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MARCO CARMINATI

 

Bertrando, dalle stelle allo sterco

  

«Giotto e le arti a Bologna al tempo di Bertrando del Poggetto», Bologna, Museo Civico Medievale

  

  

   

Volete cominciare col piede giusto? Andate a Bologna a visitare la mostra «Giotto e le arti al tempo di Bertrando del Poggetto», allestita nel Museo Civico Medievale a cura di Massimo Medica. Dovreste non perderla perché è una «grande mostra piena di capolavori di Giotto»? No, questa sarebbe la classica argomentazione per gli allocchi. Qui è vero esattamente il contrario: la mostra è piccola, a misura d'uomo, e di opere di Giotto ce ne sono solo due, un polittico e una tavoletta, incastonate come perline in un diadema di codici miniati, fondi oro, sculture, paramenti sacri, avori e spettacolari oreficerie. Ciò che rende straordinariamente interessante la rassegna è l'incredibile vicenda storica che fa da sfondo. Si tratta di un episodio quasi dimenticato della storia legato a un sogno mancato, a una grande occasione perduta: il progetto di fare di Bologna la capitale della Cristianità.

La trama degli avvenimenti sembra tratta da un romanzo d'avventura. Siamo al principio del Trecento. Da qualche anno i pontefici risiedono ad Avignone praticamente ostaggi della corona di Francia. Papa Giovanni XXII è preoccupato per il rinsaldarsi in Italia del potere imperiale. Decide così di spedire "in partibus Lombardiae" un suo nipote di sangue, il cardinale Bertrand du Pouget, affidandogli i poteri del Legato pontificio e due missioni precise: sconfiggere l'eresia e recuperare diritti e territori del patrimonio di San Pietro, minacciati dalle mire espansionistiche dei signori ghibellini (i Visconti a Milano, i Della Scala a Verona, i Bonaccolsi a Mantova) sostenuti sottobanco dall'Imperatore.

Colto, spregiudicato e prontamente italianizzato in Bertrando del Poggetto, il Legato partì per l'Italia avanzando come un panzer nella Pianura Padana. Da Asti, prima tappa, lanciò l'interdetto contro Milano. Da Piacenza tentò un'azione militare a danno dei Visconti fallendo l'intento. Allora puntò su Bologna. L'8 febbraio 1327 entrò trionfante nella città guelfa e papalina che lo accolse con moderata allegria come il "liberatore" dalle minacce  ghibelline. In realtà Bertrando, di concerto col pontefice, aveva in mente un altro disegno politico: preparare la città a diventare la Santa Sede del Papato. Il porporato butterà in questo ambizioso progetto un'energia indicibile, prima rafforzando militarmente la città e poi mettendo mano a faraonici piani edilizi, primo fra tutti l'erezione del castello di Porta Galliera. Il maniero, con otto altissime torri, un «palatium» e una «capella magna», doveva accogliere la corte del Pontefice. Sorse dalle fondamenta in meno di sette anni e per decorarlo non si badò a spese. Da Firenze vennero chiamati artisti famosi come il vecchio Giotto che affrescò la cappella di palazzo e dipinse - molto probabilmente per essa - un grande polittico su fondo oro, lo stesso che vediamo in mostra, firmato «Opus magistri Iocti de Florentia», proveniente dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna.

Un altro retablo, stavolta di marmo così lucido da apparire alabastro, venne fatto modellare a Giovanni di Balduccio, scultore pisano di gran grido: in mostra ammiriamo stupiti gli strepitosi frammenti superstiti di questa grande ancona. E poi si misero al lavoro schiere di miniatori e calligrafi per produrre libri liturgici e libri di legge, tutti decorati con lo stemma fiammante del cardinal Legato. Non va dimenticato che Bologna era allora la sede dello Studium universitario più quotato del Medioevo, popolato di maestri e allievi. Per il suo "progetto papale", Bertrando cercò astutamente l'appoggio degli intellettuali e lo trovò, in particolare, nella figura dell'insigne giurista Giovanni d'Andrea, del quale la rassegna espone le principali opere teoriche rallegrate da rutilanti miniature.

Al seguito del Legato, Bologna si riempì di francesi, che sotto le Torri venivano chiamati i «Linguadoca» in virtù della loro parlata. Erano nobili, prelati, dignitari di corte, stracarichi di beni materiali e di opere d'arte di produzione francese, dagli smalti policromi a finissimi intagli in avorio. Insomma, a Bologna si respirava un'aria internazionale che la mostra, con pochi, sceltissimi oggetti, riesce bene a rimettere in circolo.

Eppure, il tracollo era già in agguato. Che cosa lo provocò? Gli storici puntano in dito verso il Legato. Fu lui ad andare oltre ogni limite. Tasse su tasse per finanziare i sogni di gloria, i "raccomandati" francesi piazzati nei posti chiave del potere civico e la pretesa di riscrivere gli statuti cittadini fecero esplodere il detonatore. Nella primavera del 1334 i bolognesi inferociti assaltarono il castello di Porta Galliera come fosse la Bastiglia. Con le catapulte lanciarono quintali di sterco dentro le mura finché il Legato non fu costretto ad arrendersi. Lo lasciarono uscire incolume, insieme al suo seguito, tra due ali di folla che lo ricoprì di coloratissimi insulti. Le fonti narrano che perfino le prostitute si presero la rivincita sollevando le gonne e facendo vedere al Legato «i Decretali e le Clementine».

Bertrando si mise in salvo a Firenze, ma per i «Linguadoca» rimasti a Bologna furono giorni tremendi, un inferno di furti, violenze ed esecuzioni capitali. La rabbia dei bolognesi si diresse infine contro il castello papale che venne raso al suolo a eccezione della «capella» nella quale Giotto aveva appena finito di dipingere le sue storie (la chiesa scomparirà qualche secolo più tardi). Le opere d'arte ritrovate nel «palatium», in particolare quelle di arte sacra, vennero distribuite tra le varie chiese della città e grazie a questo sorteggio in parte si salvarono. Lo stemma del Legato venne sistematicamente raschiato via da tutti i codici miniati. Il resto svanì nel nulla.

Il 1334 fu un anno fatidico. Giotto e Giovanni di Balduccio lasciarono Bologna alla volta di Milano per lavorare al servizio dei Visconti. Bertrando tornò velocemente ad Avignone e giunse in tempo per assistere alla morte dello zio papa Giovanni XXII. Il successore, che si chiamava Benedetto XII, archiviò per sempre il progetto di «Bologna Capitale» e diede ordine di cominciare la costruzione del Palazzo Papale di Avignone. La vicenda ebbe un ultimo strascico di natura giuridica. Nel 1347 la Curia avignonese pretese da Bologna un risarcimento dei danni e compilò un'immane pergamena (presente in mostra) con l'elenco di tutte le opere d'arte, i libri, le oreficerie, i mobili, le suppellettili, i vestiti e i cavalli perduti dai francesi nel sacco di Porta Galliera e dintorni. Il tutto venne stimato in denaro: 20mila e 800 fiorini d'oro. I bolognesi decisero di saldare il conto ma lo fecero con un atto di spregio: mandarono ad Avignone solamente 180 fiorini centellinando i pagamenti in tre interminabili rate. Dopodiché nessuno parlò più di questa storia.

   

Marco Carminati

 

 
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dal "Sole 24 Ore", 8/1/2006; segnalato da Marco Brando

 

    

 

 

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