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di Franco Cardini

     

    

Negli ultimi decenni, antropologia culturale, psicanalisi, etologia, ci hanno obbligato a riflettere a lungo sul mondo animale e sui suoi rapporti con l’uomo: totem, spirito-guida, simbolo etico-teologico, presenza onirica o più semplicemente compagno di vita o fonte di energia, di materia prima, di sostanze alimentari, l’animale intrattiene con l'uomo rapporti complessi che possono giungere all'apprezzamento di una connaturalità oppure alla scelta interpretativa, da parte dell'uomo, di un'eteronaturalità che però può risolversi in senso superiore (gli dei dall'aspetto ferino) o inferiore (le "bestie", i "bruti").

Fratellanza, affetto, estraneità, paura, inimicizia sono atteggiamenti che scandiscono il rapporto dell'uomo con l'animale - o con i vari animali, secondo gerarchie di valori che hanno rapporto con le visioni mitiche o scientifiche delle varie culture - e che, sovente, rappresentano anche altrettanti alibi per la crudeltà o l'avidità umane. 

D'altronde, lo stretto rapporto fra uomini e animali torna nel processo linguistico di transfert e di estraniamento in forza del quale noi usiamo attribuire ad animali certi vizi umani ("rabbia canina", "slealtà serpentina" eccetera); e, al contrario, nella nostra tendenza antropocentrica a spiegare mediante pulsioni e sentimenti prossimi ai nostri i gesti di animali che colpiscono la nostra attenzione. Dal Panchatantra attraverso Esopo e Fedro fino agli animali parlanti dei fumetti, questo ambiguo processo di estraniamento e al tempo stesso di osmosi è tipico della nostra cultura. 

Il vivere degli ultimi decenni ci ha obiettivamente allontanato dal mondo animale: il che, fra l'altro, ci ha dato l'illusione che, almeno in Occidente, l'uomo sia diventato più clemente e più civile nei suoi rapporti con loro. Molte cose, per le quali fino a qualche anno fa era necessario un animale, si fanno adesso con delle macchine; a parecchi prodotti animali, si supplisce con materiali di differente origine. La nostra strisciante ipocrisia quotidiana fa il resto: se molti di noi si scandalizzano ancora dinanzi a fenomeni (pur di natura tanto diversa) quali la caccia, la vivisezione o la corrida, lo spettacolo degli animali domestici impietosamente abbandonati dalle famiglie in partenza per le vacanze o schiacciati dalle auto ai cigli delle strade non ci scuote ormai quasi per nulla. E, se molti di noi sarebbero ancora pronti a indignarsi innanzi allo spettacolo di un cocchiere che frusti con destrezza il suo cavallo (in quanto cavalli e cocchieri non fanno più parte del nostro orizzonte quotidiano e abituale), in cambio, per tacita convenzione quasi unanimemente rispettata, evitiamo di pensare alle sofferenze degli animali in cattività (dagli zoo alle nostre domestiche gabbiette per uccellini), di quelli allevati per ricavarne pellicce pregiate - e sovente uccisi in modo di gran lunga più crudele che non il toro alla corrida - di quelli avviati ogni giorno a morte neppur sempre indolore nei macelli e le spoglie dei quali" divenute "cose", riempiono i negozi alimentari. 

L'uomo è, per sua natura, un crudele predone: la civiltà moderna non gli ha insegnato a esser migliore, ma in cambio gli ha suggerito molte maniere di trasformarsi in predone ipocrita in modo da tacitare la propria coscienza.

Con tutto ciò, gli animali continuano a signoreggiare il nostro Immaginario: e spesso, dalla psicanalisi all'etologia, li vediamo ancora rivestiti del loro aspetto archetipico, simboli divini o demonici, istigatori arcani di vizi e di virtù.

Quel che noi vogliamo fare su queste pagine, è ricostruire le fila di un tessuto mentale. Com'è che l'uomo ha vissuto, nei secoli, il suo rapporto con quegli esseri che gli stavano continuamente vicini, che avevano con lui un rapporto di somiglianza e di familiarità che poteva essere più o meno articolato ma che pur rimaneva innegabile, che gli servivano in guerra, a caccia, nel lavoro, per l'alimentazione, per i trasporti, per l'abbigliamento, che potevano insidiarlo o giocare con lui, che si prestavano a diventare personaggi dei suoi miti e modelli per la sua arte?

Dato il carattere di questa rivista, qualcuno si aspetterà a questo punto una scorribanda nel territorio del mito, della leggenda, dell'immagine archetipica. Senza dubbio, questo territorio sarà visitato: lo sarà però con spirito critico, con volontà concretamente storica e filologica, senza concessioni al gioco della fantasia. Quel che intendiamo fare, non è rievocare vecchie e magari affascinanti immagini, bensì il domandarci puntualmente ragione di esse. Da dove proviene la speciale amicizia e lo speciale legame tra l'uomo e certe specie animali (non tutte e non necessariamente domestiche), da dove la paura, la diffidenza e lo schifo che egli nutre nei confronti di altre? Le varie leggende antiche e medievali che hanno animali a protagonisti, sono soltanto esito di credenze "superstiziose" o "prescientifiche", oppure celano un diverso e più profondo messaggio?

Beninteso, non intendiamo partire dalla notte dei tempi. Sarebbe un primo e irreparabile errore metodologico: non solo perché ci obbligherebbe a chiamare in gioco una quantità di fattori - da quelli storico-religiosi a quelli paleontologici, archeologici, zoologici e via discorrendo - ma soprattutto in quanto ci esporrebbe al pericolo di tracciare una parabola omogenea e deterministica del rapporto fra uomo e animale, e di non scorgere invece le scelte, gli scarti cronologici e culturali, le lacerazioni e le rivoluzioni materiali e mentali che pur ci sono state.
Si è detto, e oggi lo si ripete di frequente, che l'uomo ha affrontato nella sua storia plurimillenaria soltanto tre autentiche rivoluzioni: la prima, quando da cacciatore e raccoglitore è divenuto agricoltore e allevatore; la seconda, all'atto del lungo processo - avviatosi nel corso del XVIII secolo e non ancora concluso in tutto il mondo - della cosiddetta "rivoluzione industriale"; la terza, con la rivoluzione informatica e telematica in atto ai nostri tempi. Può darsi: e, senza dubbio, almeno i primi due di questi complessi eventi (sul terzo è forse ancora presto per pronunziarsi) hanno profondamente inciso sui rapporti fra uomo e animale. Il che, riconduce a un difficile problema storico, epistemologico ed ermeneutico: quello epocale.

Hanno credibilità, hanno ragione di esse re, le periodizzazioni? Ha un senso pensare in termini dì "ere"; di "età", o magari - come proponevano Spengler o Frobenius - di " cicli culturali "? Dividere e Razionalizzare in qualche modo il flusso del tempo ci aiuta davvero a dominarlo, o ce ne dà soltanto l'illusione? E che rapporto reale e concreto esiste fra lo spazio, il tempo e quelle creazioni umane che noi chiamiamo "civiltà"? Dall'India vedica all'antichità romana al medioevo cristiano si è cercato di razionalizzare la storia dell'umanità suddividendola in epoche; oggi superati i troppo facili e ottimistici schemi hegeliani , Fernard Braudel ci ha insegnato a scomporre il tempo in "brevi" e in "lunghe" durate. Ma come si concilia, tutto ciò, con la memoria personale o comunitaria dell'uomo? E come si traduce in termini di. autocoscienza, di consapevolezza di tale memoria, quindi in termini storici? Tali grosse e tuttora irrisolte questioni debbono esser qui se non altro ricordate per ribadire che anche le immagini mitiche e le figure archetipiche hanno una storia, e che un circolo di stretta interdipendenza corre tra condizioni materiali dell'esistenza e atteggiamenti mentali.

Il nostro immaginario è il risultato di un puzzle millenario nel quale entrano condizionamenti fisiologici, ambientali e culturali di varia natura: ma sul quale non tutti questi condizionamenti hanno inciso nella stessa misura, con uguale intensità, nel medesimo senso. E noi crediamo che le radici effettive del nostro Immaginario contemporaneo affondino essenzialmente nel medioevo.

Una proposizione del genere, d'altronde, una volta formulata dev'essere spiegata: e spiegarla equivale ad almeno in parte contestarla. Nell'abituale linguaggio desunto dalla media cultura scolastica dei nostri paesi occidentali, il medioevo corrisponde a un lungo periodo della storia europea, grosso modo fra Ve XV secolo: e gli storici sono abituati a discutere sulla liceità di questa periodizzazione. Ma nel nostro corrente Immaginario, che è ancora fortemente influenzato dall'elaborazione di temi d'immagini avvenuta in quel lungo e significativo momento della nostra cultura che di solito si definisce "Romanticismo", il medioevo assume colori e contorni speciali, magari molto ben definiti, magari dotati di una forte carica evocativa, ma sovente sprovvisti o quasi d'una loro plausibilità storica oppure risultato di processi estetici e ideologici che hanno gravemente distorto e compromesso la lettura del passato.

Anzi, in ultima analisi si può ben dire che il medioevo non è mai esistito: esso è stato un'invenzione polemica di comodo di alcuni eruditi cinque-seicenteschi intenti a litigare sul problema del loro rapporto con l'antichità greca e romana e sull'eredità che essa aveva lasciato loro, e quindi a ricercare le cause dell'imbarbarimento che la civiltà euromediterranea aveva subìto (o almeno così essi ritenevano) da una certa fase della storia in poi: fase che aveva coinciso con la crisi delle strutture imperiali romane e con l'affermarsi di una nuova religione d'origine orientale e di carattere monoteista, il cristianesimo, nel territorio dell'impero.

La civiltà nata da questa crisi, e caratterizzata da uno stretto rapporto tra fede religiosa e istituzioni civili, sistemi culturali eccetera, sarebbe andata lentamente cancellandosi più tardi, con il sorgere di tutto un complesso di dottrine - politiche, scientifiche, economiche eccetera - che avrebbero poco a poco sancito l'autonomia della politica, della filosofia, della scienza rispetto al mondo della metafisica e della religione. 

Se le cose stanno però così, il medioevo va pensato come prolungatosi al di là del XV secolo, fino alla "rivoluzione scientifica" razionalistica e/o empiristica del XVII-XVIII secolo, dalla quale la stessa "rivoluzione industriale" e poi le rivoluzioni politiche dipendono. In altre parole, sarà forse necessario pensare a un "lungo medioevo", coincidente per molti versi con quella che taluni storici chiamano l'età preindustriale, o - come amano invece dire gli studiosi francesi - l'età d'ancien regime. Per molti aspetti tuttavia la mentalità e la memoria collettive perpetuarono, magari folklorizzandoli, una serie di contenuti e di atteggiamenti mentali un tempo organicamente collegati a un sistema scientifico che li legittimava, poi sopravvissuti al superamento e all'obliterazione di tale sistema. Noialtri figli di Cartesio e di Newton, c'imbattiamo sovente - nei nostri atteggiamenti irriflessi, nei nostri comportamenti ispirati alla cultura tradizionale, magari nei nostri sogni - con le immagini che costituivano il mondo dell'uomo premoderno; tali immagini sono sovente la misura e la testimonianza della nostra perdita di organicità culturale, della nostra intima lacerazione. E sono, spesso, immagini animali.

Gli antichi, specie gli egizi e i babilonesi, avevano popolato di mostri, di belve, di animali il loro pantheon e i loro cieli. Il "mostro", non necessariamente né completamente assimilabile alla belva, poteva essere il risultato di un'anomalia della natura, il segno di un fatto straordinario, la testimonianza d'un'irruzione del divino nella sfera dell'uomo; non a caso, per questo, esso non era neppur sempre necessariamente alla portata dell'esperienza immediata. Sovente, il mostro era isolato in un mondo "altro", diverso per natura e per qualità rispetto a quello abitato dagli uomini: poteva risiedere nei cieli, negli abissi marini, nel ventre della terra, in paesi lontani. 

La sua almeno ordinaria estraneità all'esperienza quotidiana non era affatto argomento che potesse servire a porre in dubbio la sua esistenza, in quanto egli era anzitutto un segno, il testimone di una realtà diversa da quella dell'uomo. Inoltre, un filo tenace legava il mostro, la belva e il dio. L'umano, il divino, il demonico, il ferino si incontravano e si fondevano continuamente; e se ciò non accadeva nel sistema mitologico-religioso grecoromano in quanto esso era profondamente antropomorfìco, il tema della metamorfosi introduceva anche in esso una correzione che ricollegava l'uomo, il dio, il demone e la belva.

Un collegamento, anzi una sorta di circolarità degli stati dell'essere, garantita dal carattere politeistico e dalla natura immanentistica dei sistemi mitico-religiosi dell’antichità. Rispetto ad essi, il cristianesimo e già l’ebraismo avevano introdotto un elemento nuovo: il Dio unico, trascendente, creatore; e l’uomo sua creatura diletta, suo primogenito spirituale, che compartecipa della sua natura e che quindi (come si vede nel Cristo, Dio e Uomo) è mediatore tra Dio e il creato, quindi padrone del creato in quanto possiede un’anima materiale, un nephesh che ha per dimora il sangue, un principio vitale – egli si distingue dagli animali in quanto ha anche il principio comunicatogli dal soffio divino, lo spirito, la Ruah.

Ne consegue che l'ebraismo, il cristianesimo, l'Islam sanciscono nei confronti del mondo animale un'estraneità più profonda dei precedenti sistemi immanentistici. D'altronde, il bagaglio delle culture precedenti - la greco-romana non meno di quelle orientali e di quelle "delle steppe", che irrompono nel mondo cristiano fra IV e VI secolo - già presente nello stesso apparato simbolico della Bibbia, è troppo forte perché il cristiano possa (e, del resto, voglia) liberarsene. Mostri, belve, animali alimentano l'immaginario demoniaco, ma al tempo stesso passano sotto il velo dell'allegoria a far parte dello stesso tessuto religioso cristiano (si pensi all'Agnello, alla Colomba, al Tetramorfo) o prolungano la loro vigorosa presenza culturale antica per popolare delle loro immagini il pensiero allegorico e morale del mondo cristiano.

Li ritroviamo nella scultura romanica e gotica, nei simboli araldici, nei trattati enciclopedici. Elaborazioni culturali o presenze reali che siano, essi sono sempre e comunque "segni": non ha, quindi, molto senso distinguere il mostro dall'animale reale, non serve a nulla osservare che i centauri e le sirene non sono esistite mentre il lupo e l'orso sì. L'uomo medievale non ragionava secondo categorie di questo tipo. In un certo senso, il centauro e la sirena gli erario altrettanto famigliari non solo del lupo e dell'orso, ma anche del cane e del cavallo: nel senso, vogliamo dire, dell'uso allegorico che egli ne faceva. Ed è questo diverso modo d'intendere la realtà che noi dobbiamo comprendere: questo, e questo solo, è il "disincanto" che bisogna realizzare rispetto alle radici del nostro Immaginario. 

   

BIBLIOGRAFIA:

Per gli animali nel medioevo, è fondamentale il volume di AA. VV., L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo, Spoleto 1995 (Atti della XXXVI settimana di studio del Centro Italiano di studi sull’Alto Medioevo). Dal punto di vista storico, oltre a Morus, Gli animali nella storia della civiltà, Mondadori, Milano 1956, si vedano:

R. Delort, Les animaux ont un’histoire, Seuil, Paris 1984; 

R. Delort, Le commerce des fourrures en Occident à la fin du Moyen-âge, vol 2, Ecole Française, Rome 1978.

Per i mostri: J. Baltrusaisis, Il medioevo fantastico, Adelphi, Milano 1973;

C. Kappler, Demoni, mostri e meraviglie alla fine del medioevo, Sansoni, Firenze 1983. 

Molte notizie in M. Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto medioevo, Liguori, Napoli 1979.

 

* Gli articoli di Franco Cardini sono stati pubblicati per la prima volta nella rivista «Abstracta», n. 4 (aprile 1986). Li ripubblichiamo qui  senza alcuna modifica.

 

 

      

© Franco Cardini (e rivista «Abstracta»). 

   


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