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FRANCO CARDINI

 

La guerra della storia

  

Se la verità cambia insieme a noi

 

  

  

   

I fatti sono ormai noti. In Giappone circolano libri di scuola che tendono in qualche modo a minimizzare o a giustificare le atrocità commesse dai militari nipponici in Cina a partire dal 1937 e durante la seconda guerra mondiale: o, comunque, l'opinione pubblica cinese ha mostrato di ritenere che i nuovi manuali scolastici del paese vicino e «da sempre» rivale abbiano questo atteggiamento. In alcune città cinesi si sono verificate durissime manifestazioni di protesta; il ministro degli Esteri di Tokyo, in visita ufficiale a Pechino, ha chiesto la condanna dei cortei antinipponici e preteso delle scuse ufficiali; il governo cinese ha risposto picche, facendo sapere di non poter né voler far nulla che paia repressione di una legittima espressione di sdegno popolare. Ma i fatti non sono la storia: ne sono al massimo i sintomi esterni, le lettere delle quali è composto il complesso discorso storico.

Che cosa c'è sotto questa faccenda di manuali giapponesi «revisionisti» e di proteste cinesi? La «guerra della storia», com'è stata subito battezzata, difficilmente è nata a causa di uno «spontaneo moto di popolo»: essa nasconde evidentemente un'altra guerra, molto più seria e concreta. I rapporti tra i due paesi non sono mai stati granché buoni, la concorrenza economica e commerciale è forte, i giapponesi stanno trivellando il suolo sottomarino alla ricerca di petrolio in un tratto di mare conteso, i cinesi si sentono stretti dalla sempre più forte e decisa alleanza tra Stati Uniti, Giappone e Taiwan: e non a caso le rivendicazioni «irredentiste» nei confronti dell'isola ultima roccaforte nazionalista si sono fatte negli ultimi mesi più forti. è d'altro canto vero che in Giappone, in tempi recenti, l'insofferenza nei confronti della sistematica criminalizzazione delle azioni nipponiche prebelliche e belliche si è fatta più aperta e le correnti «revisioniste-negazioniste» d'estrema destra più aggressive.

Tutto ciò va sottolineato, per ribadire che certi «incidenti» sono in realtà sempre funzionali alla realtà politica del momento. Lo sappiamo bene anche noi: la richiesta di manuali di scuola più «equi» rispetto a una certa vulgata per esempio a proposito della Resistenza italiana ed europea, l'accusa a certi manuali scolastici del nostro Paese di aver occultato o minimizzato fatti come i gulag e le «foibe», la pretesa qua e là affiorata in ambienti politici di organizzare delle commissioni «di verifica» dei testi circolanti nelle nostre scuole al fine di ristabilire «la verità» a proposito del racconto di certi momenti della nostra storia contemporanea, sono aspetti non già di una nuova preoccupazione per come s'insegna e per come s'impara la storia, bensì di una lotta politica che usa la storia stessa come alibi.

Ma ciò non basta ancora. Che dietro certe richieste e certe pretese possano muoversi appunto istanze, come oggi si usa dire, «revisioniste» o addirittura «negazioniste», è possibile: il fatto è tuttavia ch'è vana, inutile, al limite gravemente pretestuosa, la corsa alla «verità obiettiva», sia nella storia in genere sia in quella che s'insegna a scuola in particolare. Anzi, il pretenderla è un'assoluta contraddizione in termini.

Dev'esser prima di tutto chiaro che la storia, come disciplina «scientifica», è prima di tutto e soprattutto revisione continua di se stessa. Si è detto che il passato non muta: può essere anche vero, ma è irrilevante. Il passato non esiste di per sé: è affidato alla memoria e alle fonti - monumenti, documenti, testimonianze, residui - che lo attestano, e che per loro natura da una parte sono di per se stesse manipolabili, occultabili, distruttibili, falsificabili eccetera (e sono state più volta manipolate, occultate, distrutte, falsificate), da un'altra sono oggetto di una lettura tecnico-filologica che si modifica di continuo col cambiare sia delle nostre prospettive, sia dei nostri mezzi tecnologici d'indagine.

Che il passato «non possa cambiare» è una massima puramente teorica, dal momento che in realtà cambiamo noi. La «verità storica» non è di per sé né obiettiva, né immutabile: il «tribunale della storia» non esiste, la «certezza storica» nemmeno. Tanto meno reggono le assoluzioni o le condanne morali di personaggi e di eventi storici. Per due ragioni: primo, com'è stato spesso detto ma come troppi trovano più conveniente ignorare, la storia serve a comprendere, non a giudicare, e qualunque moralismo ad essa intrinseco è improprio; secondo, cambiano insieme con le nuove acquisizioni di dati relativi al passato anche i nostri parametri etici, che peraltro sono collegati in notevole e stretta misura anche a quelli politici. Perché ciò va, in ultima analisi, fatto notare.

Gli antichi dicevano che la storia è opus maxime oratorum: fatto sostanzialmente retorico. Noi crediamo che di storia non si possa scrivere se non si possiede un metodo, che non è qualcosa di puramente tecnico ma che presuppone sempre una visione del mondo. Da quando s'insegna e s'impara la storia nelle scuole pubbliche, vale a dire più o meno da un paio di secoli, la storia non è mai stata concepita come una scienza esatta, ammesso che tale tipo di scienza esista. Essa non è una «disciplina» come la matematica o la fisica, che sono pur esse stesse molto meno obiettive di quanto si creda. La storia è una disciplina pratica, che nelle prospettive dei governi e dei ceti dirigenti di un paese, interessati a forgiare le giovani generazioni e a garantire un ricambio nei ceti dirigenti stessi, serve a formare dei cittadini. Ecco perché abbiamo avuto, nel nostro paese, la Maestrina dalla Penna Rossa di deamicisiana memoria, quindi il Balilla Vittorio, poi la storia dominata dalla misura vittoriniana di Uomini e non; e adesso riaffiorano le foibe, i «fascisti-buoni» che salvano gli ebrei, e i militari di Cefalonia.

La politica si muove, i parametri storici e storico-scolastici si evolvono con lei. Siamo in presenza, con ogni evidenza, di una lotta politica. Trattiamola come tale: anche con correttezza, con sensibilità, con rispetto per tutte le possibilità di esegesi e con l'uso coraggioso dell'esegesi stessa (perché la storia è prima di tutto esegesi), ma senza pretendere il rispetto d'una Verità che in sé e per sé non esiste. La storia, nel suo autentico processo interno, è anzitutto complessità: è arduo tradurre tale complessità nelle linee disseccate d'un manuale scolastico, è ingenuo o strumentale chiedere proprio ad esso ciò che esso non può dare. Il manuale scolastico restituisce l'immagine che una società civile si fa di se stessa: e tale immagine è dinamica e non necessariamente sempre e del tutto condivisa né condivisibile. Se andiamo a caccia di Verità con la Maiuscola e pretendiamo di inchiodarle per sempre a se stesse, i casi sono due: o siamo dei patetici ingenui, o dei disonesti politicanti.

 

 

Franco Cardini

  

 
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da "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 21/4/2005

 

  

 

 

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