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           MEDIOEVO RUSSO  | 
        
           a cura di Aldo C. Marturano, pag. 22  | 
      

Esempio di zhito
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 Tutto quello che può saziare o comunque
          allentare i morsi della fame è per l’uomo
           il cibo.  Una semplice osservazione può bastare a farci
          capire che l’uomo non ha niente di definito in mente, per quanto
          riguarda la forma o l’aspetto (e persino per quanto concerne il
          sapore), quando va alla ricerca di cibo. La realtà e la storia ci ha
          insegnato che, a parte tutti i pregiudizi impostici dalla cosiddetta
          “buona educazione” o suggeritici dalla sistematica pubblicità, in
          caso di fame “impellente”… si mangia di tutto!  Chi non ha sentito raccontare di casi estremi
          di questa “spinta fisiologica”, come durante il famoso “assedio
          di 900 giorni di Leningrado” nel 1945, tanto per ricordare una
          storia più recente, dove la gente, senza avere altre derrate a
          disposizione, mangiò persino la… carta da parati! Insomma,
          si può dire che l’uomo per sopravvivere è sempre disposto a
          rassegnarsi che è possibile trovare o “mettere insieme” prodotti
          molto diversi allo scopo di estinguere la propria fame… ovunque e
          comunque.  L’archeologia sovietica ha trovato segni di
          tutto questo in tutta la parte europea dell’ex URSS e dai reperti
          abbiamo avuto conferma che l’uomo ha mangiato animali crudi come le
          cozze nel nord Europa di cui si sono trovati mucchi enormi delle
          valve gettate via dopo il consumo del mollusco. Ha consumato rane e
          rospi. Soprattutto però si è cibato di piante che hanno anch’esse
          lasciato la loro traccia quale cibo principe dell’essere umano. I resti di piante sono delle più diverse specie e, non solo sono
          servite da cibo, ma addirittura sono state considerate talmente
          indispensabili per la vita, da doverle offrire come corredo funebre al
          cadavere del congiunto perché continuasse bene la vita nell’aldilà! è chiaro che l’uomo ha sperimentato (e sperimenta) la coltivazione di
          sempre nuove piante e nuovi animali affinché gli servissero da cibo.
          E in seguito non si è fatto neppure molti scrupoli a provare intrugli
          inverosimili che sono stati, e sono diventati, le salse di oggi e di
          ieri allo scopo di insaporire il solito cibo… in cui fantasia e
          necessità hanno trovato un giusto connubio! Guai poi a pensare che l’uomo mangi solo prodotti solidi o semisolidi, perché tutti noi sappiamo che i prodotti liquidi o le masse pastose sono di solito i cibi più facilmente ingeribili quando si tratta di bambini o vecchi che devono potersi cibare! Stiamo naturalmente parlando di cibo, ma non
          di alimenti. Questi ultimi infatti sono tutt’altro, a rigor di
          termini, benché di solito siano identificabili quasi al cento per
          cento col cibo! Tornando dunque al nostro soggetto, a qualsiasi latitudine e in
          qualsiasi parte della nostra Terra l’uomo ha provato ogni prodotto
          che aveva a disposizione nella natura perché gli servisse da cibo.
          Una volta individuato il prodotto nell’aspetto nella forma nel
          colore e nella consistenza più giusta, ecco che ogni qualvolta ne
          avvertiva la necessità è tornato a cibarsi di quel prodotto, o perlomeno a cercarlo dove era più probabile che ancora si trovasse. Quando dall’osservazione, quasi obbligata
          dalle necessità della fame, ha compreso che certi prodotti si
          trovavano in maggior quantità in certi luoghi, ma non in altri, in
          certi periodi dell’anno, e quindi non sempre, si è anche ingegnato,
          con il lavoro personale e con l’osservazione, a riprodurre le
          circostanze e le condizioni affinché quel prodotto si rendesse di
          nuovo disponibile. Abbiamo detto l’uomo, ma in realtà
          l’invenzione dell’attività per produrre cibo è dovuta quasi
          sicuramente ad una lunga evoluzione delle attività giornaliere della donna,
          per la quale la ricerca di cibo era importantissima quando, ad
          esempio, era incinta o aveva dei bimbi da allevare.  Benché oggi tutto questo ci sembra
          lontanissimo nel tempo ed ormai superato da quando il nostro cibo ce
          lo compriamo nel supermercato, in realtà la ricerca di alimentarsi
          nei modi più rozzi e più spietati è una realtà che di tanto in
          tanto ci salta negli occhi dalla cruda TV puntata sui popoli distrutti
          dalla guerra, dalla carestia, dai terremoti, dal “sottosviluppo”! Come era allora nel Medioevo? E soprattutto, che cosa sappiamo sul cibo durante l’epoca del Medioevo Russo? è semplice dire Medioevo Russo, senza però sapere che in realtà
          questo periodo della storia europea ha dei cicli propri. Sono dei
          cicli quasi locali, come vedremo, che partono da una data
          convenzionale (e tramandataci soltanto dalla tradizione), la chiamata
          di Rjurik dalla Svezia poco dopo la prima metà del IX sec., e si
          chiudono a seconda della regione della Pianura Russa contemplata nella
          nostra investigazione, in date più o meno diverse nel XV secolo. Per comodità di esposizione noi abbiamo limitato la nostra ricerca ai
          secoli X-XIII principalmente e, senza entrare nelle questioni che competono
          alla veridicità delle fonti musulmane usate per la storiografia
          russa, cominciamo subito dalle informazioni tramandateci sui Russi (più
          esattamente sui Rus’) da un geografo del X secolo, al-Istakhri (traduz. da A. P.
          Novoselzev). Costui scrive nel suo Libro delle Vie e degli Stati il brano seguente: «I Russi. Di questi se ne conoscono tre raggruppamenti. Uno è vicinissimo ai Bulgari [ormai già mossisi dalla loro antica sede sul Volga e in movimento verso il sud della Pianura Russa, nota di ACM] e il loro re si trova nella città chiamata Kujaba (Kiev), più grande di Bolghar [la capitale bulgara sul Volga]. Il raggruppamento più lontano è as-Slauija [la zona di Novgorod la Grande nel lontano nord, nota di ACM] e il terzo si chiama al-Arsanija, il cui re si trova nella (città di) Arsa [probabilmente è Rjazan’, città non lontana dal corso medio del Volga, nota di ACM]. E la gente per commerciare viene a Kujaba. Per quanto riguarda Arsa non se ne sa molto perché tutti quelli che l’hanno raggiunta sicuramente sono stati uccisi dagli abitanti di quella regione che eliminano ogni straniero. Soltanto essi stessi scendono lungo il fiume per trafficare, ma non svelano a nessuno da dove vengono, delle loro merci e di dove le prelevano, né permettono ad alcuno di accompagnarli nella loro terra. Da Arsa esportano lo zibellino nero e il minerale di piombo. I Russi sono un popolo che bruciano i loro morti (…) e il loro vestito è una giacca corta (…) e questi russi trafficano con i Cazari, con l’Impero Romano e con i Bulgari (del Volga)…». Da questa fonte (ed anche da altri geografi musulmani del X secolo) sono definite tre zone culturalmente evidenziate come abitate dagli
          Slavi, e queste aree in pratica le abbiamo scelte per condurvi le nostre
          indagini.  Non sono però le sole aree abitate
          prevalentemente da popoli slavi che conosciamo, perché dopo la caduta
          della Cazaria sotto l’azione guerresca di Svjatoslav di Kiev nel
          965, una parte degli uomini che avevano seguito questo variago
          slavizzato decise di stabilirsi a Tmutarakan sul Mar d’Azov e
          fondarono un altro centro slavo sulla foce del Kuban. Un’altra zona della Pianura Russa è abbastanza particolare e va
          menzionata: è la steppa ucraina! Questa ampia fascia di terra a sud di Kiev fu
          anch’essa abitata dalla più remota antichità da popolazioni slave
          (la Cronaca Russa ne nomina qualcuna, come i Tiverzi e gli Ulici).
          L’area non è così fittamente coperta dalla foresta (se non nelle
          vicinanze dei declivi dei Carpazi Orientali) e perciò si presta ai
          rapidi passaggi e alle transumanze dei popoli che praticano poco
          l’agricoltura e preferiscono la pastorizia. Qui gli Slavi
          incontrarono popoli diversissimi provenenti dal Caucaso e fin dalla
          lontana Siberia europea e quindi, fondendosi con essi, sicuramente si
          appropriarono di molti usi e costumi nuovi che però, solo molto più
          tardi, influiranno sulle popolazioni delle foreste del nord. Il quadro dunque si presenta molto variegato. Da dove cominciare? Rileggiamo ancora una volta un altro “osservatore”, il geografo musulmano del X secolo Ibn Rusté, il quale intorno al 930 parla dei as-Saqalibat, intendendo con questo nome sicuramente (sebbene in modo generico, probabilmente riferendosi al traffico degli schiavi) degli Slavi, e di essi dice (traduz. da A. P. Novoselzev): «Il paese degli slavi è piano e pieno di foreste ed essi vivono lì. Ed hanno delle specie di botti nei quali mettono il miele. … Gran parte delle loro coltivazioni sono miglio [Panicum sp.]. Al tempo del raccolto prendono un secchio di miglio, lo elevano al cielo e dicono: O signore! Tu che ci hai dato finora il cibo, daccene ancora e in grande quantità!». Abbiamo qui un primo elemento che ci segnala
          qual era il cibo consumato in maggior quantità dagli Slavi che Ibn
          Rusté conosce e per di più che lo “slavo” di quei tempi sentiva
          che il cibo gli era dato da un essere supremo che concedeva a suo
          volere la vita a chi voleva o prediligeva. Il miglio è uno dei cereali più diffusi
          nell’antichità e non ci fa alcuna meraviglia che Ibn Rusté lo
          abbia notato anche presso gli Slavi. Questo cereale dai chicchi
          piccolissimi, anche se numerosi per ogni spiga, ha bisogno di terreno
          asciutto e di un clima secco di tipo continentale, e questo rientra,
          benché con fatica!, nelle condizioni standard che noi troviamo in
          alcune zone, lontane dai fiumi russi. Purtroppo ci sorprende in parte
          il fatto di non riuscire a localizzare quale dei tre gruppi
          “russi” indicati da Ibn Rusté effettivamente coltivava tanto
          miglio! Naturalmente il miglio non era l’unico
          cereale coltivato nell’area che ci interessa, in quanto dai rilievi
          archeologici si sono trovate tracce di tutti gli altri cereali che
          oggi più o meno conosciamo in Europa, retaggio di un’antichissima
          agricoltura nata più o meno seimila anni fa nella Mesopotamia (ossia
          l’Iraq di oggi) e nell’Egitto dei Faraoni. Si trova dunque il frumento
          ossia il cereale più nobile (ma meno resistente alle variazioni dei
          climi e alla natura del terreno), la segala, poco diffusa a
          quei tempi a causa del pericolosità di essere infetta dalla Claviceps
          purpurea (che contiene la velenosissima ergotina, alcaloide
          inebriante a basse dosi), l’orzo, chiamato anche il frumento
          dei poveri perché considerato il più ordinario, l’avena,
          insieme con quelle piante che servono per le loro fibre o per
          insaporire i cibi (o altri usi voluttuari) come il lino e la canapa. Un altro autore musulmano Ibn Dasta nota, alla
          stessa epoca di Ibn Rusté, che gli Slavi non hanno campi coltivati
          e che non coltivano la vite… L’osservazione di non aver visto campi
          coltivati, non ci meraviglia per quanto diremo in seguito, mentre per
          l’assenza della vite, la ragione è che il vino, primo
          derivato commerciale di questa pianta, fu introdotto solo col
          Cristianesimo e coltivato solo presso i monasteri (dov’era
          possibile!). Ci preme invece dire subito che, purtroppo, la tecnica agricola, ancora dopo gli sconvolgimenti dovuti alle grandi migrazioni dei popoli europei, specialmente nel VII secolo nell’area che ci interessa, dava ancora una bassissima resa. Nel X secolo l’agricoltura infatti
          (soprattutto da queste parti) si serviva ancora di arnesi di legno,
          non disponeva di fertilizzanti efficaci e neppure in gran quantità e
          quindi il contadino e le sue coltivazioni erano quasi sempre
          insufficienti per la propria sopravvivenza, figuriamoci poi, per lo
          scambio! Insomma la continua ricerca e la speranza di trovare terre
          “vergini” che avessero delle caratteristiche podologiche tali da
          permettergli una buona coltivazione per almeno un certo numero di
          anni, prima di rimettersi in cammino di nuovo e prima di ridursi alla
          fame, erano il primo compito vitale che si ponevano gli Slavi
          Orientali in migrazione verso il nord. Coltivare era un lavoro durissimo e
          laboriosissimo, sempre a causa degli arnesi insufficienti alla
          bisogna, e la gente era occupata a lavorare la terra per quasi tutta
          la giornata e solo quando le piante erano ormai vicine a maturazione,
          il villaggio si preparava alla grande festa collettiva della
          raccolta… purché tutto fosse andato per il verso giusto! Il quadro dunque che noi riceviamo dalla
          storia per questa gente che un giorno sarà poi divisa in russa,
          bielorussa ed ucraina (o altro) è quello di un popolo eminentemente
          agricolo proveniente da qualche regione interna dell’Europa centrale
          che si “sparge” per la Pianura Russa non oltre certi confini, che
          oltrepasserà solo dopo il XV secolo per conquistare la Siberia al di là
          degli Urali Come giustamente nota Pokrovskii, se è vero
          che gli Slavi erano agricoltori, tuttavia svolgevano la loro attività
          agricola sicuramente ai margini o circondati dalla grande foresta
          postglaciale che copriva tutta l’Europa ancora nel VII secolo e quindi
          altrettanto sicuramente dovevano integrare la loro dieta con i frutti
          o altro cibo che si poteva raccogliere senza pericolo nella selva,
          diventando giocoforza dei raccoglitori. Sono questi Slavi che dobbiamo immaginare di
          vedere giungere nella nuova patria della Pianura Russa. Vediamo allora
          di immaginare come si muovevano quando lasciavano le loro sedi
          originarie per popolare nuove lande cioè le tre o quattro aree che
          abbiamo appena menzionato.  La
          strada che devono aver seguito con tutta probabilità è ogni volta
          uno dei numerosi fiumi su una fila di barche cariche di masserizie e
          donne e bambini, costeggiando la fitta foresta fra i mucchietti di
          neve ancora ghiacciata perché hanno scelto di muoversi proprio
          all’inizio della primavera! Hanno con sé almeno qualche cavallino
          lituano, animale piccolo basso e peloso che viene attaccato al tiro
          con collare di legno, senza morso. Quando serve, da terra questi
          animali tirano le barche aiutandole a risalire la corrente. Non ci
          sono carri con le ruote perché questi veicoli negli acquitrini sono
          inservibili, ma gli Slavi sanno costruire le tregge-slitte che qui
          vanno di certo meglio.  Pochi sono gli animali che portano con sé:
          qualche capra, delle oche, maialetti e qualche scrofa un po’ più
          grossa. E questo è logico. Se già fanno fatica a nutrire se stessi,
          figuriamoci se poi devono mantenere anche gli animali… Il gruppo si muove con lentezza perché ci
          sono i bambini e le donne che si stancano presto e poi perché
          comincia a far caldo e, siccome qui è umido, bisogna difendersi dalle
          zanzare, portatrici molto pericolose di malaria, in quei tempi a volte
          fulminante. Di solito si preferisce muoversi verso l’alba, quando
          questi insetti diventano meno fastidiosi… Lungo il cammino per darsi un po’ di
          coraggio e tenersi su con la vita cantano, ma soprattutto il canto
          serve per annunciare il loro arrivo a chiunque nella foresta li abbia
          avvistati e per annunciare che sono arrivati degli amici e, perché
          no?, per tener lontane le belve che potrebbero essere in agguato nel
          folto.  A
          capo della carovana c’è il patriarca o ciur (o sciur, non
          sappiamo con sicurezza come si chiamasse questo capo, ma questa parola
          di solito indicava l’antenato mitico o totemico di ogni grande
          gruppo famigliare slavo, al posto del polacco zhupan o padrone
          delle mandrie) che fa da guida, non perché conosca la strada, ma
          perché è lui che decide la direzione da prendere, ispirandosi ai
          segni che gli spiriti benevoli lasciano e che solo lui vede e
          interpreta. è un uomo molto vecchio e secco (intorno ai 50 anni che
          a quei tempi era già un’età veneranda!), con il bastone di comando
          che agita davanti a sé. Ogni tanto dà un segnale d’arrestarsi quando nota un fil di fumo in lontananza. Può essere qualche villaggio dei nativi, la cui terra stanno attraversando. Gli autoctoni non vedono sempre di buon occhio questi arrivi inaspettati e, nascosti fra gli alberi, osservano il gruppo di migranti slavi (in russo chiamato nutà), mentre cercano di capirne le intenzioni. Il ciur è all’erta e pronto a
          trattare per fare un qualsiasi accordo, magari offrendo doni o
          proponendo un matrimonio con una delle tante figliole, e… di solito la composizione pacifica avviene (questo è evidente
          dall’archeologia). I nuovi arrivati sono allora invitati dagli
          autoctoni a proseguire o a fermarsi senza grande ostilità e le nuove
          famiglie miste attenuano tutte le discordie da entrambi le parti. Ma
          ecco finalmente la tanto sospirata radura nella foresta (poljana).
           Si radunano così in cerchio le barche tirate a secco e trascinate fin nella radura, di solito abbastanza discosta dal fiume che si è percorso, e sulla base di quel che si è rilevato (razvedka), mandando gli esploratori in giro, si fa un consiglio (duma) e si discute il da farsi. Il ciur è sempre attento a non prendere le grandi decisioni da solo e lascia che siano discusse in assemblea, la cosiddetta vece, partecipata da tutta la comunità. Solo così può regnare la pace (pace e comunità di villaggio in russo antico infatti è la stessa parola: mir)! La foresta sembra attaccabile meglio da questo lato per ricavarne un appezzamento di terreno (uciastok) e anche gli alberi sembrano essere buoni per potersi costruire delle case, le izbe, per le famiglie. Alcuni dei giovani sono subito mandati nella foresta per cercare frutti e bacche e per catturare uccelli, avvisando di evitare di raccogliere le bacche che non conoscono, perché potrebbero essere velenose. Viene detto ai giovani di non allontanarsi
          troppo nel fitto per non perdersi, anzi si raccomanda loro di segnare
          in modo chiaro i sentieri perché quei segni serviranno sicuramente in
          futuro.  «Cercate l’ortica presso i grossi
          alberi!», sono le indicazioni date loro perché quest’erba è
          utilissima in tutta l’economia contadina, ma soprattutto perché la
          presenza dell’ortica è il segno che qui possono esserci altre
          piante che i nuovi arrivati già usano per la loro utilità.  Chissà
          poi, che non trovino anche del miele! Se lo trovassero devono subito
          segnarlo col loro simbolo magico, così che chiunque altro sappia che
          l’alveare ha già il suo proprietario. Il miele, come si sa, è uno
          di quei prodotti molto cari che si possono vendere al mercato con gran
          profitto, oltre a tenerne un po’ per farlo fermentare e farne mjod,
          la grappa di quei tempi!  «Date un’occhiata in giro e notate che tipo di selvaggina vaga fra gli alberi…», e perciò, se vedranno qualche orma o altra traccia, sono pregati di prenderne nota. Se poi incontrassero qualcuno, che lo affrontino pacificamente, che lo invitino a mangiare con loro, senza deriderlo o litigare. Il
          ciur saprà come parlamentare! Non ha importanza che
          l’incontro risulti infruttuoso, occorrerà evitare assolutamente i
          litigi (le vite dei giovani sono troppo preziose per il lavoro dei
          campi che per spenderle in lotte sanguinose). Se sarà necessario,
          magari occorrerà cambiare zona. La prima cosa che il ciur farà nel posto prescelto è una cerimonia di consacrazione. Dobbiamo immaginare una cerimonia che ancor oggi avviene quando si spartisce la terra nuova. Ricordiamo la leggenda di Romolo e Remo? Forse avveniva qualcosa di simile. Il ciur segna intanto i confini e vi pone le mete sacre (grossi sassi morenici che si trovano abbastanza spesso da queste parti, chiamati valuny). Va finalmente ad ispezionare gli alberi da “uccidere”. E’ importante che non ci siano querce vecchie perché queste vanno assolutamente rispettate, perché sono sacre (come in tutta l’Europa). Poi manda le donne a tagliare profondamente la
          corteccia tutt’intorno ad ogni tronco. Si aspetterà finché gli
          alberi non secchino (un intero anno) e finalmente gli uomini abili li
          taglieranno lungo le linee segnate e useranno il legno che si può per
          le costruzioni. Il resto dei rami etc. sarà lasciato a seccare
          ancora, per poi essere adoperato per altri usi. Il ciur assaggerà infine l’acqua del
          fiume, per sentire se è troppo salata oppure se è buona da bere, e
          solo allora lascerà liberi gli animali di abbeverarsi e le donne e i
          bambini di bagnarsi e lavare i panni!  Di
          solito si divideva il campo in strisce parallele che venivano
          coltivate da ciascuna famiglia, ma senza una rigida divisione per tipo
          di coltivazione. Dopo qualche anno il terreno lavorato si esauriva e
          doveva essere lasciato riposare e quindi lo si abbandonava di nuovo
          alla “riforestazione” naturale, mentre si delineava una porzione
          di terra nuova per gli anni successivi, vicino al terreno posto a
          riposo. Proprio quando non si trovava più spazio in posizione
          conveniente per non doversi allontanare troppo dal villaggio, allora
          si faceva una grande assemblea e si decideva la nuova migrazione per
          terreni più fertili. Adesso però è tempo di sacrificare agli dèi.
          Di recintare un luogo sacro che sarà abbellito, come si può,
          offrendo le primizie e quanto si ha di meglio. Gli dèi li hanno
          accompagnati fin là ed hanno intermediato con gli dèi stranieri per
          far sì che questi li accogliessero e quindi bisognerà uccidere
          qualche gallo in ringraziamento e spargere il sangue tutto intorno al
          villaggio. Quando si metterà mano alla prima izba si immolerà
          addirittura un neonato che sarà seppellito proprio sotto la soglia… Ed
          ecco in qualche settimana nascere il villaggio contadino slavo.  I frontoni sono rivolti verso sud, l’entrata è laterale e la divisione è in due ambienti: uno caldo e uno freddo, con un vestibolo nel mezzo mentre sottoterra c’è una capace cantina. Nel sud della Pianura Russa, dove naturalmente
          il clima è più clemente, le izbe hanno una distribuzione
          degli spazi interni un po’ diversa e sono talvolta per metà
          sottoterra (zemljanki)… Qualcuno è già tornato dal giro di
          ricognizione e dice di aver trovato una sorgente a fior di terra che
          si potrà usare…  Più in là si scaverà un pozzo (kolòdez) per l’acqua che serve ogni giorno, dato che non è tanto comodo andare e venire dal fiume con i secchi sulle spalle a causa di tutti i pericoli che ci sono per ragazze, donne e bambini. Di solito si scava un pozzo per l’acqua vicino al campo coltivato e per tirar su l’acqua, si userà un secchio di legno appeso al capo di un lungo bastone, che si sbilancia su un palo confitto poco discosto dalla bocca del pozzo e che all’altro capo più lontano porta un contrappeso. Basterà immergere il secchio nell’acqua del pozzo e poi agire sull’altro capo della barra per sollevare con pochissima fatica il secchio pieno. Il pozzo veniva sempre ben protetto da una casetta costruita intorno con una porta e chiavistello e con tanti segni magici dipinti ben in vista, al fine di impedire a chiunque, uomo o spirito, di avvelenarne l’acqua. Ora finalmente bisognerà revisionare tutti gli arnesi e scegliere le sementi e poi… via! Al lavoro! Gli arnesi, l’abbiamo detto, sono di legno e non si è ancora adottato il vomere foderato di ferro più largo, che rivolta e aera le zolle, perché costa moltissimo e talvolta è introvabile per i mezzi d’acquisto del tempo. Si scava perciò poco profondamente e si zappa come si può, con rese in raccolto naturalmente bassissime! In questa insufficienza si pone la prima base al nomadismo contadino russo, tanto temuto dagli zar degli anni successivi. Tutti gli insediamenti slavi infatti possono essere considerati più o meno fissi, solo se si tiene presente che ogni 6 o 7 anni dovevano essere abbandonati per andare alla ricerca di terra nuova, quando il terreno finora occupato si era esaurito. Finché l’economia agricola non evolverà e l’artigianato e il commercio non favoriranno una più stabile occupazione dei luoghi con un approvvigionamento compensativo di derrate alimentari, la vita migratoria continuerà alla vecchia maniera… fino al XIV secolo. Torniamo al nostro villaggio… Nei mesi prossimi intanto a poco a poco si darà
          fuoco ai tronchi ormai secchi rimasti dal taglio degli alberi e a
          tutta la vegetazione intorno. Si aspetterà che le scintille roventi
          si siano estinte e le ceneri si rimescoleranno con la terra e con
          l’acqua, sempre con l’aiuto di vanghe e bastoni, e sarà questo
          l’unico vero concime. Infatti la tecnica agronomica dello
          sfruttamento delle ceneri ricchissime di potassio e nitrati
          costituisce l’unica applicazione di tipo intensivo alla coltivazione
          di quel tempo. Il problema è quello di riuscire a mescolarle
          intimamente con il terreno superficiale con quelle vanghe e quei
          bastoni che sono a disposizione. Solo dopo, di solito l’anno
          seguente, si procederà alla seminagione, all’innaffiamento e così
          via, e si aspetteranno le nuove messi. Tutte le operazioni qui descritte rappresentano la tecnica del maggese (par) in cui si sfrutta una striscia di terreno un anno o due e poi la si abbandona affinché la terra si rigeneri mentre si semina un’altra striscia di terreno contigua non ancora toccata o già precedentemente lasciata a riposo e così di seguito. Come abbiamo accennato più sopra, le piante che semineranno sono l’avena (Avena sativa) e la segala (Secale cereale), insieme al lino (Linum usitatissimum) e alla canapa (Cannabis) poiché queste sono le piante che gli Slavi riescono a coltivare bene, quasi fin sotto il Circolo Polare Artico. Quando comincerà la stagione cattiva, nell’ambiente freddo
          dell’izbà si conserveranno le derrate alimentari, mentre in
          quello caldo, dove per riscaldarsi si è costruita nell’angolo la
          stufa (pec’ka) monumentale fatta di ciottoli impastati con
          argilla, accoglierà la gente e i pochi animali, tutti insieme.  Ci
          scusiamo se il quadro che abbiamo dipinto è idilliaco, ma questo è
          un esempio ideale, per dare un’idea della vita del mir. In
          realtà rimettere insieme un insediamento, dopo aver lasciato il
          vecchio, è sempre un avvenimento traumatico per un gruppo di persone
          che sono costrette insieme da uno stesso destino ed in più le
          difficoltà ci sono e sono anche tante. Basti pensare alle ragioni che
          hanno causato la migrazione o al fatto che molti cari vecchi sono
          stati lasciati indietro perché incapaci di affrontare il faticoso
          viaggio e così persone e oggetti e ricordi 
          sono andati definitivamente perduti. Questo
          è il quadro più realistico che l’archeologia ci offre più
          crudamente… Dunque seminate le piante da coltivare, dopo
          averne raccolto le messi, come le manipolavano gli antichi Slavi?
          Certamente cucinavano e quindi consumavano le granaglie (krupà)
          sotto forma di pappa (kascia) o di pane (zhito), come fa
          la contadina russa ancora oggi.  Se la pappa non era facilmente trasportabile
          fuori di casa, il pane invece era il cibo principe e quindi
          rappresentava la “vita” (questa è la radice della parola zhito!)
          e il contadino sapeva bene che il pane sarebbe stato diverso a seconda
          del villaggio dove esso era fatto, a causa dell’uso di cereali
          diversi. Tuttavia era  fatto
          con lo stesso amore e quindi era altrettanto buono… Ad esempio, a Novgorod vi avrebbe trovato più
          grano di miglio e di segala, mentre a Kiev vi avrebbe trovato più
          grano di frumento e di grano saraceno.  Se la kascia è facilmente immaginabile
          come preparazione (salvo l’uso di diverse erbe aromatiche ed altri
          eventuali ingredienti aggiuntivi) nelle zone slave della Pianura
          Russa, per il pane dobbiamo dire che la tecnica era tutt’altra che
          quella odierna.  Le cariossidi dei cereali dovevano essere
          dapprima leggermente abbrustolite sul pavimento della pec’ka
          affinché le glumelle si rompessero e diventassero facilmente
          asportabili. Tirato fuori il grano dalla pec’ka, esso veniva
          agitato nel setaccio in modo che l’aria asportasse via le glumelle
          secche e lasciasse sulle maglie i grani nudi. Questi grani venivano
          lasciati poi a macerare nell’acqua calda tiepida per una notte e
          l’indomani, così ammorbiditi, venivano mescolati con la “pasta
          acida” rimasta dalla lavorazione precedente della birra (quando ce
          n’era) e impastati quanto meglio si poteva.  Modellati poi in forme tondeggianti, i pani erano posti a cuocere nella pec’ka perché si formasse una bella crosta. La crosta faceva sì che il pane si conservasse per più giorni, prima che se ne impadronissero le muffe… Talvolta i grani secchi dal setaccio venivano
          persino macinati con una mola. Questa era formata da una pietra piatta
          di forma rettangolare, chiamata lezhàk, ed una pietra di forma
          varia ma tondeggiante, chiamata bjegùn. Quest’ultima era
          premuta contro i grani posti sul lezhàk e mossa
          alternativamente avanti e indietro per tritare. C’era però ancora un altro metodo per
          rompere le glumelle per poterle asportare: lasciando germogliare
          leggermente i grani umidi… Insomma si viveva su un’economia agricola di sussistenza! Chiaramente ciò aguzzò l’ingegno dei contadini slavi per completare il magro apporto dei raccolti coltivati alla ricerca di “prodotti di complemento”. E dal bosco si ottenevano vari prodotti commestibili. Non solo. A parte la raccolta di frutti, l’utilizzazione di piante stupefacenti per ingannare la fame, la raccolta di piccoli animali (di tutti i tipi), la pesca soprattutto, facevano sì che, benché la fame rimanesse un elemento dominante della vita, il regime alimentare diventasse anche di tipo “stagionale” in cui in certe stagioni si mangiavano certi cibi e in certe altre altri, in certe stagioni si avevano certe malattie (a causa della mancanza in quel periodo di certe sostanze nutritive) e in certe altre si stava bene… Tuttavia il cibo deve essere anche conservato
          per i periodi di magra ed ad esempio sappiamo che i funghi, un
          prodotto molto comune, venivano o seccati e poi infilati in corde per
          essere mangiati in seguito. Così avveniva per il pesce etc. Anzi! A proposito di conservazione, in parte per il fatto che le acque sotterranee della Pianura Russa molto spesso sono saline a causa di un enorme lente di salgemma che si trova nel sottosuolo rimasta dalla cristallizzazione del fondo marino preglaciale, si usava la salamoia. Questo mezzo di conservazione comunissimo nel mondo degli Slavi orientali è rimasto tale fino ad oggi. A Russa (oggi Staraja Russa, sulle sponde meridionali del lago Ilmen) erano stati messi in funzione già nel XIII secolo degli enormi bollitori dove si concentrava l’acqua sorgiva salata ed il sale così ottenuto era uno degli articoli d’esportazione, sul quale la famiglia bojara di Novgorod, a capo della quale c’era nel XV secolo un noto personaggio politico novgorodese, Marta Borezkaja, aveva costruito la propria ricchezza! Tutto veniva messo in salamoia, a partire dagli ortaggi fino a qualsiasi altro commestibile. Certamente venivano aggiunte erbe aromatiche (come le foglie di quercia, ma queste aggiunte molte volte avevano un intento magico-religioso più che per insaporire la soluzione salina!) per attenuare il salato poiché bisognava accettare il cambiamento di fragranza, quando la fame incombeva o minacciava e non c’era altro da mangiare che la roba conservata dall’anno prima! Torniamo ora alle tre regioni che, secondo le
          fonti musulmane, erano individuabili come abitate dagli Slavi… Per quanto riguarda Kiev, se abbiamo sotto gli
          occhi una carta geografica fisica, potremo subito notare come questa
          città è attraversata dal fiume Dnepr e si trova giusto all’inizio
          di un canalone lungo il quale il fiume raccoglie tutte le sue acque
          prima di versarsi nel Mar Nero. E non solo! Prima di Kiev tutti i
          maggiori affluenti sono ormai confluiti nella corrente maggiore e, se
          ricordiamo che i fiumi rappresentano le uniche strade percorribili di
          quei lontani tempi, possiamo dire che seguendo la corrente qualsiasi
          corrente di traffico o migratoria diretta verso sud andava a finire
          proprio in questa città! La posizione delle colline che guardano il fiume sulle quali è appollaiata Kiev era la migliore possibile e quindi sfruttata da secoli, come ce lo prova l’archeologia. Kiev inoltre fu abitata, sin da quando ne abbiamo notizia, da Slavi e persino il nome dei fondatori della città sono slavi. Il vantaggio del luogo era non solo quello di
          rappresentare il punto d’incontro dei diversi gruppi che vivevano
          nelle aree vicine a nord ed a ovest, ma anche quello di poter tenere
          contatti quasi immediati con due grandi centri di civiltà del X secolo:
          Bisanzio da una parte e la Cazaria dall’altro, come ci raccontano le
          Cronache. Logicamente i contatti di Kiev con Chersoneso
          in Tauride, importantissimo porto bizantino in Crimea, con le colonie
          di Amalfi e di Genova favorirono la città slava nel far conoscere
          nuovi cibi e nuove credenze che sicuramente migliorarono il livello di
          vita di tutta la regione. Questo fu uno dei motivi principali che
          spinse i Variaghi e i loro alleati Slavi del Nord a cercare di
          conquistarla e metterla sotto il loro controllo. A questo punto, siamo alla prima metà del X secolo, avviene una svolta epocale nella vita del contadino slavo
          dell’area di Kiev (e persino fin sotto Polozk): Non solo il
          contadino (smerd) perde parzialmente la sua libertà nel suo
          villaggio, ma è costretto ad una cessione periodica (ogni inverno) di
          quanto produce in più (!!) o risparmia. Il capomafia variago-slavo di
          Kiev venuto dal nord, attraverso il cosiddetto poljudie ossia
          la raccolta forzata, procede lungo un itinerario prefissato e si ferma
          alle varie stazioni, dove il contadino è obbligato a consegnargli il
          “superfluo” (dan’). E non solo! Tutti i boschi sono dichiarati
          proprietà assoluta del capomafia e persino il diritto di pascolo, il
          diritto di procurarsi la legna da ardere per riscaldarsi e per
          cucinare, la caccia agli animali di piccola taglia, vengono
          assoggettati ad una regolamentazione restrittiva (vedi la Pravda
          Rus’ka).  Lo smerd perde addirittura il suo ruolo
          di sostentatore indiretto della società cittadina dove risiede il
          potere poiché l’élite mercantile kieviana si accorge che si può
          procurare derrate alimentari in gran quantità e di gran varietà…
          mediante i traffici delle pelli, degli schiavi (anche questi presi ai
          contadini che con l’impoverimento e quindi per l’impossibilità di
          mantenere bocche in soprannumero cedono volentieri i propri bimbi),
          del miele etc.! A questo punto alla gente dei villaggi
          dell’hinterland kieviano viene imposto di dedicare più tempo alla
          raccolta e alla preparazione dei prodotti richiesti dal mercato e meno
          tempo all’agricoltura, impoverendo il contadino sempre di più e
          spingendo alla fame cronica oppure all’emigrazione e alla fuga.
          Verso Kiev andranno i più giovani alla ricerca di una vita migliore,
          magari lavorando come artigiani o guerrieri di bassa forza! Per il momento si lasciano al contadino i
          propri usi e costumi, i propri dèi e le proprie credenze proprio
          perché l’élite variago-slava è culturalmente inferiore in questo
          ambito alla società del mir slavo e il menu della
          tavola contadina si cristallizza d’ora in poi nei suoi piatti ed
          alimenti tradizionali… favorendo la nostra curiosità! Poco invece sappiamo della zona intorno a Rjazan, Rostov-sul-lago-Njero e delle zone intorno al Volga superiore, dove abitano i Vjatici e i Radimici che tradizionalmente attribuiscono la loro origine ai lontani Ljakhi, ossia quelli che oggi sono i Polacchi intorno a Cracovia e a Lublino. Costoro resteranno a contatto con Finno-ugri e Turchi per molto tempo e quindi, benché temuti per la loro xenofobia e per il loro modo di vita detto selvaggio nelle Cronache, sicuramente subiranno le influenze dell’Islam della vicina grande città di Bolghar e quindi, gelosi delle proprie credenze magico-religiose e dei propri costumi, si differenzieranno abbastanza dai kieviani, tanto che questi ultimi per riconoscerli dovranno stare attenti alle loro... scarpe! Possiamo dunque presumere che i contatti con queste aree nel successivo XII secolo quando venne fondata Mosca non lontana da Rostov, in certo qual modo imbastardì le usanze alimentari e le credenze magiche sul cibo dei russi che venivano da Kiev e dintorni e che alcuni nuovi alberi da frutto e alcune nuove preparazioni culinarie entrarono proprio per questo tramite! Di più invece sappiamo degli Slaveni della
          zona di Novgorod e dei Krivici intorno alla città di Polozk. La mafia variago-slava di Kiev su
          quest’ultima città aveva poca influenza poiché Polozk era dominata
          da un altro racket mafioso svedese che faceva capo ad un certo
          Ragnvald (in russo Rogvolod) e questi dominava una delle tante
          “autostrade fluviali” russe, quella che scendeva lungo la Dvina
          che sbocca nel Golfo dell’odierna Riga. Il paesaggio era densamente
          forestato con qualche basso rilievo qui e là e quindi la raccolta dei
          prodotti della selva era dominante nella popolazione baltica
          autoctona. Con la successiva mescolanza dei contadini slavi agli
          autoctoni, assimilazione comunque già molto avanzata alla fine del IX
          secolo, benché l’elemento slavo sembri essere in minoranza, gli
          “slavi” Krivici (e Dregovici?) che ne risultarono riuscirono
          sempre a distinguersi dai kieviani. In quella zona perciò gli Slavi incontrano un
          mondo legato all’economia forestale, con usi e credenze molto
          diverse dalle proprie, ma non tanto forse per le funzioni di questi
          esseri soprannaturali quanto invece nei nomi loro attribuiti. Qui è
          certamente di casa Perkunas, il Dio che abita nella Quercia e che
          domina il cielo perché padrone del tuono e del fulmine e quindi del
          fuoco e della sua forza purificatrice. Questo sarà poi convertito a
          Dio supremo del Pantheon slavo, col nome di Perùn o Peryn, e sarà il
          dio protettore di Valdimiro il Santo, prima che questi si faccia
          battezzare nel 988! Da queste parti anche a causa dell’introvabilità di radure e per la natura paludosa della regione l’agricoltura sarà molto stentata. Ad esempio, il bacino del fiume affluente del Dnepr, il Pripjat, oggi famigerato perché è il fiume che passa da Cernòbyl, costituisce grandissima parte dell’area dei Krivici, ma è anche in pratica un’enorme palude impenetrabile! Questa immensa palude era già nota ai tempi di Erodoto, che ne aveva sentito parlare molti secoli prima e questo storico greco pensava che fosse un mare vero e proprio e che mettesse in contatto con il mitico Oceano che circondava tutta la Terra. Tuttavia la palude è anche una risorsa per le
          erbe medicinali che vi crescono spontanee, ma non si può vivere di
          queste e infatti la Bielorussia (ossia lo stato odierno derivato da
          Polozk) ancor oggi è rinomata per la raccolta di erbe e per gli
          infusi che si fanno solo da queste parti, ma anche per la bassissima
          densità di popolazione, dovuta a lunghissimi anni di stenti. Per quanto riguarda la regione novgorodese,
          dobbiamo dire che qui siamo al limite della possibilità di coltivare
          in assoluto perché ci troviamo ormai nella zona vicina al Circolo
          Polare Artico e ogni attività umana dipende da questa latitudine
          sfavorevole. La vita è specializzata per resistere alla poca luce
          solare, all’escursione termica che raggiunge differenze di
          temperature fra estate e inverno di 40 e più gradi. Pure qui la densità demografica, intorno al
          Lago Ilmen e al Lago Ladoga dove si trova Novgorod, è bassissima e
          tradizionalmente la gente autoctona (i Finnici) per vivere deve
          seguire le migrazioni dei grandi mammiferi, se vuol sopravvivere, come
          ancora oggi fanno i Lapponi (Sami)… Secondo Solovjov, ma l’archeologia ce lo conferma, si poteva coltivare il frumento fino alle rive meridionali del lago Ilmen, dopodiché la pianta non era più utilizzabile e ciò costituì per Novgorod un grosso handicap perché per sostentarsi dipendeva completamente dalle derrate che provenivano dal sud del suo territorio, prima da Kiev e poi dalla Terra del cosiddetto Basso Volga. Ripetutamente Novgorod cercò di liberarsi da
          quella pesantissima palla al piede, sia tentando di costituire uno
          stato che comprendesse il sud (Kiev) sia poi cercando relazioni sempre
          più strette con le altre potenze delle immediate coste baltiche e
          solo barcamenandosi a questo modo riuscì ad esistere come entità
          indipendente fino al 1478! Il cibo in questa zona era oltremodo importante e la gente che gli Slavi incontrarono era disposta a qualunque cosa pur di procurarsi da mangiare in modo non troppo faticoso. Leggiamo nelle Cronache molti episodi di carestie e di cannibalismo a Novgorod e dintorni. Abbiamo notizia di scontri sanguinosi per impadronirsi delle derrate accumulate da qualcuno in qualche luogo vicino. Leggiamo di spedizioni che non badano affatto all’importanza o alla sacralità della vita umana e si procede ad uccisioni di massa senza pietà purché si raggiunga lo scopo di potersi procurare merce di scambio per comprare derrate alimentari che mancano. Per fortuna però i fiumi sono pescosissimi e
          ricchi di pesci di grandi dimensioni e, ma è uguale in tutta la
          Pianura Russa, la dieta a base di carne di pesce è dominante. Si
          pesca poi, se si vuole, in tutte le stagioni, anche quando i laghi (e
          qui ce ne sono moltissimi) sono ghiacciati in superficie. Basta fare
          un foro nel ghiaccio e gettare l’amo! Stranamente (ma non tanto) manca il pesce di
          mare nella dieta da noi rintracciata o ricostruita… 
          almeno fino al XIV secolo, quando arriva l’aringa o quando si
          colonizzano le lande deserte sotto il Mar Bianco! 
 
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©2005 Aldo C. Marturano