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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino



  

Dopo l’Unità d’Italia, proclamata con il plebiscito del 21 ottobre 1860 ma ufficializzata il 17 marzo 1861, una tragedia di grandi proporzioni si apprestava a sconvolgere il Mezzogiorno.

In breve tempo una vera e propria guerra civile causò danni, lutti e nefandezze. Tale esplosione di eventi andò sotto il nome di “brigantaggio”.

Molteplici furono le ragioni che causarono questo disagio sociale: mancanza di lavoro, arretratezza della società, vendette personali; tutto ciò fa riflettere su come il brigantaggio poté diffondersi repentinamente.

Nel Mezzogiorno il trionfo dell'impresa garibaldina causò una reazione borbonica che incentivò questo fenomeno.

In Sicilia fu l’impresa di Nino Bixio a soffocarlo, mentre Garibaldi, nei suoi scritti, rese omaggio al valore dei briganti napoletani.

Si andarono formando, un po’ dappertutto, frange armate attorno a fantomatici capi più o meno noti che, procedendo senza programma e senza ideali patriottici, resistettero per anni a tutti gli sforzi del governo nazionale tanto da costringerlo a subire l'umiliazione di dover, a causa loro, sospendere le guarentigie statutarie, sostituendole nelle ex province napoletane con le leggi marziali ed i militari che perlustravano boschi e campagne.

La guerra dell'Italia verso il papa si trasformava in superstizione popolare e in guerra di religione. L'unità italiana era minacciata dall’annullamento, poiché l’individualità del popolo napoletano si distingueva nella storia. La reazione scoppiò feroce, spontanea e simultanea.

I Vandeani, insorti contro la grande convenzione francese, avevano avuto una bandiera e un principio: i ribelli napoletani, senza l'uno e senza l'altra, non erano e non poterono essere che briganti.

La guerra durata più anni si smembrò quindi, in atroci fazioni e fu guerra della barbarie contro la civiltà.

Dalla Terra di Lavoro il brigantaggio si era già propagato in tutto il Mezzogiorno. A domarlo Cialdini costituì un corpo di guardie nazionali mobili in ogni distretto, con l'intento di opporre napoletani a napoletani e così interessarne almeno una parte in favore del governo; ma l'espediente non ebbe successo.

La prima mossa strategica di Cialdini fu di occupare il Principato Ultra e la Capitanata, per mantenere aperte le comunicazioni con la Puglia e l'Adriatico, tagliando in due la rete del brigantaggio e chiudendo alle bande del Mezzogiorno il rifugio dello Stato pontificio.

Soldati e briganti, invece di combattersi apertamente, si cacciavano come selvaggi: nessuna legge, nessun quartiere. Il generale Pinelli e il maggiore Fumel opposero terrore a terrore. I briganti, sorprendendo i soldati, li sottoponevano alle più crude sevizie.

Quindi Pinelli e Fumel, sferzando la giusta ira delle milizie, le spinsero a tutti gli eccessi. I paesi e le borgate furono messi a ferro e fuoco senza pietà.

I colpevoli venivano cacciati come assassini, ed erano privati dell’appoggio delle famiglie.

Le bande, abbandonate dal partito reazionario, si tramutarono in frange di comuni delinquenti [1].

Questo fenomeno, per quanto riguarda la Capitanata, da sempre è stato oggetto di attenzione e di studi.

Tra quelli recenti emerge il lavoro di Giuseppe Clemente, il quale si è occupato di questa tematica ricostruendo, attraverso l’analisi dei documenti d’archivio, la situazione nel periodo postunitario [2].

Un lavoro che ha richiesto anni di impegno paziente e costante che – come dice lo studioso nell’introduzione del suo volume – «[…]consente di confrontare il concetto ormai acquisito su fatti e persone con le loro testimonianze semplici, spicciole, dirette, ancora vive e palpitanti […]». Un volume che ha avuto il merito di sottoporre all’attenzione degli studiosi aspetti e vicende inedite della storia della Capitanata.

Riportando i fatti di cronaca l’Autore ha scritto una storia diversa sul brigantaggio locale, attraverso le quotidiane e particolari vicende di microstoria. Così sono stati illuminati dallo studio personaggi della vita pubblica e privata: militari, civili, possidenti, braccianti, pastori, artigiani e quanti negli anni compresi tra il primo Ottocento ed il periodo postunitario furono coinvolti nel fenomeno.

Certamente il brigantaggio che, come si è visto, non è stato un fenomeno di recente costituzione, si è manifestato dapprima in maniera sporadica con poche bande dedite alla delinquenza comune e poi si è allargato a macchia d’olio per dar luogo ad un fenomeno sociale.

In Capitanata, i briganti si riunivano in posti strategici per meglio commettere i loro crimini, che dalla semplice delinquenza comune – in genere si perpetravano furti presso le masserie di campo – giungevano a tal punto da causare i più intollerabili crimini.

Tra i documenti d’archivio che abbiamo potuto visionare direttamente nel fondo dell’Intendenza di Capitanata, nelle carte della Prefettura e negli atti di Polizia, sono presenti le denunce inviate ai vari organi istituzionali per arginare quel fenomeno che, nel tempo, diverrà sempre più dilagante.

I sindaci dei Comuni interessati si rivolgeranno alle forze dell’ordine per chiedere maggiori presenze di militari nella zona. Più volte gli Intendenti saranno chiamati in causa per intervenire.

Secondo lo studio di Giuseppe Clemente, le aree in cui era maggiore la concentrazione delle bande erano tre: la zona nord del Fortore, ai confini del Molise e della Campania. In particolare, negli anni compresi tra il 1861 ed il 1864, questa zona era territorio di Nicandro Barone, Michele Caruso, Giuseppe Pennacchia, Pasquale Recchia, Pasquale Rizzi e Giambattista Varanelli.

La zona del promontorio del Gargano era invece territorio di Michele Battista, Angelo Maria Del Sambro, Gabriele Galadi, Luigi Palumbo, Angelo Maria Villani.

La catena dei monti che da Bovino, Ascoli ed Anzano si congiunge all’avellinese e confina a sud con i boschi del Vulture era dominio di Tommaso Melcangi, Antonio Petrozzi, Giuseppe Schiavone, ai quali si univano altre bande provenienti dalla vicina Basilicata: in primis spiccano quelle di Gerardo Gammino, Carmine Donatello Crocco, Giovanni Fortunato, e dalla provincia di Avellino quelle di Marciano La Pia, Agostino Sacchitiello e Antonio Tasca [3].

Rilevanti furono i danni per l’economia a causa di continui furti, incendi, assassini, estorsioni e quanto altro. Danni che videro salire il Circondario di San Severo in testa alla graduatoria, per un ammontare complessivo di L. 181.126,10. Seguivano Bovino con L. 136.658,96 e Foggia con L. 94.368,58 [4].

Stranamente il Tavoliere rimaneva una zona asettica, nel senso che pochissimi furono i misfatti commessi: la tipologia geografica si presentava inidonea agli assalti, ma giocava a sfavore anche per la notevole quantità di truppe stanziate tra Foggia e San Severo.

Dalle carte d’archivio da noi visionate nel fondo dell’Intendenza di Capitanata [5], si evince che il fenomeno del brigantaggio è presente già dagli albori dell’Ottocento.

Spesso i briganti erano forestieri e dediti a furti presso le masserie di campo, così come si ricava, ad esempio, da alcuni documenti riguardanti il territorio dei Reali Siti: Agostino Santoro di Orta scrive all’Intendente di Capitanata per denunciare il brigante di Andria Riccardo Cristallino di 33 anni che, seguito da altri cinque compagni nei pressi di Torre Alemanna [6], viene catturato con la refurtiva consistente nella somma di 104 ducati e 40 grana, in un cavallo con sella e «capezzone e capezza di notte», un orologio, uno schioppo del calibro di ¾, una poltrona.

La banda dopo la cattura è scortata per essere poi imprigionata a Barletta.

Spesso erano coinvolti anche briganti del posto, come accade per un tale di nome Potito Giacomello di Orta che viene scoperto in flagranza di reato in una masseria nei pressi di San Severo. La masseria appartiene a don Ciccio Maddalena.

Il bandito viene perquisito e trovato in possesso di refurtiva; nel documento sono elencati: un cavezzone, alcune mutande, un paio di stivali di “Cordovana”. Nella denuncia, il funzionario incaricato non trascura di evidenziare tutti i reati commessi dal brigante ai danni di proprietari della zona di San Severo, Torremaggiore e Campobasso [7].

Nella zona di Montecorvo, nei pressi di Ascoli, è presente la banda di due tali di nome Ruocco e Felicetti, banda che arriva a raggiungere il numero di sessanta elementi. Questi vengono colti in flagranza di reato e inseguiti dai soldati francesi, catturati ed imprigionati [8].

Per i Reali Siti si mobilitano i vari sindaci succedutisi e, dalla documentazione d’archivio, si evince che nel 1809, poiché il fenomeno del brigantaggio diventa sempre più dilagante, il sindaco di Orta, Andrea Di Dedda, scrive all’Intendente di Capitanata, Augusto Turgis, affinché provveda a potenziare con maggiori presenze militari la zona, al fine di scongiurare il pericolo degli assalti che erano divenuti frequentissimi [9].

Senza alcun dubbio i briganti conoscevano bene i luoghi che frequentavano, a differenza dei militari che si muovevano con notevole difficoltà perché, non essendo del posto, si avvalevano di guide locali.

Ogni banda, quando non si univa alle altre per grosse operazioni contro l’esercito, agiva su un territorio ben circoscritto, che generalmente era quello in cui ogni brigante era nato o dove viveva.

Ovviamente anche la mancanza di carte topografiche adeguate non consentiva una facile esplorazione dei luoghi interessati. Il 10 agosto 1862, i comandi militari ottennero un Regio Decreto che autorizzava la spesa straordinaria di L. 2.000.000 per realizzare una carta topografica delle province napoletane e siciliane con scala 1/50.000.

L’età media dei briganti oscillava tra i 20 ed i 36 anni. Una volta catturati questi subivano la fucilazione.

Fu così che verso la fine dell’Ottocento le bande maggiori furono sterminate. A queste bande si aggiunsero frange di delinquenza comune, formate da gente appartenente a ceti medio-bassi, ed a questi spesso i proprietari, temendo rappresaglie, concedevano favori [10]. Un po’ come succede oggi con le varie organizzazioni mafiose che, certamente, dilagano ogni giorno di più.

Interessante è il grafico riassuntivo riportato da Clemente nel suo volume [11], dove evidenzia i Comuni della Capitanata per fasce di popolazione in rapporto al numero di briganti nati o residenti: dal grafico emerge che nei 14 Comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti esiste il 15,24% di briganti; nei 17 Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti il 22,79% di briganti; nei 17 Comuni con popolazione fino a 10.000 abitanti il 30,49% di briganti, e nei 6 Comuni con popolazione oltre i 10.000 abitanti è presente il 31,48% di briganti [12].

Oggi il fenomeno del brigantaggio rapportato a queste realtà, ai nostri occhi, appare molto lontano, poiché i briganti odierni non si accontentano più del cavallo o della poltrona o della capezza.

   

  


1 Cfr. www.collezioni-f.it/museo/brig.htlm e G. SAITTO, Poggio Imperiale, Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia 1997, pag. 93 e ss.

2 G. CLEMENTE (a cura di), Il Brigantaggio in Capitanata, Fonti documentarie e Anagrafe, (1801-1864), Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Archivio Guido Izzi s. r. l. Roma 1999.

3 Ivi, pp. 14 e 15.

4 Ibidem, pag. 14.

5 Archivio di Stato di Foggia, Intendenza e Governo di Capitanata, carte varie, corrispondenza amministrativa, b. 61, fasc. 5820, lettera del 23 febbraio 1807.

6 Torre le mani, è riportato nel documento.

7 Archivio di Stato di Foggia, ibidem, b. 61, fasc. 5822, lettera del 07 settembre 1807.

8 Ivi, b. 61, fasc. 5830, anno 1807, carte varie.

9 Ivi, b. 102, fasc. 11219.

10 CLEMENTE, Il brigantaggio cit., pp. 16 e 17.

11 Ivi, pag. 30.

12 Ibidem, sono esclusi dal calcolo i briganti nati o residenti nei Comuni di Carapelle, Mattinata, Rocchetta S. Antonio, Zapponeta.   

  

  

©2005 Lucia Lopriore; l'immagine è tratta dal sito Pontelandolfo.

      


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