il corpo e quello per la mente. In basso, in un ambiente spartano scandito da colonne tozze e massicce, i pellegrini pranzavano in ciotole di coccio su grandi tavolati di legno sistemati su pavimenti coperti di paglia. Al piano di mezzo, illuminato da grandi finestre, tappeti di lavanda e di erbe aromatiche erano calpestati dagli ospiti di rango, che pranzavano in stoviglie di ceramica su grandi tavole apparecchiate con fini tovaglie ricamate. Al piano alto stavano i monaci, nel refettorio ritmato da colonne che sostenevano altissime volte a cassettoni, presso il quale – nel settore adiacente – c’era il chiostro in cui poter leggere, meditare, isolarsi in preghiera. La distribuzione del cibo spirituale avveniva al piano inferiore, nello scriptorium, detto anche Sala dei Cavalieri perché sembra vi si tenessero le assemblee solenni dell’ordine di S. Michele. Ancora più giù, nel settore adiacente l’ambiente riservato ai pellegrini, era relegata la distribuzione del cibo destinato al corpo, con la presenza delle rifornitissime dispense, di importanza certo non irrilevante per il buon funzionamento dell’abbazia.

I luoghi scoscesi attirano i santi, e le preferenze di san Michele in tal senso sono chiare anche nel caso della notissima Sacra di S. Michele della Chiusa in Piemonte, sorta in posizione strategica sulla via che i pellegrini percorrevano verso sud dopo aver valicato le Alpi. Alla fine del X secolo, secondo la leggenda, un eremita desideroso di appartarsi definitivamente dal mondo aveva scelto il monte Caprasio – all’imbocco della val di Susa – per erigervi un oratorio. Nottetempo il materiale da costruzione da lui faticosamente ammassato veniva però miracolosamente trasportato da folle di angeli in volo verso il fronte opposto della valle, sulla cima del monte detto Porcariano, che si infuocò per illuminare l’apparizione dell’Arcangelo nell’atto di indicare con insistenza quella vetta, e non altre. Al monte fu dato quindi il nome più consono di Pirchiriano, che mutuava la sua etimologia dal fuoco dell’apparizione. Secondo le circostanze storiche ed archeologiche sul monte Pirchiriano doveva esistere già dal V-VI secolo una chiesetta eretta dai primi cristiani, dedicata in seguito dai Longobardi a san Michele in nome della devozione all’Arcangelo guerriero. L’abbazia sarebbe stata eretta, all’inizio dell’XI secolo, dall’alverniate Ugo di Montboissier come penitenza impostagli da papa Silvestro II dal quale si era recato in pellegrinaggio a Roma per la remissione dei peccati. La valle di Susa era una via di transito frequentatissima a quell’epoca. Al primo nucleo del monastero, riedificato ed abbellito più volte nei secoli grazie soprattutto alle munifiche donazioni dei pellegrini d’alto rango che desideravano sdebitarsi per l’ospitalità, venne affiancata infatti una foresteria per ospitare i pellegrini in transito da e per Roma o diretti all’altro grande santuario di S. Michele, l’ormai famosa grotta garganica che prima fra tutte aveva esaudito i voleri dell’Arcangelo.

   

Mitologia della costellazione della Vergine

La costellazione della Vergine è associata all’essenza femminile, riassunta nel contrasto primigenio tra fertilità e verginità.

Nell’antico Egitto, questa costellazione era identificata con Iside, con una spiga di grano in mano o con in braccio il piccolo Horus. In epoca romana, vi si leggeva la raffigurazione di Dike (o Astrea, dea della giustizia), associata alla confinante costellazione della Bilancia. La mitologia romana si ricollega all’“età dell’oro”, quando la Giustizia viveva in mezzo agli uomini, sotto il regno di Saturno. A quel periodo di eterna primavera, in cui gli uomini non avevano bisogno di lavorare perché la terra produceva spontaneamente i suoi frutti, seguì l’“età dell’argento”, con Giove sovrano: ebbe inizio il susseguirsi delle stagioni, gli uomini conobbero la fatica per vivere ed iniziarono i contrasti tra di loro.

La dea Dike, profondamente delusa, si ritirò lontano dal genere umano, sopra alte montagne, predicendo agli uomini un futuro ancora più oscuro. Seguirono, infatti, l’Età del Bronzo e del Ferro, in cui la malvagità umana non conobbe più freni. Dike, ancora più disgustata, con le sue ali volò tra le stelle, da dove, sempre più triste, guardava la meschinità degli uomini.

Nel mito greco, la Vergine è associata a Demetra (Cerere per i Romani) o, ancora più comunemente, a Persefone (Proserpina per i Romani), sua figlia, rappresentata con una spiga (la stella Spica) di grano nella mano destra e una foglia di palma nella sinistra. Persefone era, all’inizio, chiamata Kore (“fanciulla” o “vergine”) e raffigurava il grano appena spuntato, mentre la madre il grano maturo, incarnando allegoricamente i due volti della fecondità. La leggenda narra che, mentre la fanciulla stava raccogliendo giacinti in un prato, da una voragine nel terreno emerse Ade, dio degli Inferi, sopra un carro tirato da cavalli immortali, il quale rapì la giovane conducendola nel suo regno. Demetra, informata dell’accaduto dal dio Elio (= Sole), disperata abbandonò i Celesti e, sotto le spoglie di una vecchia, peregrinò a lungo sulla terra alla vana ricerca della figlia. Ma, senza la protezione di Demetra, la Terra non dava più i suoi frutti. Zeus, di fronte al pericolo di una carestia, chiese ad Ade di liberare la fanciulla. Ade, però, disse di averle fatto mangiare un chicco di melograno (che era il cibo dei morti) per cui Persefone non avrebbe più potuto abbandonare gli Inferi. Si giunse tuttavia ad un compromesso: Persefone avrebbe trascorso quattro mesi, quelli invernali, con Ade, mentre gli altri otto li avrebbe trascorsi con la madre, contribuendo così alla rinascita della natura dopo i rigori e la sterilità dell’inverno.

  

  

I mesI:  Settembre (primo mese dell'anno nello stile di datazione più diffuso nel Medioevo) - Ottobre - Novembre - Dicembre - Gennaio - Febbraio - Marzo - Aprile - Maggio - Giugno - Luglio - Agosto

  

  

©2002-2003 Stefania Mola

  


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