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a cura di Felice Moretti


seconda parte

di Felice Moretti

La peste entra in città.

Per quanto riguarda la Puglia, altrettanto poco informati siamo sul terremoto che nel 991 sconvolse Siponto. La notizia non è registrata né negli Annali né in cronache altomedievali. Dell'evento parla Pompeo Sarnelli, mentre il Baratta lo liquida in un rigo: «Spaventevole terremoto in Siponto (presso l'attuale Manfredonia) ed in Puglia». Né il vuoto di informazioni può essere riempito dal Bonito che, sulla scorta della estrema libertà del cronologo Paolo Morigia, lo localizza nel «nostro Regno» all'anno 981. Così scrive il Morigia: «Una gran cometa in questi tempi apparve in Italia, e poco dopo seguitarono terremoti grandi, dove che le città di Benevento e di Capua furono di tal maniera percosse, che quasi andarono a terra, e la carestia e la peste levò la vita à molte centinaia d'anime». Non c'è bisogno di dimostrare l'estrema libertà del Morigia sia nella localizzazione dei terremoti sia nell'individuazione cronologica: la data posta a margine non veniva da lui intesa come l'indicazione di un anno determinato, ma come terminus post quem cui le notizie dovevano essere riferite. Ma è anche probabile che questo terremoto voglia riferirsi a quello devastante del 990, anticipato da Corrado Licostene al 983 nel suo fantastico Prodigiorum ac ostentorum chronicon: «Cometes hoc tempore apparent, quem fames, pestis, ac terraemotus subsequitur, quo terraemotu Beneventum, et Capua concussae sunt». Né ci è di aiuto il Sommario overo età del mondo chronologiche del confusionario Girolamo Bardi che data l'evento sismico al 987.

Fra i primi terremoti avvenuti in Italia meridionale all'inizio del secolo XI e la fine dello stesso, esiste una lacuna di informazioni non riscontrabile nei periodi successivi. E nonostante il Catalogo dell'ENEL-ING, parzialmente edito dal CNR, inizi le sue serie storiche proprio nell'XI secolo, i terremoti di questo stesso secolo sono stati dimenticati dalla tradizione sismologica, e trascurati da quella storiografica, tutt'alpiù mitizzati. Il silenzio delle fonti potrebbe essere attribuito ad un «riposo» sismico? Il giudizio è di pertinenza del geologo. Ma quando analoghe lacune si riscontrano, per lo stesso arco cronologico, e per la stessa area, nelle annotazioni climatiche con relativi accenni a carestie o a sovraproduzioni, allora il giudizio non è demandato solo al geologo. Qui entra in gioco tutto un sistema mentale difficile da padroneggiare. Nonostante le tappe segnate dalla ricerca in questo campo, la storia della mentalità e del comportamento dei diversi ceti sociali nel Medioevo ha percorso poca strada. Potremmo supporre, ad esempio, che il cronista, pur testimone o a conoscenza di un fatto sismico, non abbia dato allo stesso alcuna importanza perché magari contemporaneo ad una o più situazioni calamitose, guerra, epidemia, carestia e pertanto, esse o solo esse, meritevoli della «prima pagina».

Altri elementi culturali potevano entrare in gioco, quale ad esempio l’eccessiva importanza data dal monaco o dal chierico al fatto prodigioso che avrebbe potuto anche comprendere un fenomeno sismico, passato però sotto silenzio, a meno che non fosse stato di proporzioni devastanti tali da meritare la dovuta attenzione e registrazione.

Dei sedici eventi sismici, che hanno retto ad un accurato controllo delle fonti, localizzati in Italia nell'arco cronologico fra VI e X secolo, oltre la metà di essi ha avuto i massimi effetti in area meridionale. Fra questi annoveriamo quello che sconvolse la Calabria settentrionale fra il 951 e il 1004.

Fra il 1004 e il 1005 è registrato un altro terremoto in Campania, la cui forza fu determinata più dalla diffusione dei danni al patrimonio edilizio ecclesiastico che dalla sua intensità e devastabilità: «In quel tempo ci fu un ingente terremoto in Campania che durò per quindici giorni di­struggendo molti edifici». Più precisi gli Annales Casinenses che riferiscono della distruzione di chiese: «Ci fu un grande terremoto che durò per oltre quindici giorni, Monte Cassino tremò sì che la chiesa subì le­sioni in più parti». II Bonito segue gli Annalisti e data il terremoto campano al 1004, trasferendolo poi in Sicilia nel 1005 assieme ad una caterva di flagelli che interessarono l'Italia intera fino a tutto il 1006 con il solito corteo di prodigi. Poi, nell'Italia meridionale continentale, silenzi e apocrifi per quasi tutto il secolo XI. Ma se il CNR ha calcolato in 335 gli eventi sismici a partire dall'XI secolo fino alle fine del XV e di intensità compresa fra il V e 1'X1 grado MCS, ritenendone 46 molto distruttivi (uno ogni 11 anni circa), possiamo ragionevolmente de­durre che un buon numero di terremoti disastrosi abbiano interessato l'Italia meridionale nell'XI secolo, soprattutto l'area dell'Irpinia e sannito­matese. E questo, sulla base dei rapporti di fonti certe dei secoli successivi.

Le cronache altomedievali sono cariche di tensione narrativa nella descrizione di segni che appaiono nel cielo: comete, eclissi, lingue di fuoco, eserciti in combattimento. Agnello Ravennate (IX secolo), nel Liber Pontificalis presta una attenzione particolare a questi fenomeni e li inserisce nella trama del racconto storico sottoposto a verifiche fenomeniche nel cielo, che precedono la scomparsa di papi, re e vescovi: «A quei tempi, da tutti fu visto, verso Aquilone, incendiarsi il cielo»; «e abbiamo visto tutte queste cose e terremoti e prodigi nel sole e nella luna»; «e dopo il terzo anno un segno di fuoco apparve nel cielo nel giorno XI del mese di novembre»; oppure, «e fu visto un altro prodigio grande e terribile, ed ecco in cielo quasi un combattimento tra uomini come in battaglia»; o ancora, «nel mese di gennaio apparve una stella cometa di mattina e di sera e nello stesso mese morì il pontefice e la stella scomparve».

Questa sequenza di segni costituiva il substratum su cui si stendeva il fatto storico senza cesure e senza iati, ma in modo «simpatico». La compatibilità fra segno e fatto storico non era messa in discussione, ma garantita dall'immersione del pensiero dello storico nell'universale pensiero religioso di quei secoli. I segni erano gli ambasciatori di arcane profondità, del cielo come della terra, manifesta volontà di Dio e portavoce di sventure e sciagure. Potevano predire fame, malattie, scandali, lutti di grandi personaggi, catastrofi naturali: sempre e comunque caricati di valenze generali e collettive, e senza rimedio. Quello altomedievale era un universo segnico che non dava scampo, com'era invece possibile nella tradizione classica, dove i segni offrivano indicazioni sui rimedi per stornare i colpi.

Nell'Historia Langobardorum di Paolo Diacono si legge: «…Successivamente, nel mese di Agosto, apparve verso oriente una stella cometa dai raggi luminosissimi, che sparì dopo aver girato su se stessa. Subito dopo seguì una grave pestilenza, sorta sempre in oriente, che devastò il popolo romano». È ancora Paolo Diacono ad offrirci un esempio di segnica applicata a fenomeni normali, né casuali, né gratuiti, ma gravitanti attorno alla elevata dimensione dei personaggi: «In questo periodo, nell'indizione ottava, la luna subì un'eclissi anche di sole, quasi allo stesso tempo, circa all'ora decima del giorno tre di maggio. Subito seguì una gravissima pestilenza che durò tre mesi, cioè luglio, agosto e settembre... E allora a molti apparve visibilmente che un angelo buono ed un angelo cattivo giravano di notte per la città e, su ordine dell'angelo buono, l'angelo cattivo, che portava in mano uno spiedo da caccia, col­piva la porta di questa o quella casa, e quanti colpi dava, tanti erano gli uomini di quella casa che il giorno seguente morivano ...».

Gli elementi apocalittici che hanno preceduto e seguito la morte di Gregorio Magno ci sono tutti, compreso l'angelo del bene e quello del male. Sono segni che, a partire soprattutto dall'VIII secolo, troveranno ampio spazio nelle miniature occidentali con raffigurazioni dell'Apocalisse in cui predominano immagini di terremoti: crolli di edifici, cadute di massi, alberi sradicati. La tensione escatologica è garantita. Il punto di riferimento dei miniaturisti è l'Apocalisse di Giovanni, che è anche il punto più alto di tensione. È qui (Ap. 6. 12-16) che il terremoto viene ricordato in più punti e diventa l'allegoria dell'Apocalisse quando l'agnello apre il sesto sigillo, e quando gli angeli, che hanno sette coppe, corrispondenti a sette calamità, versano l'ultima, appunto il terremoto, che pro­voca la distruzione di Babilonia (17.1-19, 20). Lo spettacolo celeste poi, con l'eclissi di sole e di luna diventa il simbolo della fine dei destini umani, preda di Lucifero, collocato dalla tradizione nel mondo sotterraneo, sede naturale del terremoto, ed in lotta con l'Arcangelo Michele difensore dell'umanità dal terremoto: Pre terremotus eis sis lux, tu pius semper in omni adversitate protector esse dignare, si legge nel Liber Sacramentorum Gellonensis dell'VIII secolo.

Immagini apocalittiche ricorrono frequentemente in opere di autori altiomedievali, draghi compresi, che solcano i cieli, come si legge nell'Anonimo Valesiano che descrive il parto di quattro draghi da parte di una povera donna di stirpe gotica. Di questi, due furono visti volare da occidente ad oriente e precipitare poi in mare; gli altri due furono invece visti attraversare il cielo uniti da una sola testa. Subito dopo apparve una cometa in cielo e vi furono frequenti terremoti.

Alla fine del primo millennio e all'alba del secondo, il cielo conosce un traffico sostenuto di comete, draghi e serpenti.

«Si videro in quei giorni molti prodigi, uno spaventoso terremoto, una cometa dalla coda folgorante; la luce vivida ed intensa inondò fin l'interno delle case, e nel cielo che pareva fondersi tracciò l'immagine di un serpente». Così si legge in Sigeberto di Gembloux, e gli Annali di Hirsau, compilati nello stesso secolo XI, riprendono e coloriscono il contenuto della Chronographia di Sigeberto: «Nell'anno Mille dell'incarnazione violenti terremoti fecero tremare l'Europa intera, distruggendo dappertutto edifici solidi e magnifici. Lo stesso anno apparve nel cielo un'orribile cometa. Molti al vederla credettero fosse l'annunzio dell'ultimo giorno...».  

Alle soglie dell'XI secolo, il millesimo dell'incarnazione di Cristo, esplodeva nella coscienza collettiva la paura dell'imminente fine del mondo. Il terrore del dies irae, annidato nelle coscienze, trasmesso per lunghe generazioni di uomini, esplodeva. La venuta dell'Anticristo era imminente. Il millenarismo fa parte della escatologia cristiana, si innesta nella tradizione apocalittica ed è strettamente legato al mito dell'Anticristo. L'Apocalisse evoca terribili tribolazioni e, nello stesso tempo, genera una credenza ottimistica. È l'affermazione di un rinnovamento decisivo: «Ecce nova facio omnia» - dice Dio nel Giudizio.

Ma non è solo l'Apocalisse ad annunciare la fine dei tempi; altri testi intervengono, ispirati dal Vangelo: Matteo XXIV Marco XIII, Luca XXI. «Consurget enim gens in gentem et regnum in regnum et erunt pe­stilentiae et fames et terraemotus per loca: haec autem omnia initia sunt dolorum». È, per Matteo, il principio del tempo delle sofferenze, dell'abominazione, della desolazione.

I prodromi della fine dei tempi non si manifestano quindi alla fine del X o nel primo quarto dell'XI secolo. L'annuncio dell'Anticristo già presente nella profezia di Daniele, nell'Apocalisse, nelle due epistole di san Paolo ai Tessalonicesi, in sant'Ireneo alla fine del II secolo, in Ippolito di Roma all'inizio del III secolo, in Lattanzio all'inizio del IV, gli hanno dato figura e storia. Le grandi predizioni hanno poi trovato le corrispondenze storiche: guerra ebraica, crisi economica alla fine del I secolo, grave crisi del mondo romano nel III secolo, peste nera nel VI secolo e così via via tutte le altre sciagure accompagnate dal corteo di segni: comete, piogge di sangue e di fango, terremoti, maremoti che scateneranno una paura panica per la fine del mondo, preannunciata dal passaggio di  fantastici eserciti nei cieli tempestosi, quelli dei morti, diceva la folla, dei demoni mendaci, dicevano i dotti. Ma, nell'inventario dei segni, il terremoto era considerato particolarmente significativo. Era il téras, il fenomeno straordinario e mostruoso per eccellenza, che coinvolgeva l’umanità e rovesciava l'equilibrio sociale. Un manoscritto del XV secolo, il Corpus Codicum Astrologicorum Graecorum dice: «Sognare il terremoto significa turbolenza universale». E nel primo quarto dell'XI secolo, il cordone ombellicale che aveva nutrito di paura le generazioni del millennio precedente stava per spezzarsi col caos universale che ne sarebbe seguito. «A proposito della fine del mondo - scrive Abbone - sentii predicare al popolo in una chiesa di Parigi che l'Anticristo sarebbe venuto alla fine dell'anno mille e che il giudizio universale sarebbe seguito di poco. E la fine della fine era annunciata con fenomeni straor­dinari come quello che si legge negli Annali di Saint-Benoit-sur Loire, registrato all'anno 1033, cioè la nascita di un mostro che i genitori affogarono, e da disordini cosmici puntualmente annotati dagli annalisti, cronisti e scrittori di storie.

Ademaro di Chabannes e Rodolfo il Glabro caricano di tristi presagi la comparsa della cometa, come quella apparsa nel cielo della Gallia nell'anno 1014 che, «rifulgendo con grandissimo splendore, dominava con la propria luce la maggior parte della volta celeste, finché scompariva al canto del gallo... Un fatto però è dimostrato con sicurezza: tutte le volte che un fenomeno del genere appare ad occhio umano, esso annunzia per l’immediato futuro, con chiara evidenza, qualche avvenimento straordinario e terribile. Poco dopo accadde che finisse bruciata da un incendio la chiesa del beato Michele arcangelo: quella che è situata so­pra un promontorio della costa oceanica e viene a tutt'oggi venerata dal mondo intero ...». «In quel tempo - scrive Ademaro di Chabannes - una cometa, che aveva, ma più larga e più lunga, la forma di una spada, apparve verso settentrione durante l’estate, per parecchie notti; e subito in Gallia e in Italia numerose città, castelli e monasteri furono distrutti dal fuoco ...». E al fuoco succedeva la fane e la peste.

Ademaro di Chabannes e Rodolfo il Glabro potettero osservare direttamente quei fenomeni e le tristi conseguenze, e li descrissero in pagine superbe. «In quel tempo inferiva tra gli uomini un flagello terribile, cioè un fuoco nascosto che, quando si apprendeva ad un membro, lo consumava e lo staccava dal corpo: la maggior parte, nello spazio di una notte, erano completamente divorati dalla spaventosa combustione... In quei giorni, un'epidemia di fuoco sacro divampò nel Limosino. Un numero incalcolabile di uomini e di donne ebbero il corpo consumato da un fuoco invisibile, e dappertutto il pianto copriva la terra ...».

Ancora più raccapricciante lo spettacolo che ne dà Rodolfo il Glabro: «In seguito la fame cominciò a diffondersi in ogni parte del mondo, minacciando di morte quasi tutta 1'umanità. Le condizioni climatiche erano così sconvolte, che non arrivava mai il momento opportuno per nessuna semina né il tempo utile per la mietitura, soprattutto a causa delle inondazioni. Pareva che gli elementi lottassero tra loro in reciproco conflitto, mentre è certo che infliggevano una punizione alla superbia degli uomini... Ogni strato della popolazione fu colpito dalla penuria di cibo; ricchi e meno ricchi diventavano smorti per la fame quanto i poveri; le angherie dei potenti si arrestarono di fronte alla generale indigenza... Frattanto, dopo essersi cibata di quadrupedi e uccelli, la gente, sotto i morsi tremendi della fame, cominciò a prendere per nutrimento ogni sorta di carne, anche di bestie morte, e altre cose schifose. Taluni cercarono di sfuggire alla morte mangiando radici silvestri e piante acquatiche, ma inutilmente: non si trova scampo all'ira vendicatrice di Dio, se non rivolgendosi a sé stessi. Si inorridisce a descrivere le perversioni cui l'umanità andò soggetta. In quel tempo - oh sventura! - la furia della fame costrinse gli uomini a divorare carne umana, come solo di rado si era sentito in passato. I viandanti venivano ghermiti da uomini più forti di loro, squartati, cotti sul fuoco e divorati. Molti tra coloro che migravano da un luogo all'altro per sfuggire all'inedia, furono sgozzati di notte nelle case dove venivano accolti e diedero nutrimento ai loro ospiti. Moltissimi adescavano i bambini con un frutto o un uovo, li inducevano a seguirli in posti appartati, li trucidavano e li divoravano. In innumerevoli luoghi perfino i cadaveri furono dissepolti e usati per calmare la fame...».

Le testimonianze di Ademaro di Chabannes, di Rodolfo il Glabro e di altri cronisti e annalisti del X o dell'XI secolo, pregne di alta drammaticità, fanno nascere il sospetto di aver esagerato per il gusto di comporre pezzi di bravura. Ma questo sospetto non può liquidare con eccessiva disinvoltura la loro testimonianza. E se è vero che la obiettività difetta quando si ispira alle opere di autori classici, l'argomento non regge nel caso specifico delle intemperie di cui si lamentano. Gli autori classici dei tempi di Augusto o della Repubblica romana non si lagna­vano mai, o quasi mai, del clima della loro epoca. Troppo precisi sono invece i particolari segnalati, ad esempio, da Rodolfo il Glabro. Gli anni dal 1030 al 1032 furono talmente sfavorevoli che non si trovava mai il tempo giusto per alcun tipo di semina o che, soprattutto a causa delle inondazioni, «non arrivava mai il momento opportuno per nessuna se­mina né il tempo utile per la mietitura». Questa calamità «aveva avuto origine in Oriente: dopo aver devastato i territori greci giunse in Italia, per poi riversarsi in Gallia e affliggere infine ogni zona dell'Inghilterra».

L'itinerario è troppo preciso per non prenderlo sul serio. L'anno stesso del millennio della Passione, il 29 giugno 1033, ebbe luogo l'eclissi di sole registrata anche dagli Annali di Benevento e descritta da Rodolfo il Glabro con toni apocalittici: «Venerdì 29 giugno dell'anno millesimo della passione del Signore, ventottesimo giorno della luna, si ebbe un'agghiacciante eclissi, ossia mancanza di sole, durata dall'ora sesta fino all’ottava. Il sole assunse un colore di zaffiro, e nella zona superiore aveva l'aspetto che prende la luna il quarto giorno del nuovo cielo. Gli uomini, guardandosi l'un l'altro, si scoprivano d'un pallore mortale; tutte le cose esposte all'aperto apparivano d'un colore giallastro. Allora uno sbigottimento, un terrore sconfinato invase il cuore di ognuno: chiunque osservava il fenomeno intuì che esso annunziava qualcosa d'infausto, una disgrazia che stava per abbattersi sull'umanità. Quel medesimo giorno, in cui si celebra l'anniversario degli apostoli, alcuni esponenti della no­biltà romana, uniti da una congiura, insorsero nella chiesa di San Pietro contro il papa, tentando di ucciderlo: non vi riuscirono, ma lo scacciarono dal suo soglio... Accadeva d'altronde un po' dappertutto, negli affitti ecclesiastici come in quelli secolari, di veder commettere atti che violavano ogni giustizia... la più sfacciata avidità occupava il cuore degli uomini, e la fede di tutti era in pericolo. Ne seguivano le rapine, gli incesti, i conflitti tra folli bramosie, i furti, gli adulterii più vergognosi. Che obbrobrio! ciascuno provava sgomento a confessare quel che pensava di se stesso; ma nessuno sapeva liberarsi da questa perversa abitudine al vizio ...».

La depravazione, il vizio, i peccati di carne e quelli contro natura erano delle costanti nell'interpretazione dei fenomeni straordinari e delle conseguenti calamità. Il peccato di sodomia in epoca più tarda, sarà ritenuto a Bologna come a Piacenza come nel Mezzogiorno la causa prima del terremoto. Riflessioni interessanti, soprattutto riferite all'età moderna, si leggono in Matteo dell'Aquila che, a conclusione del suo trattato scientifico sulle cause e sulla natura della cometa e del terremoto, sostenne che questo non era altro che un rimprovero rivolto all'uomo dalla divinità per le turpitudini che si perpetravano sulla terra, a cominciare dal peccato contro natura: «Infatti, sebbene ora non è attinente al mio lavoro passare in rassegna con la mente e con la penna i peccati altrui, non ci sfuggono tuttavia quali delitti, quali misfatti bestiali e crimini funesti contro la creazione del Signore e contro gli uomini, tanto occultamente quanto pubblicamente, sono commessi, permessi, imposti e portati a termine. Infatti, se anche non ci fosse null'altro, sarà sufficiente, per l'annientamento e la distruzione della natura, il peccato che si definisce appunto contro natura». Sono frequenti i bruschi salti logici del maestro abruzzese che, dall'esame scientifico dei vari aspetti in cui la cometa si presenta, passa poi in modo disinvolto a trattare le cause antecedenti l'evento sismico con notazioni empiriche molto disparate, senza trascurare di menzionare avvertimenti miracolosi e soprannaturali.

Risulta pertanto evidente come dalla lettura del trattato di Matteo dell'Aquila e da quella delle cronache che riferiscono del terremoto napoletano del 1456, l'Europa del '400 appare tutta calata nel Medioevo, dove non v'era pace né in terra fra gli uomini, né in cielo fra le stelle.

Se Ademaro di Chabannes osservò nel 1023 che «due stelle combattevano fra di loro per tutto l'autunno», «alle Kalende dì marzo, all'ora del vespro - si legge nella cronaca di Ekkeardo - vedemmo nubi di fuoco o di sangue levarsi verso aquilone ed estendersi nel firmamento incutendo non poco terrore. Infatti, il fulgore riempì a tal punto ogni città, che ognuno pensò che stava per apprestarsi la fine del mondo».

Come si vede, l'interpretazione dei segni toccava di diritto agli u­mini di preghiera, ai monaci. E i segni non erano fuori dal tempo né dalla storia: erano parte integrante di essa, di quella storia della salvezza in cui si inscrivevano i fatti e gli accidenti degli uomini e delle stelle, dove il tempo stesso, intriso nella sua misura di sacro, di liturgia, sprofondava nell’eternità.

E a proposito della percezione del tempo nel Medioevo, riferito alla capacità di individuare il momento dell'accadimento del fenomeno sismico e la sua durata, le cronache monastiche possiedono il valore di una diretta testimonianza delle pratiche orarie in uso, pur variabili da monastero a monastero, ma tutte riferite alle horae canonicae, non traducibili nei termini del computo orario attuale. Pertanto, le stesse informazioni tramandateci dalle fonti annalistiche e cronachistiche, presentano punti di riferimento fluttuanti nell'indicazione del momento in cui un fenomeno sismico o prodigioso è stato percepito. Così, ad esempio, leggiamo nelle fonti, come in mancanza di una suddivisione degli intervalli tra le horae canonicae, troviamo locuzioni temporali quali ante, post, circa horam tertiam o inter sextam et nonam, ante horam nonam, in aurora o, per citare la spaventosa esperienza vissuta da Petrarca a Verona, inclinata iam parumper ad occasum di'.

«Prope diem furono viste piovere dal cielo numerose stelle»; «la luna subì un'eclissi a prima hora noctis usque quartam»; «in quest'anno ci fu un'eclissi di sole hora diei inter tertiam et quartam»; «il giorno 13 del mese di giugno hora tertia si sentì nel cielo uno strepitoso rumore»; «ci fu un grande terremoto nel mese di gennaio, stelle furono viste cadere dal cielo hora matutinali; «numerose stelle furono viste rincorrersi a medie noctis temporis usque mane in ogni parte del cielo e cadere poi sulla terra»; «in aurora ci fu un grande terremoto». Sono solo alcuni esempi.

Se la percezione della durata del fenomeno sismico o prodigioso risulta pressocché assente in fonti altomedievali, e molto rare in quelle più tarde - come ad esempio quella relativa al terremoto del 10 febbraio 1376 che fa riferimento all'indicazione dell'ora e quindi alla esistenza di un orologio pubblico -, più frequenti sono, a partire dal XV secolo, le espressioni di durata temporale del fenomeno misurato sulla base del tempo impiegato a recitare le preghiere: 1'Ave Maria, il Pater Noster, il Gloria, il Miserere (Salmo 50). «Sabato passato de nocte, circa le due hore, venendo la domenica, fò quà il magiore terremoto che mai per­sona se recorda bavere udito né veduto: el quale durò per tanto spatio de hora quanto se dicesse una volta e meza lo in principio erat verbum». Ancora un esempio riferito al terremoto napoletano del 1456: «Perché la notte del 4 dicembre, un terremoto, per detto di valentuomini mai più udito dalla Passione di Gesù Cristo sino all'ora, e che durò lo spazio d'un miserere adagio, o piuttosto d'un miserere e mezzo», oppure il tempo necessario a pronunciare quattro volte il paternoster, o tre Ave Maria.

Come si vede, nel Quattrocento non era ancora avvenuta quella cesura tra il mondo del pressappoco e l'universo della precisione. Il tempo religioso non aveva ancora lasciato il passo a quello laico nonostante facesse bella mostra di sé nei quadranti degli orologi delle torri cittadine. E benché ci fossero state impennate del pensiero scientifico, scienza e credenza non si escludevano a vicenda, per cui i fenomeni venivano ancora vissuti, interpretati e misurati in chiave religiosa nonostante i ten­tativi di convivenza sulla interpretazione dell'origine dei terremoti: quella religiosa e quella naturalistica. Ancora sulla soglia dell'età moderna Giannozzo Manetti, nella sua opera De Terraemotu del 1457 tentò una conciliazione al conflitto tra verità di fede e filosofia naturalistica. Il Manetti, pur non negando l'esistenza di terremoti soprannaturali, avvenuti per volontà divina in circostanze eccezionali, come nel giorno della Passione di Cristo, concentra la sua attenzione sugli aspetti naturali del fenomeno, prendendo in esame autori classici, in particolare Seneca, Talete, Plinio e soprattutto Aristotele, e poi ancora Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. Ma ritorniamo al nostro discorso iniziale, ai prodigi e alle catastrofi.

Nessuna epoca della storia, come quella altomedievale, è stata così fortemente caratterizzata dai fantasmi dell'immaginazione. La razionalità, come noi moderni la intendiamo, non era di casa nell'Europa prima del Mille, per cui ogni fenomeno nel mondo sensibile passava attraverso una griglia ideologica di interpretazione simbolica. «Il mondo sensibile – scrive Guglielmo Cavallo - è una maschera, dietro la quale v'è l'essenza vera delle cose. Il colloquio tra eventi e segni è fittissimo. Di qui 1'am­pio spazio dato ai prodigi, visioni, sogni, miracula o maleficia: sono gesta Dei (anche se dovuti alle forze del male, perché permessi da Dio che vuol mettere a prova gli uomini), e quindi, rettamente interpretati, consentono di intendere i disegni della Provvidenza», anche quando il cielo atterriva le coscienze con i suoi inquietanti ed enigmatici segnali. I corpi celesti a cui l'immaginazione dava forma di spada o di drago, le eclissi di sole e di luna, presagi di gravi sciagure come terremoti, epi­demie e carestie, interpretate come il prodotto di quella alleanza malvagia fra fenomeni astrali e terrestri, erano visti e vissuti con terrore non solo dai rustici, ma anche dagli uomini di chiesa. In questi fenomeni celesti, che non dovevano essere più numerosi di qualunque altro periodo, e nelle conseguenti calamità che noi sappiamo essere stati naturali in una civiltà materiale di livello primitivo, gli uomini di chiesa vedevano il si­gnificato di pericolose interruzioni nell'andamento regolare del mondo, della natura e dell'universo. E il naturalismo fatalistico che caratterizzò la civiltà contadina, anche dopo l'alto medioevo, non risparmiò nemmeno le persone colte che riconducevano i fenomeni naturali alla volontà di­vina. «Popolo di credenti» è stato definito da Marc Bloch quello dell'Europa feudale. Nulla di più esatto, se con quclla espressione si intende dire che gli spiriti di quell'epoca si muovevano in un universo senza confini fra spirito e materia, dove trovava giustificazione religiosa ogni accidente naturale, terremoto incluso che, nella tradizione liturgica bizantina, assurgeva addirittura ad evento di salvezza in una dimensione epifanica e celebrativa, che trasformava il fenomeno devastante e luttuoso in contemplazione di Dio.

Ma in età medievale, il terremoto, fenomeno per eccellenza, non era l'unico segno a creare l'inesausto colloquio tra Dio e gli uomini; ba­stava qualsiasi fatto che si scostasse dalla pacifica norma di vita quotidiana, anche un accadimento che noi possiamo ritenere casuale ma che l'emotività fibrillante di quegli uomini trasformava in prodigio. Le cronache abbondano di esempi. All'anno 1024 - racconta Lupo Protospatario negli Annales Barenses - avvenne un gran prodigio nella diocesi di Acerenza, quando era vescovo Stefano da Matera, e nel giorno di Pasqua. Un grande crocifisso d'argento si scosse per tre volte col capo con le braccia e con i piedi, e ciò avvenne alla presenza di tutti. Gli Annales Palidenses riferiscono che nel giorno di Pentecoste, sulla chiesa di S. Nicola in Bari apparve in cielo una corona aurea sulla quale volava una colomba preceduta da due ceri accesi. Il prodigio avvenne alla presenza di papa Innocenzo II che celebrava la messa, del re Ruggero II, di principi e di vescovi. Gli Annales Roseneeldenses riferiscono di globi di fuoco divampare nel cielo. Nel loro vagare per il cielo ci si accorge non trattarsi di fuoco ma di potestà angeliche. Un tale di nome Pietro, spagnolo di origine, interpretò il prodigio come ordine divino alla cri­stianità di liberare Gerusalemme.

Il sabato di Pasqua - si legge negli Annali di S. Benigno di Digione - furono viste da tutto il popolo tre colombe sulla torre della beata Ma­ria, che scendevano dal cielo portando ceri accesi.

All'area del Mezzogiorno normanno si riferisce una testimonianza di eccezione, quella di Amando diacono che, nel redigere una biografia di san Nicola Pellegrino cinquant'anni dopo la sua morte, nel ricostruire la storia della traslazione del corpo del santo nella cattedrale di Trani, al momento dell'arrivo delle reliquie racchiuse in un'arca di cipresso portata a spalla dai vescovi, ad un tratto due nubi si levano nel ciel sereno dalla cuspide della cattedrale. Il fenomeno viene percepito come un miracolo dai Templari che si trovavano lontani dalla città, e che 1'agiografo interpreta come una partecipazione della Chiesa trionfante alla glorificazione del santo pellegrino: «Erant enim luce quadam perfusae, recto ducto aethera contingentes: per quas, ut opinor, caelestium civium, ad sui concivis honorem, erat descensus. Collocato igitur hominis Dei cor­pore, columnae visus aciem reliquerunt».

Queste fonti documentarie ci offrono con le loro testimonianze spiragli di luce per intendere i parametri mentali, il significato della storia, colto nei segni e negli eventi, e la loro interpretazione alla luce dell'azione continua della Provvidenza nella storia stessa.

    

  

Da leggere:

M. Bonito, Terra tremante, overo continuazione de’ terremoti. Dalla creazione del mondo fino al tempo presente, Napoli 1691 (rist.anast. ed. Forni, Sala Bolognese 1980).

G. Agnello, Terremoti ed eruzioni vulcaniche nella Sicilia medievale, in «Quaderni medievali», 34 (dicembre 1982).

E. Guidoboni (a cura di), I terremoti prima del Mille in Italia e nell’area mediterranea, Ist. Naz. di Geofisica, Bologna 1989.

E. Guidoboni – E. Boschi, I grandi terremoti medievali in Italia, in «Le Scienze», 249 (maggio 1989).

Felice Moretti, Catastrofi in Italia meridionale nell’alto medioevo, in «Studi Bitontini» 61 (1996).

   

    

©2005 Felice Moretti

     


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