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LE OPERE E I GIORNI a cura di Stefania Mola   Otranto

Le opere e i giorni       Il mosaico pavimentale      I mesi

Il contadino miete con l’ausilio della falce il grano maturo ammucchiando le spighe in piccoli fasci al suolo davanti a sé.

Accompagna la raffigurazione di Giugno il segno zodiacale dei Gemelli, governato da Mercurio, terzo segno dello zodiaco (e, insieme alla Bilancia e all’Acquario, segno di Aria) che chiude il trimestre primaverile, ponendosi a ridosso del solstizio d’estate.

Lo rappresentano tradizionalmente due fanciulli gemelli che si tengono per mano; nella raffigurazione otrantina, i fanciulli sono invece staccati ma comunicanti tra loro attraverso la gestualità e gli sguardi.

All’interno dello zodiaco, i Gemelli sono il segno che coincide con il simbolismo della dualità nella somiglianza. Sono l’immagine per eccellenza di tutte le opposizioni interiori ed esteriori, contrarie o complementari, relative o assolute, che conducono alla tensione creatrice. Il segno, noto come doppio, introduce al mondo dei contrari polari: maschile-femminile, tenebre-luce, soggetto-oggetto, interiore-esteriore; una metà agisce, l’altra la osserva agire, per un segno che nello stesso tempo è attore e spettatore di se stesso. Alle radici di molte culture ci sono spesso simbolicamente i gemelli nel loro ruolo di avvento di una nuova era: come tradizione vuole, essi non possono convivere se non alternandosi o uccidendo una delle due parti, come lasciano intendere il rapporto tra la luna e il sole, tra la luna piena e la nuova, l’incipit della storia biblica (Caino e Abele) o di quella romana (Romolo e Remo).

La fase dei Gemelli si conclude con l’esplosione dell’estate – la stagione in cui i prati sono insidiati dalla prima siccità, i frutteti vanno irrigati, i legumi seminati e i germogli superflui eliminati – il cui nome dichiara quanto ormai il sole arda nel cielo, seppur tra improvvisi temporali e violenti risvegli di vento: il latino aestas, infatti, deriva da aestuare, avvampare, un verbo che ci lascia immaginare tempi e luoghi della maturazione di messi e frutti, dal frumento all’uva; è tempo di ciliegie, albicocche e ribes, fioriscono il cardo, la calendula e il giglio, tra gli uccelli canterini si impone l’usignolo.

La scena è accompagnata dall’indicazione del mese (Iu/nii).

Con il mese di Giugno il ciclo otrantino ritorna ad illustrare attività più specificamente legate al lavoro nei campi, dopo la digressione festosa del mese di Maggio. La figura del mietitore qui rappresentata, a parte le libertà interpretative, sembra in qualche modo riflettere tutta la fatica e l’impegno necessari ad ottenere dalla terra i frutti non facili del proprio lavoro. Tipica del periodo è la consuetudine del taglio alto delle spighe1, in modo da lasciare la maggior quantità possibile di stoppie, a nutrimento del bestiame prima e a concime del terreno poi.

 

Il simbolismo della mietitura

L’operazione della mietitura era un tempo impregnata di sacralità. Si credeva infatti che nell’ultimo covone o nelle ultime spighe fosse incarnata una forza attiva indicata – a seconda delle culture – come Madonna del Grano, Regina del Grano, Spirito del Grano, Vecchio degli Arabi o Madre della Spiga. Di queste ultime spighe si conservavano i granelli, per mescolarli alla semenza autunnale a garanzia di un futuro raccolto propizio. L’ultimo covone poteva essere gettato nel fiume (per propiziarsi l’acqua in funzione del nuovo raccolto) oppure bruciato, e le sue ceneri asperse nei campi. Un’usanza che lentamente trasformò il covone in un fantoccio di paglia, eredità di arcaici rituali che prevedevano un sacrificio umano ma che ben presto furono sostituiti da ritualizzazioni simboliche e sacrifici incruenti, dove sempre però venne mantenuta la consuetudine di rievocare l’eco della Creazione, la rigenerazione derivante da un sacrificio nel quale da un “corpo” smembrato germoglia la nuova vita.

Superfluo indicare le assonanze rituali con il mistero dell’Eucarestia, perché nella stessa spiga, una delle prefigurazioni più comuni del Cristo, è insita l’idea di qualcosa che muore per generare e rigenerare.

La mietitura era seguita da feste rituali di ringraziamento, più volte frenate e corrette dalla Chiesa a causa del loro carattere orgiastico. Oggi esse si sono trasformate in fiere e sagre che spesso hanno per protagonisti immagini sacre (preferibilmente la Vergine), covoni di grano e rappresentazioni “teatralizzate” delle attività di mietitura e trebbiatura scandite da danze e canti popolari.

 

Il solstizio tra rito e mito

Gli antichi indicavano i due solstizi come porte, quello invernale come porta degli dèi e quello d’estate come porta degli uomini. Se ne ha una testimonianza nel misterioso antro di Itaca descritto da Omero, al cui interno si aprivano due porte: l’una, rivolta a nord (“a Borea”, cioè a nord dell’equatore celeste, posizione in cui il sole si trova al solstizio d’estate), era appunto indicata come discesa degli uomini, mentre l’altra, rivolta a sud (“a Noto”) “non la varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali”.

Solstizi, dunque, come porte, simboli del passaggio e del confine tra al-di-qua e al-di-là, tra spazio-tempo e “oltre” non misurabile. Non è un simbolismo esclusivamente greco; piuttosto, quella cultura sembra raccogliere una conoscenza tradizionale che affonda le sue radici in realtà di tipo iniziatico. La tradizione romana individuò il custode di tutte le porte (dunque, solstizi compresi) in Giano, dio bifronte che ruota sulla sua terza faccia nascosta ed invisibile, l’asse del mondo che lo lega al simbolismo solstiziale: è quanto lascia intendere Macrobio, affermando che «certuni vogliono dimostrare che Giano è il sole, e quindi gemino o duplice in quanto signore delle porte celesti»2.

Le usanze e e le leggende legate al solstizio ruotano intorno al simbolismo delle nozze tra il sole e la luna e la festività in onore di San Giovanni Battista. Lo sposalizio solstiziale prevede che le acque, simbolicamente analoghe alla luna, siano fecondate dal sole producendo energia benefica per l’umanità, al pari della rugiada che bagna i prati ed i falò purificatori e rigeneratori tipici di quella che nella cultura anglosassone è conosciuta come Midsummernight, la notte di mezza estate nella quale visibile ed invisibile si compenetrano e accadono inquietanti fenomeni a metà tra il sogno e la realtà.

La tradizione racconta di un fiore magico e sconosciuto alla botanica ufficiale, che porta il nome di “fiore di San Giovanni” ed avrebbe il potere di rendere invisibile chi lo possieda, di resistere agli incantesimi e di scacciare gli spiriti maligni. Sboccia alla mezzanotte della Midsummernight illuminando di luce intensa ciò che lo circonda, ma per procurarselo occorre un complicato rito da eseguire diligentemente senza farsi distrarre dal diavolo (che persegue lo stesso scopo).

Sciami di streghe si mostrano in volo dirette al leggendario convegno intorno al mitico noce di Benevento, ed è proprio il noce, albero sacro legato ai riti solstiziali presso i Celti, la pianta dai cui frutti si ricava il liquore tipico di questo momento dell’anno: il nocino, infatti, infusione considerata rimedio e beneficio per molte afflizioni, secondo la tradizione va preparato con le noci staccate nella notte di San Giovanni, quando la drupa è ancora verde, e servendosi di una falce o di una lama di legno, mai di metallo.

Per scacciare demoni e streghe, prevenire le malattie, purificare i campi attraverso la cenere, sostenere simbolicamente quel sole che comincia impercettibilmente a declinare, nella notte solstiziale ardono i fuochi attorno ai quali si mangia, si beve, si danza, si gioca e si canta, in quella tipica atmosfera di sospensione del quotidiano caratteristica di tutti i riti di passaggio.

 

Il sole di San Giovanni

Nella somiglianza fonetica tra Ianus e Iohannes una notizia non documentata individua il collegamento tra le antiche feste in onore di Giano celebrate a Roma in occasione dei due solstizi e le feste cristiane dedicate ai due Giovanni (Evangelista e Battista) collocate a ridosso dei solstizi stessi.

A seconda dei calendari, la data del solstizio d’estate è stata mutevole, oscillando comunque sempre in un periodo compreso tra 19 e 25 giugno, nelle tradizioni precristiane considerato un tempo sacro. Il Cristianesimo vi colloca, il giorno 24, la festa di San Giovanni Battista, strettamente collegata al Natale romano sulla cui data fissata al 25 dicembre venne calcolata l’Annunciazione e, di conseguenza (basandosi sui Vangeli) la natività del Battista, festa “anomala” (il dies natalis dei santi è infatti quello della morte) ma giustificata come eccezione su basi evangeliche3.

La scelta del 24 giugno fonde la narrazione evangelica di Luca (che narra come Maria, nei giorni successivi all’Annunciazione, andasse a visitare Elisabetta quando costei era al sesto mese di gravidanza) con un evento celeste: il 24 giugno, infatti, il sole – appena superato il punto solstiziale – inizia a decrescere sull’orizzonte, inaugurando il semestre del sole discendente che si conclude con il solstizio d’inverno. Allora l’astro (soprattutto a latitudini nordiche) sembrerà morire e quasi dissolversi tra le brume per poi rinascere come “sole nuovo” iniziando a risalire il cielo.

Il sole di San Giovanni, che comincia a volgersi verso il sud dello zodiaco e a calare all’orizzonte, è dunque un sole “colpito a morte”, un sole che muta direzione. Il Battista decollato, che il folklore chiama anche “Giovanni che piange” a causa del suo destino, è colui che introduce gli esseri nella “caverna cosmica” e si identifica con il sole del solstizio d’estate attraverso le sue stesse parole note attraverso il testo evangelico: “Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui… Egli deve crescere ed io invece diminuire”4. Agli antipodi, in corrispondenza del solstizio invernale e del sole ascendente – anche se con uno spostamento di due giorni dovuto alla coincidenza con il giorno di Natale – ecco l’altro Giovanni (l’Evangelista, il 27 dicembre), il “Giovanni che ride”, ovvero colui che rivolge gioiosamente lodi al Signore, custode della “porta del Cielo”. Insieme, i due Giovanni rifletterebbero – collegati ai solstizi – le funzioni del Cristo come “chiave” delle due porte.

 

Mitologia della costellazione dei Gemelli

Già prima del mito greco dei Diòscuri, Castore e Polluce, i gemelli figli di Zeus, la costellazione dei Gemelli era associata ad una coppia di esseri di natura terrestre: dalle due piante germoglianti dell’antico Egitto (dove tale costellazione era anche identificata con le due fasi – giovinezza e maturità – della vita di Horus), alle due caprette dei Fenici, alla coppia di giovinetti mesopotamici, ai gemelli Aswin dei Veda indiani, fino ad arrivare, nella Roma classica, ai leggendari Romolo e Remo.

Il mito classico ci è noto: Leda, moglie di Tindaro re di Sparta, aveva deposto un uovo, dal quale nacquero Castore e Polluce, insieme ad Elena e Clitennestra; a seconda delle versioni, i quattro erano figli del sovrano o di Zeus (che avrebbe posseduto Leda, trasformato in cigno), oppure Polluce ed Elena sarebbero stati progenie divina, mentre gli altri due terrena (essendo giaciuta Leda, nella stessa notte, sia con Zeus che con il legittimo consorte).

I Diòscuri rapirono le promesse spose dei cugini Ida e Linceo (figli di Afareo, fratello di Tindaro); da qui o, più probabilmente, da una diversa contesa, iniziata per burla, nacque il motivo dello scontro che ebbe poi un tragico epilogo. I quattro giovani, infatti, rubarono molti capi di bestiame nella regione dell’Arcadia; per dividersi il bottino, Ida fece in quattro parti un bue e stabilì che colui che per primo avesse terminato di mangiare il proprio quarto, avrebbe scelto i propri animali, e così di seguito per il secondo, il terzo ed infine il quarto.

Ida terminò prima degli altri ed aiutò Linceo a finire il proprio quarto, cosicchè i due ottennero i capi migliori, a scapito di Castore e Polluce. Questi ultimi, seguiti i cugini per protestare contro la loro disonestà, non riuscirono a trovarli, per cui si impadronirono del loro bestiame. Da qui scaturì un duello cruento che vide sopravvivere il solo Polluce, l’unico di natura divina. Ma Polluce, che non poteva sopportare di separarsi dal fratello, chiese a Zeus di farlo morire con lui.

Zeus propose al figlio due alternative: vivere da solo sull’Olimpo con gli altri immortali, oppure vivere con il gemello un giorno sull’Olimpo e uno nell’Ade. Polluce, senza esitazione, scelse la seconda possibilità e da allora i due gemelli appartennero un giorno alla luce e un giorno all’ombra.



1 J. Le Goff, La civilisation de l’Occident médiéval, Paris 1964, p. 264.

2 Saturnali I, 9,9.

3 Matteo 11, 10-11 racconta che il Cristo parlò alle folle di Giovanni dicendo: «Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te. In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista».

4 Giovanni, 3, 30.

  

  

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©2002-2003 Stefania Mola


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