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di Luisa Derosa


 Introduzione  -  Le aree culturali  -  Le schede: BitontoIsole TremitiBariTarantoOtrantoTraniBrindisiGiovinazzoBibliografia essenziale


  Taranto, Cattedrale: l’attuale facciata barocca

  

L’edificio

La cattedrale tarantina sorge sull’asse viario principale della città antica, che accoglieva un tempo l’acropoli di Taras, capitale della Magna Grecia. La città romana e poi cristiana si estendeva, invece, a quanto pare, nell’area oggi occupata dall’insediamento moderno, sulla riva opposta dello stretto che collegava il Mar Grande e il Mar Piccolo. Era in questa parte della città che sorse la prima cattedrale, con annesso episcopio. Il successivo trasferimento nell’attuale sito avvenne nella seconda metà dell’XI secolo.

Complesse e in parte oscure sono le vicende relative a questo edificio, dedicato a san Cataldo, un leggendario personaggio di origine irlandese. Le varie ipotesi avanzate circa l’aspetto originale della chiesa hanno trovato negli ultimi tempi una più organica e plausibile interpretazione, in parte grazie ai restauri che, nonostante i danni inferti alla fabbrica, hanno riportato alla luce le vestigia della chiesa medievale, in parte grazie ad un’attenta rilettura delle fonti. Il nucleo più antico dell’attuale duomo, corrispondente al capocroce, apparteneva ad un precedente edificio costruito per accogliere, tra X e XI secolo, le reliquie del santo titolare, rinvenute in un luogo fuori delle mura della città e trasferite all’interno propter timorem Normandorum. Questo primo santuario aveva l’aspetto di una chiesa a croce libera, con cupola all’incrocio, con una cripta seminterrata (ancora oggi perfettamente visibile) che riprendeva lo schema a tre bracci della chiesa superiore. Successivamente, quando la città era stata conquistata dalle armate normanne, questo santuario fu trasformato in cattedrale ed all’antica dedicazione si aggiunse l’intitolazione mariana. L’antica chiesa venne rammodernata innestando, al posto del braccio della croce, una navata longitudinale tripartita da colonnati, secondo lo schema delle antiche basiliche cristiane ripreso dalla Riforma gregoriana. La navata, più ampia di quella dell’impianto precedente, ne venne però condizionata nelle dimensioni e nell’orientamento, inverso a quello canonico. All’incrocio rimase la cupoletta emisferica, dissimulata all’esterno da un tamburo cilindrico decorato da archetti ciechi su colonnine, di gusto orientale.

I lavori di ampliamento dovettero essere eseguiti negli ultimi decenni dell’XI secolo, dal momento che nel 1094 un documento attesta che l’edificio veniva dotato di finestre di vetro. Probabilmente i lavori vennero eseguiti con una certa fretta, sotto il vescovo Drogone, presente nel 1071 alla consacrazione di Montecassino. Lo dimostrano le stesse colonne di divisione delle navate, ottenute quasi tutte sovrapponendo frammenti di varie dimensioni. Capitelli antichi, bizantini e medievali furono inseriti sul colonnato, sormontati da un grande abaco in stucco che compensava le diverse altezze dei pezzi di riporto. All’esterno archeggiature cieche che simulano finte gallerie sono caratterizzate da intarsi di pietre bicolore, secondo un gusto tipico dell’area ionica.

Nel 1160, sotto il vescovo Girardo, il pavimento della chiesa venne interamente ricoperto da un tappeto musivo, restituitoci in forma assai frammentaria. Allo stesso vescovo si deve, probabilmente, la costruzione di una cappella, sul braccio destro del transetto, destinata ad accogliere le reliquie del santo titolare, custodite in un primo tempo nella cripta.

Sotto il capocroce si conservò l’antica cripta, che riprendeva lo schema a tre bracci, suddivisi ciascuno in due navate da poderosi frammenti di colonne antiche, sormontate da semplici blocchi d’imposta su cui ricadono archi e crociere di profilo leggermente acuto. Una struttura anomala nel panorama della regione che trova invece sorprendenti rispondenze con la cripta altomedievale di un noto edificio monastico abruzzese, la chiesa di San Clemente a Casauria.

Il rinvenimento delle reliquie di san Cataldo ad opera di un monaco di nome Atenulfo potrebbero fare ipotizzare che il primitivo santuario tarantino fosse affidato a monaci, come nel caso della chiesa abruzzese. Si spiegherebbe meglio, in tal modo, la singolare profondità del braccio occidentale, destinato ad accogliere il coro dei monaci e i due bracci del transetto, privi di comunicazione con la navata perché destinati ad esclusivo uso della comunità. A tali osservazioni si aggiunge anche il dato relativo alle due porte originali di accesso alla cripta. Rinvenute nel corso dei restauri sotto le scale di comunicazione tra il transetto e le navate laterali aggiunte, rivelano che la cripta doveva essere in antico accessibile solo dall’esterno, consentendo in tal modo la circolazione dei pellegrini indipendentemente dagli spazi liturgici dell’edificio superiore, proprio come nel caso di Casauria.

Le ridotte dimensioni delle navate portarono, ben presto, ad ampliare lo spazio sacro con l’aggiunta di cappelle gentilizie che finirono per fungere da vere e proprie navate. Ma i più importanti lavori di trasformazione avvennero tra il XVII e XVIII secolo, quando l’edificio venne completamente trasformato secondo il gusto barocco. Di queste opere rimane oggi il fastoso cappellone di San Cataldo, costruito sul lato destro dell’abside al posto della cappella medievale del santo. Nel 1713 venne anche completata la ricostruzione della facciata dell’edificio, danneggiata da un tremendo incendio divampato nel 1657, anteposta ad un monumentale avancorpo medievale già trasformato in epoca gotica.

Nel 1844 una serie di lavori di manutenzione e rinnovamento dell’edificio portarono alla scoperta, sotto un pavimento di mattoni, dell’antico mosaico, all’epoca già danneggiato in molte parti. In questa occasione venne però rilevato un disegno delle aree musive, fortunosamente ritrovato da Nicola Vacca e reso noto da Giuseppe Antonucci nel 1942. Si tratta di un prezioso documento che consente non solo di poter interpretare i pochi resti superstiti, ma anche di fare luce sul programma dell’intera figurazione. Per tale motivo si terrà conto, nella presente scheda, di questa testimonianza, distinguendo le parti superstiti da quelle ricostruibili nel disegno.

 

IL MOSAICO (Tav. IV)

Ubicazione: I frammenti oggi rimasti si trovano tanto nella navata centrale dell’edificio, quanto in quelle laterali.

Datazione: 1160. Tale data si ricava dal manoscritto di una Santa Visita del 1577 (cfr. Osservazioni).

Committenza: Dallo stesso manoscritto si apprende il nome del committente, l’arcivescovo Girardo.

Autore: PETROIUS. Il nome del maestro ci è stato tramandato da alcuni studiosi ottocenteschi.

Materia e tecnica: Tessere in pietre calcaree di dimensioni variabili tra i 2,5 ed i 5 cm di colore rosso, verde, giallo, grigio, bianco, nero, beige nelle varie tonalità, disposte ad opus tessellatum.

Descrizione:

Tutti i frammenti di immagini rimasti sono inseriti entro tondi.

Il disegno ritrovato dall'Antonucci  Particolare del disegno  Particolare del disegno

Quadrupede bardato  Toro dalla doppia coda  Quadrupede con la rosetta  Il centauro

Nella navata centrale, procedendo dall’ingresso dell’edificio verso il presbiterio, all’altezza della quarta colonna, sul lato destro, entro una cornice con un motivo a treccia si legge un’iscrizione musiva frammentaria di quattro lettere, EDNI, con un segno di abbreviazione sulla lettera N, lunga circa un metro. Nello spazio superiore sono visibili i resti di tre file di rotae disposte a coppie con raffigurazioni di animali rivolte verso il centro della navata. Immediatamente sopra, entro un tondo con una sottile cornice a losanghe, si riconosce un centauro retrospiciente, nell’atto di suonare un lungo corno sorretto da entrambe le mani. Un altro tondo, tra la quinta e la sesta colonna, lascia intravedere un quadrupede bardato con le redini, la testa simile a quella di un grifo, cavalcato da una figura nuda che afferra le redini dell’animale con un braccio e solleva con l’altro un’asta ricurva. Accanto a questa rota se ne intravede un’altra con la cornice occupata da un’iscrizione di cui restano sole le lettere VIP…PSOHIS DIPS. Superiormente si osserva, entro una cornice con il bordo a treccia, la parte inferiore di un grifo (diamentro m 3,29). Gli si contrappone una rota entro la quale si intuisce la presenza di un animale con grosse zampe munite di artigli. All’altezza della settima colonna un’altra iscrizione, lunga 87 cm, di cui sono visibili solo le lettere ACTA. Nella navata laterale destra le figure sono orientate in senso inverso rispetto a quelle della navata centrale, ad eccezione della prima. All’altezza della settima colonna entro il consueto tondo è riconoscibile una figura femminile con abito scuro, seduta su due quadrupedi che guardano in opposte direzioni. Dopo un’ampia zona lacunosa, un tondo di m 3,44 di diametro include un toro dalla doppia coda.

Nell’altra navata, procedendo sempre dal presbiterio verso l’uscita, tracce ormai non più leggibili dell’antica decorazione musiva si conservano tra la quinta e la quarta colonna. Tra le colonne, frammenti di una cornice che in origine doveva dividere gli spazi tra le navate, realizzata con palmette entro lobi cuoriformi. Tra la seconda e la terza colonna, infine, tracce di un animale non più identificabile, con il corpo di quadrupede caratterizzato, come in altri animali, da una rosetta sulla coscia.

Questo è quanto rimane. Il disegno dell’Antonucci, pur mostrando molti frammenti nello stesso stato, perché irrimediabilmente distrutti dallo scavo di sepolture, ci consente di risalire al programma compositivo generale. Il mosaico doveva estendersi all’intera superficie, come dimostra il frammento di decorazione visibile nella navata destra, all’altezza del presbiterio.

La decorazione si apriva con la raffigurazione di Re Alessandro, assiso su un carro sostenuto da grifoni. Il sovrano era ritratto in abiti imperiali, emergente a mezzo busto da una sorta di cassa retta da un’asta. In alto due stelle sottolineavano che la scena era ambientata nel cielo. Questa raffigurazione era inserita in un riquadro rettangolare con cornici variamente decorate. Nella navata centrale i frammenti pervenutici sono all’incirca gli stessi documentati nel disegno. Diverso il caso della navata laterale destra. Subito sopra il tondo con la figura femminile seduta su due quadrupedi, si osservano un centauro che suona un corno, con il bordo segnato dall’iscrizione di Petroius (si legge: HOC DI …XIT OP….DIVERSO FLORE PETROIUS). Di seguito si riconoscono un grifo, un cavallo alato, un toro tutti girati verso sinistra, ed infine un’arpia con una testa femminile nel becco. Gli spazi tra i tondi sono occupati da una fitta trama a motivi vegetali, che ricompare identica sull’altra navata laterale, di cui restano visibili, oltre al quadrupede ancora oggi conservato (forse un grifo) solo i bordi decorati di altre rotae.

Iconografia: Dal disegno ottocentesco emerge in maniera chiara il ruolo centrale, nella rappresentazione tarantina, del volo di Alessandro. La vicenda del re Macedone si ispira al Romanzo greco d’Alessandro, un testo composto intorno al III secolo d. C. da un autore originario di Alessandria d’Egitto chiamato Pseudo-Callistene. Si tratta di un testo pervenutoci in varie redazioni, che ebbe un grande diffusione nel Medioevo. Una delle prime versioni latine fu redatta nel X secolo dall’arcivescovo Leone di Napoli. Costui, di ritorno da una missione diplomatica a Bisanzio, portò una copia del manoscritto dello Pseudo-Callistene che tradusse in latino per farne dono al duca Giovanni III di Napoli. Tale versione è nota col titolo di Historia de preliis. Numerose copie di questo testo vennero realizzate nel corso dell’XI secolo. Fu soprattutto in Italia meridionale che il romanzo ebbe una vasta eco (ricordiamo che ancora nel 1469 l’igumeno Nettario, del monastero di San Nicola di Casole nel Salento, ne redasse un’edizione conservata oggi alla Biblioteca Nazionale di Parigi).

Nell’Occidente cristiano le uniche rappresentazioni su mosaici pavimentali, aventi come soggetto l’ascesa al cielo del re macedone, si trovano in Puglia. Oltre all’esempio che stiamo analizzando ricordiamo le analoghe raffigurazioni sui pavimenti delle cattedrali di Otranto e Trani. Altre rappresentazioni si ritrovano su un capitello nella cattedrale di Bitonto, su un capitello nella chiesa di S. Maria Maggiore a Monte Sant’Angelo e sul timpano del portale sud della chiesa di Santa Maria della Strada a Matrice, in Molise.

Nell’Historia de preliis (e, naturalmente, in tutte le opere che ne dipendono) si legge che Alessandro giunto con il proprio esercito sul Mar Rosso e salita una montagna così alta da sentirsi «quasi in cielo», pensò al modo di sostituire la realtà all’impressione. Consigliato da alcuni amici sul modo di costruire un ingenium (apparecchio) con cui verificare si est hoc caelum quod videmus (se è proprio il cielo quello che vediamo) preparò l’ingenium in modo da potersi sedere. Vi fece legare due grifoni con catene e poste davanti a loro delle aste con cibarie infilzate alla sommità, prese a salire al cielo. Ma una «divina quidem virtus obumbras eos» (divinità avvolgendoli con la sua ombra) li fece ricadere a terra senza che il re riportasse alcuna ferita. Dall’alto, la terra gli era sembrata un’area (aia) circondata dal mare «sicut draco» (come un serpente). Il racconto si conclude con l’acclamazione dell’esercito raggiunto «cum forti angustia» (con grandi difficoltà).

Trattandosi dell’unica avventura che ebbe una versione monumentale, è lecito pensare che fosse anche l’unica scena pregna di significati anche per coloro che non erano in grado di leggere la parola scritta. Nell’iconografia più diffusa, ovvero l’immagine di Alessandro con le braccia simmetricamente alzate tra i due grifoni affrontati, che nelle raffigurazioni di ambito bizantino compare assiso su una biga, ed in quelle occidentali su un carro o paniere, confluiscono vari temi di significato trionfale. Basti pensare alla quadriga del sole o a quella dell’imperatore trionfante sui nemici. L’ascensione, proprio per il suo esplicito valore trionfale, assunse nel mondo bizantino un significato positivo. Alessandro, dominatore del mondo intero in virtù del proprio coraggio e del proprio ardimento, nonché per le grandi doti di saggezza e magnanimità, venne costantemente accostato, fino al tardo medioevo, agli imperatori bizantini. Ben presto il re macedone divenne egli stesso un imperatore bizantino, rappresentato con le vesti del basileus.

A sottolineare il valore positivo della scena in alcuni testi viene introdotto l’episodio della santa visita a Gerusalemme, dove l’imperatore rende omaggio agli Ebrei. Alessandro diventa il cosmocràtor mandato da Dio che sempre lo protegge nelle sue conquiste. In altre versioni l’episodio dell’ascensione è paragonato alla profezia di Daniele, ed il Macedone viene trasformato in un eroe cristiano ante litteram. In realtà questo recupero del pagano Alessandro altro non è che la trasposizione dell’ideologia imperiale bizantina, che voleva il sovrano protetto da Dio e da lui guidato nelle sue vittorie. Una concezione ampiamente positiva che venne assunta come tale anche nell’ambito dei poemi cavallereschi redatti in Francia (che costituì, oltre all’Italia meridionale, un altro polo di grande diffusione della leggenda), con l’accentuazione di quei caratteri di magnanimità, giustizia e cortesia tipici di un eroe della chanson de geste o di un romanzo cortese. Diverso significato assunse invece la figura del Macedone nella cultura ecclesiastica occidentale. L’episodio dell’ascensione assume un preciso valore didascalico negativo, come allegoria dello smisurato orgoglio e della incontrollata bramosia di conoscenza che lo conducono ad osare, con l’inganno, di elevarsi fino al Regno dei cieli senza l’assenso divino. Con tale accezione possono leggersi le diverse raffigurazioni sui mosaici pavimentali pugliesi, ad eccezione proprio di questo esempio tarantino. Nel caso in esame, ad un’interpretazione positiva della figura dell’eroe induce la stessa iconografia. Alessandro, infatti, non è seduto su un trono, come nel caso, ad esempio, di Otranto, ma raffigurato entro un carro o una cesta, secondo le versioni bizantine della leggenda stessa. Un’ipotesi valida in confronto anche ad altre raffigurazioni presenti nel mosaico, di origine classica ed orientale, anche se la frammentarietà delle testimonianze rimasteci consente di rimanere nel campo delle ipotesi. Non abbiamo, infatti, alcuna indicazione di cosa potesse essere raffigurato nel presbiterio, né alcuna idea dei testi delle iscrizioni, che interrompevano le decorazioni musive della navata.

Osservazioni: La principale e più antica fonte relativa al mosaico è una Visita Pastorale compiuta dall’arcivescovo Lelio Brancaccio nel 1577. Questo manoscritto ci ha tramandato l’iscrizione con il nome del committente e la data di esecuzione 1160. A questa data il pavimento risultava già in parte danneggiato, ma ancora decorato da molte figure, alcune delle quali identificabili da epigrafi musive. Tra queste compariva l’iscrizione GIRARDUS ARCHIEP(iscop)US TAREN(tinus) ANNO 1160. Non sappiamo, però, dove fosse collocata tale scritta. Per l’Antonucci essa sarebbe da identificare con i pochi resti visibili ancora oggi sul lato sinistro della navata centrale, tra la quinta e la sesta colonna; ma questa iscrizione, già frammentaria all’epoca del disegno, non sembra coincidere con il testo riportato dal Brancaccio.

Sappiamo che ad una data imprecisata, tra il XVIII ed il XIX secolo, il mosaico venne ricoperto da un pavimento a mattoni, rimosso nel 1844, quando, come ricordato in precedenza, se ne fece un disegno. Due studiosi locali, il De Vincentiis ed il De Simone, riferiscono che il canonico Giuseppe Ceci, sempre nello stesso anno, riutilizzò i frammenti musivi emersi come pavimento del suo museo privato, rimuovendo anche il frammento con il nome dell’artista, Petroius. Tale museo, descritto dal De Simone, andò in seguito disperso. I lacerti musivi rimasti in loco vennero nuovamente ricoperti da lastre marmoree nel 1873. Una nuova campagna di scavi compiuta negli anni ’50 del secolo scorso li ha poi riportati alla luce.

Lo schema generale del mosaico di Taranto trova precise corrispondenze con il mosaico della chiesa calabrese di Santa Maria del Patir, commissionata dall’abate Blasius, così come documenta un’iscrizione nella navata centrale. Di questo personaggio si trova menzione solo nel Typicon patiriense, ovvero nella costituzione data al monastero dal suo fondatore, Bartolomeo da Simeri, da cui risulta che egli governò le sorti della fiorente abbazia bizantina negli anni intorno alla metà del XII secolo.

In ambedue i casi il pavimento della chiesa è coperto da medaglioni di dimensioni pressoché identiche, popolati da animali ed esseri fiabeschi in posizione araldica, su un fondo di ricche decorazioni fogliate, interrotte da iscrizioni trasversali. Si ritrovano, inoltre, le stesse decorazioni a treccia o a palmette per delimitare le cornici dei tondi, gli stessi soggetti. Assai simili sono anche i volti di un leone raffigurato sul mosaico calabrese e del toro nella chiesa tarantina. In entrambi i casi i mosaici paiono essere la trasposizione su pietra di un prezioso tessuto bizantino. L’unica scena mancante nel Patirion è l'Elevatio Alexandri.

Questi confronti inseriscono l’opera tarantina all’interno di una circolazione culturale caratteristica dell’area ionica.

Nel complesso, però, la tecnica con cui sono eseguite le figure a Taranto è più raffinata, con una maggiore varietà di elementi decorativi, di tonalità di colore, di composte orditure geometriche nella stesura delle tessere. Nel complesso emerge, nell’esemplare pugliese, la ricerca di un maggiore equilibrio formale. Un’altra notevole differenza riguarda anche il fatto che le tessere del pavimento tarantino sono di dimensioni notevolmente maggiori rispetto a quelle calabresi. Tale differenza esclude l’attribuzione dei mosaici ad un’unica bottega. Si trattò di maestranze diverse, che tuttavia utilizzarono un repertorio decorativo comune. La critica (Rash-Fabbri) tende a considerare il pavimento di Taranto immediato antecedente di quello calabrese, non solo in virtù della indiscussa qualità del mosaico pugliese rispetto a quello patiriense ma anche per il lungo dominio cui era stata soggetta la città ionica. Al contrario secondo altri il ruolo di intermediazione che i monaci italo-greci svolsero nella diffusione di motivi iconografici di ambito bizantino porterebbe a considerare il mosaico del Patirion quale prototipo a cui si ispireranno i pavimenti pugliesi, in particolare rispetto alla decorazione entro clipei.

Un dato significativo ed originalissimo nella cattedrale di Taranto è relativo al percorso da seguire per osservare il mosaico, suggerito dalla disposizione delle figure entro le rotae. La lettura procede infatti dall’ingresso dell’edificio fino al presbiterio per poi cambiare direzione, percorrendo in senso inverso la navata, dal presbiterio fino alla controfacciata. Tale disposizione pare seguire un andamento di tipo processionale, non sappiamo quanto funzionale ad un preciso orientamento liturgico da parte della chiesa tarantina. Tale motivo, assente negli altri pavimenti pugliesi, potrebbe comunque avere influenzato la scelta nella disposizione di Otranto e Brindisi, di un grande albero che suggerisce al lettore lo schema di lettura.

 


BIBLIOGRAFIA SPECIFICA

P. BELLI D’ELIA, La cattedrale di Taranto: aggiunte e precisazioni, in La chiesa di Taranto, I, Dalle origini all’avvento dei Normanni, Galatina 1977.

C. D’ANGELA (a cura di), La cripta della cattedrale di Taranto, Taranto 1986.

P. BELLI D’ELIA, Ripensando alla cattedrale di Taranto in una sera d’estate, in Bisanzio e l’Occidente: arte, archeologia e storia. Studi in onore di Fernanda de’ Maffei, Roma 1996, pp. 455-478.

R. CARRINO, Il mosaico pavimentale della cattedrale di Taranto, in Atti del iv Colloquio aiscom (Palermo 1996), a cura di R.M. Carra Bonacasa e F. Guidobaldi, Ravenna 1997, pp. 491-512.

REFERENZE FOTOGRAFICHE: Foto 2-8 da: C.A. WILLEMSEN, L’enigma di Otranto, Galatina 1980.


Alcune parti di questa scheda sono tratte da: C. FRUGONI, La fortuna di Alessandro Magno dall’Antichità al Medioevo, Firenze 1978.

  

  

©2004 Luisa Derosa

   


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