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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino


 


Il dramma dell’ultima razza cavallina italiana sopravvissuta ad un’autentica ecatombe.

Mauro Aurigi, senese, sessantacinquenne, ex responsabile del Credito Agrario del Monte dei Paschi di Siena, è un estimatore e conoscitore della razza cavallina della Murgia, della quale ha approfondito la ricerca storica ed alla quale ha dedicato una nutrita serie di articoli sulla stampa specializzata, nonché un robusto contributo alla sua diffusione.

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Murgese da falconeria (foto M. Aurigi).

Stallone dell'IRIIP di Foggia (foto T.M. Rauzino)  Stallone dell'IRIIP di Foggia (foto T.M. Rauzino)  Stallone dell'IRIIP di Foggia (foto T.M. Rauzino)  Stallone dell'IRIIP di Foggia (foto T.M. Rauzino)

Stallone Principe (foto M. Aurigi). Tutti gli stalloni delle foto successive, ridotte o intere sulle due pagine, tranne Ulisse, facevano parte del gruppo di 10 soggetti che sono stati esibiti nello spettacolo serale della Fiera Cavalli di Verona nel 1990  Stallone Ulisse (foto M. Aurigi)  Stallone Zolero (foto M. Aurigi)  Stallone Ussaro (foto M. Aurigi)  La Compagnia del cavallo Ghibellino, Verona 1990 (foto M. Aurigi).

          

Fu il provincialismo dei Savoia e il loro complesso di inferiorità verso le maggiori case regnanti d’Europa, come quella inglese, austriaca o prussiana, a determinare la scomparsa di tutte le razze cavalline italiane, fino ad allora le più pregiate e invidiate: in meno di un secolo le fecero tutte inghiottire dagli incroci con le razze inglesi o teutoniche. Che queste ultime, dal purosangue inglese (Enrico VIII d’Inghilterra nel primo Cinquecento) al celeberrimo lipizzano (Giuseppe II d’Asburgo alla fine del Settecento), fossero state tutte costituite con l’apporto determinante di sangue di cavalli italiani, soprattutto meridionali, la dice lunga sulla qualità delle nostre razze pre-unitarie e sul livello culturale di quella nostra casa regnante. Valga per tutte la dichiarazione di un testimone d’eccezione: Goethe, in tutto il suo Viaggio in Italia tra 1700 e 1800, ossia in un mondo ancora immerso nella cultura del cavallo quale unico mezzo di trasporto terrestre, non spende mai una sola parola per i cavalli in generale o per un cavallo in particolare, tranne una volta quando, giunto nel nostro Meridione, davanti allo splendore degli equipaggi e delle cavalcature della nobiltà partenopea scrive: «Mai mi ero commosso davanti a un cavallo … mai visti cavalli più belli».

Ma a partire dalla metà dell’800 e in meno di cento anni, lo Stato unitario, che per via dell’uso militare del cavallo era l’assoluto dominatore del mercato, ha provocato la scomparsa di quello straordinario patrimonio genetico, grazie alla sostituzione degli stalloni di razze italiane con quelli nord europei. è sintomatico che i residui stalloni italiani approvati, prima della loro definitiva scomparsa dagli elenchi, non venissero più indicati col nome della rispettiva razza, ma con quello più generico e – mi viene da pensare – sprezzante di “indigeni”. L’operazione fu chiamata, senza ombra di ironia, e si chiama, perché quella cultura imperversa ancora, miglioramento. Qualche resistenza ci deve però essere stata. Almeno un generale, il grossetano Tommaso Bruschini, nella seconda metà dell’800 criticò quell’operazione. Sosteneva infatti, ed a ragione, che gli esiti erano devastanti: gli incroci perdevano la nevrilità, l’intelligenza e la rusticità tipiche delle razze italiane. E a proposito della rusticità, ossia della frugalità e della resistenza a intemperie e malattie, ci ricorda che la mortalità per malattia dei cavalli europei nella guerra di Crimea nel 1855 (il Piemonte vi partecipò con 4500 cavalli) fu del 33% per gli inglesi, 27% i francesi e 11% gli italiani.

Tanto per capire cosa abbia significato quel “miglioramento” basti sapere che ogni razza italiana “migliorata” è oggi praticamente rifiutata dal mercato nazionale, quasi interamente dominato da cavalli stranieri, e assolutamente sconosciuta all’estero, dove si ritiene addirittura che l’Italia non abbia più cavalli autoctoni. La morale della favola è che insieme al patrimonio genetico equestre nazionale è risultata distrutta anche la cultura del cavallo che, com’è ovvio, era anche la più avanzata dell’Occidente. è così che il nostro Paese, maggior esportatore di cavalli di pregio del mondo fino all’inizio del 1800, ne è oggi diventato il più grande importatore: 150.000 capi annui per 120-130 miliardi di lire, contro meno di un migliaio di capi esportati per 3-4 miliardi (i dati sono di qualche anno fa). Insomma ogni anno versiamo nelle tasche degli allevatori dell’estero, e quindi li sottraiamo agli allevatori italiani, ben più di 100 miliardi. Che circa la metà dei cavalli importati figuri come “da carne”, è ininfluente: gran parte di essi in realtà viene dirottata al mercato dei cavalli da sella. E il fatto che i cavalli da carne degli altri paesi, ossia lo scarto della loro produzione, sia migliore dei nostri attuali cavalli da sella, è molto più eloquente di tante altre analisi e considerazioni sui danni inferti al nostro allevamento equino.

        

Puglia, per millenni massima produttrice di cavalli della Penisola

 

Ecco perché in questo devastato panorama il Cavallo della Murgia, ossia il cavallo interamente morello allevato nella dorsale pugliese, assume particolare rilievo: di tutte quelle straordinarie razze italiane, infatti, è l’unica giunta sino a noi in purezza ancorché numericamente assai vicina al punto critico per la sua sopravvivenza. Chiusa com’era in un ambiente fino a poche decine d’anni fa abbastanza emarginato e poco accessibile, se n’erano infatti dimenticati. Cavallo già nobile, in quanto in antico allevato esclusivamente dall’aristocrazia – sicuramente da grandi feudatari come gli Acquaviva conti di Conversano e i Caracciolo duchi di Martina Franca e prima ancora, come vedremo, probabilmente da Federico II di Svevia, forse iniziatore della razza – il murgese, grazie alla politica allevatoriale dei Savoia, venne declassato a cavallo da tiro e agricolo e poi, con l’avvento della meccanizzazione a metà ‘900, a cavallo da carne. E il fatto che i Pugliesi siano in Italia i massimi consumatori di carne equina è stata la fortunata coincidenza che ha consentito a quella razza di arrivare sino a noi. Cavallo da carne, dunque, cavallo senza valore, almeno per il mercato della sella, ma, come vedremo, si tratta invece di un cavallo di gran pregio, certamente tra i massimi mondiali almeno per quanto riguarda il diporto, ma non solo.

Il Cavallo della Murgia fa parte della più grande famiglia del Cavallo Napoletano, per secoli il cavallo più famoso d’Europa. Nel 1300 perfino il Boccaccio, che conosceva bene Napoli avendovi lavorato per 15 anni alle dipendenze del fiorentino Banco de’ Bardi, nel Decamerone cita quella città come sede di un importantissimo mercato internazionale di cavalli d’eccellenza. Bisogna dire che col nome di napoletani in realtà non si identificavano solo i cavalli allevati nell’agro di Napoli, ma più genericamente i celeberrimi cavalli del Regno, ossia anche i salernitani, i calabresi, i siciliani e soprattutto le quattro o cinque razze pugliesi.

La Puglia infatti è stata da sempre la più importante produttrice di cavalli di pregio della Penisola. Alessandro Magno teneva in gran conto la sua cavalleria tarantina (l’agro tarantino comprende anche un pezzo di Murgia), mentre le cronache ricordano che Annibale si rifornì di ben 4000 puledri in Puglia. I Pugliesi erano così riottosi alla dominazione romana e così forti a cavallo che l’imperatore Valentiniano ne proibì loro l’uso, pena la morte: i Romani, in una sola campagna di repressione ammazzarono 7000 rivoltosi o latrones, come sbrigativamente li chiamavano (è destino di tutti i resistenti, dagli Apache ai contadini meridionali che si ribellarono ai Piemontesi, dai partigiani italiani agli Iracheni di oggi, essere definiti briganti, banditi, terroristi, insomma latrones).

 

Stallone Violante (foto M. Aurigi).

         

      

Erano murgesi i cavalli di Federico II

 

Da tempo sapevamo che Federico II di Svevia fu un impareggiabile allevatore di cavalli: la sua cultura equestre dà ancora dei punti a quella italiana odierna e comunque per fama è solo paragonabile a quella del greco Senofonte. Ma oggi, da un saggio dello storico Franco Porsia dell’Università di Bari (I Cavalli del Re, Schena Editore, Fasano), apprendiamo non solo che i cavalli dell’imperatore erano i migliori dell’epoca, tanto che, considerati arma strategica, ne era assolutamente proibita l’esportazione dal Regno pena punizioni gravissime, ma anche che egli aveva proprio in Murgia ben tre allevamenti. E questo perché secondo lui, ed aveva ragione da vendere, i cavalli, per farsi zampe e zoccoli – la cui qualità, checché oggi ne pensino gli attuali “esperti” nazionali,  è prioritaria su ogni altra – non dovevano essere allevati nelle pianure verdi e umide, ma sulle colline aride e pietrose, come la Murgia, appunto, luogo arido e pietroso come nessun altro in Italia. Inutile dire che la durezza degli zoccoli dell’odierno murgese non ha rivali. Di più: nel suo celeberrimo trattato De Arte venandi cum Avibus, l’imperatore dà una descrizione dei requisiti del cavallo da falconeria che calzano come un guanto sul murgese, il quale infatti si adatta senza problemi a quella nobile caccia, come è stato scoperto recentemente (quasi tutti gli altri cavalli sono insofferenti alla presenza e al volo del falco o dell’aquila). Anche lo scudiero dell’imperatore, il nobile Giordano Ruffo, nel suo De Medicina Equorum verosimilmente scritto su istigazione di Federico, elenca le caratteristiche fisiche del cavallo ideale: esse, compreso il posteriore più alto del garrese, sono esattamente quelle del murgese odierno. Purtroppo né Federico né Giordano fanno alcun riferimento al colore del mantello probabilmente perché ai due, giustamente, interessava la funzione e non l’estetica del cavallo, per cui il colore non era un fatto degno di nota (ma si sa che la cavalcatura più amata dall’imperatore era Draco, uno stallone morello). A proposito del mantello esiste una testimonianza ufficiale trecentesca della presenza anche allora dominante di cavalli morelli nella Murgia. Si tratta del testamento della vedova di Sparano da Bari: due terzi dei suoi 30 cavalli a Altamura hanno pilum maurellum.

 

Tra 1400 e 1500 tocca alla repubblica di Venezia allevare, sempre nella Murgia, i suoi migliori cavalli (la masseria della Serenissima, in agro di Monopoli, si chiama ancora “la Cavallerizza”). Nel 1600 la corte di Madrid, la più importante d’Europa ma le cui razze erano in decadenza da oltre un secolo, fa acquisti di stalloni murgesi (con buona pace di chi vuole il murgese derivato da razze iberiche durante la dominazione spagnola). Nel 1700 la corte più importante è quella di Vienna, ed anch’essa, per la sua Scuola spagnola d’equitazione, si procura stalloni murgesi, da due dei quali, Napolitano e Conversano, discenderanno le due famiglie più importanti della razza di Lipizza, a sua volta la razza più famosa e celebrata.

 

 

La cavalleria savoiarda umiliata dai “briganti” pugliesi

 

Nel secolo successivo sono i Piemontesi che sperimentano, loro malgrado, la qualità dei cavalli della Murgia. Nel 1864 avevano istituito una commissione parlamentare d’inchiesta per indagare sui motivi per cui l’esercito piemontese, uno dei più efficienti d’Europa, si era dimostrato incapace di domare quello che un po’ ipocritamente era stato chiamato e ancora si chiama brigantaggio meridionale. In realtà si era trattato di una rivolta popolare esplosa nel 1860, che assunse subito l’aspetto di una guerra coloniale da parte dei Piemontesi e partigiana da parte dei Meridionali: in 5-6 anni, 5000 furono i briganti uccisi (i Savoia non si distinsero a questo proposito dagli imperatori romani), mentre le perdite dell’esercito piemontese, che raggiunse i 160.000 effettivi, non sono mai state rese note (si parla di un numero di morti superiore a quello delle tre guerre d’indipendenza messe insieme). Comunque fu davanti a quella commissione che il colonnello Chevilly dichiarò, immagino abbastanza imbarazzato, che «la cavalleria risultava inutilizzabile nei boschi, sui monti e in generale su tutti i terreni fortemente accidentati dove ugualmente i briganti avventuravano le loro cavalcature». Ed è chiaro che si riferisse soprattutto alla Puglia dove le bande, a differenza delle altre regioni erano tutte montate. Per la precisione il brigante più famoso e agguerrito, l’unico rimasto imbattuto, Carmine Donatelli detto Crocco, operò tra Matera e Andria, quindi in piena Murgia, dove razziava i cavalli per la sua banda (anche 3000 armati tutti montati). La qualità di quei cavalli è documentata da un testimone al disopra di ogni sospetto, Gaetano Negri, nobile milanese, ex garibaldino e ufficiale della cavalleria piemontese durante la repressione del brigantaggio, che assai di controvoglia dovette ammettere a proposito di Crocco e della sua banda: «Uomini discretamente coraggiosi, montati su eccellenti cavalli».

 

Come si sa il Savoia vinse quella guerra coloniale e da allora il murgese è caduto nell’oblio (una punizione da parte del vincitore?). A nulla serve che nel 1932 Pier Giovanni Bujatti, uno dei massimi studiosi italiani di zootecnia, riscopra in Murgia la razza, riconoscendone l’ancora forte somiglianza sia di modello che funzionale con le due celeberrime famiglie lipizzane Napolitano e Conversano, discendenti dai due stalloni murgesi sopra ricordati. Ed a nulla serve che una ventina d’anni dopo si costituisca in Murgia, a Martina Franca, anche l’associazione di razza e che l’Istituto di incremento ippico di Foggia e la neonata Regione Puglia varino programmi di sostegno alla razza (compiono non pochi pasticci perché puntano alla selezione di un cavallo da carne; ma quali alternative avevano se gli Italiani compravano e comprano i loro cavalli da sella all’estero?). Insomma il Cavallo della Murgia rimane sostanzialmente uno sconosciuto.

     

       

©2005 Mauro Aurigi. L’articolo e la scheda sono stati pubblicati sulla rivista mensile «Sudest», numero 9 del 2005, pp 37-51.

   


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