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FINESTRA SUL PASSATO:

Capitanata

     a cura di Barbara Di Simio


 

   

Lucera: mura del castello angioino

 

 

 

  Pianta di Lucera: vi sono raffigurati edifici attualmente non più esistenti

   

   

VICENDE STORICHE

L’antica città di Lucera, situata poco lontano dalla Capitanata, sorge tra il grado quarantunesimo di latitudine e il tredicesimo di longitudine dal meridiano di Parigi. I diversi strati sovrapposti l’uno all’altro testimoniano i vari periodi storici durante i quali la città fu distrutta e ricostruita più volte. L’importanza strategica di Lucera, “chiave della Puglia”, si arguisce sin dai primordi della storia dei popoli d’Apulia fino alle lotte fra Spagnoli e Francesi nel Napoletano. Aleggiano su questa città le memorie di molte dominazioni, così come essa ancor oggi appare, col fascino evocatore che si sprigiona dalle sue pietre venerande, dalle sue chiese solenni, dalle austere porte ogivali delle mura, circonfusa d’un alone di fiera bellezza.

I secoli scorsi videro Lucera sede di Templi, di un Foro, di Terme, di Anfiteatri, del suo imponente castello, della Cattedrale, dell’antico cenobio dei PP. Celestini, della chiesa di S. Francesco, del Carmine, di S. Domenico e di S. Bartolomeo.

Lucera era situata su tre piccole colline, la prima delle quali si estende dal castello sino alle vecchie mura della città ed è chiamata Monte Albano per l’argilla bianca lì rinvenuta. La seconda, ove sorge il convento del Salvatore dei PP. Minori Riformati, è denominata Belvedere; mentre la terza deve il nome di Monte Sacro alla presenza nel passato dei templi dedicati a Minerva, Cerere e ad altre divinità.

è sempre stata intenzione di filologi ed etnografi di ogni tempo poter conoscere e studiare le origini di una città, riportare alla luce reperti che testimoniano l’esistenza di un passato spesso dimenticato o poco conosciuto. Risulta difficile definire con certezza l’età della fondazione di Lucera a causa della mancanza di testimonianze storicamente accertate. Fondazione Etolica dei Locri, secondo alcuni, dei Dauni di razza messapica, secondo altri, città osca, secondo l’opinione più attendibile, Lucera sentì, come tutte le altre città dell’Italia Meridionale, l’influenza della civiltà greca.

Alcuni storici sostengono che Lucera, terra di “Superbi edifici e sontuosi palaggi”, come altre città della Puglia, ebbe origine dal valoroso Diomede, duce greco, figlio di Tideo, che, dopo l’assedio di Troia, approdò sulle coste orientali dell’Adriatico e lì vi fondò tale città, dove nel Tempio di Minerva depositò i suoi doni, tra cui il Palladio, simulacro di Pallade.

Tale tesi, anche se poco condivisa dagli studiosi di storia antica, è riscontrabile nella Cronaca de’ Vescovi ed Arcivescovi della Chiesa Beneventana in cui si evince: «Lucera XIX. Questa città lontana da Benevento per la via di Paduli e Buccolo miglia 36 è situata nella Puglia Daunia sopra un colle verso Austro al fiume Cerbalo tra Benevento e Siponto. Essa è antichissima e dicesi edificata da Diomede».

L’ipotesi di una fondazione leggendaria si riscontra anche nelle parole di Strabone che in una sua opera scrisse: «Et alia multa monstrantur in his locis Diomedis dominationis signa, in Minervae quidem Templo Luceriae prisca donaria, et ipsa extat antiqua Urbs Dauniorum, nunc humilis est». Da una più attenta e minuziosa analisi e interpretazione del testo latino di Strabone, Domenico Lombardi ha sostenuto che la vetusta città derivi dai Dauni, primi abitatori della Puglia e discendenti dagli Aborigeni d’Italia, poi denominati Sanniti, un popolo nomade e dedito alla pastorizia, i quali, secondo antichi costume, per placare l’ira degli dei erano soliti fondare nuove colonie in terre ricche di pascoli come la Puglia. È probabile che Lucera fu proprio tra le prime colonie da loro fondate.

Si è discusso a lungo sull’etimologia del nome di questa città che sin dai tempi più remoti recava l’appellativo di Luceria, Lucieria, Nuceria e infine Lucera. Diverse le ipotesi al riguardo. Alcuni studiosi, tra i quali Francesco Sansovino e Aleandro Alberti, sostengono che il nome Lucera derivi da Luce  per la sua posizione geografica che la rende visibile da lontano in tutta la pianura pugliese.

Altri credono che tale nome derivi da Lux Cereris per l’abbondanza di frumento e di raccolto dei suoi campi, o addirittura da Lucio Dauno, antichissimo re di Puglia; o ancora da Luceria, figlia di Diomede. Purtroppo non se ne hanno notizie storiche accertate. Un’altra ipotesi fa riferimento alla lingua greca. I Greci diedero alla città ove vi era il Tempio di Minerva il nome di λυκεργια per le lane qui prodotte e la presenza di lupi sin dai tempi di Carlo I d’Angiò. Fra le divinità venerate a Lucera vi è Apollo che si disse Lycium e che gli antichi veneravano sotto l’effigie del lupo; è perciò plausibile che i primi ad edificare la città vollero dedicarla ad Apollo Lucio.

Il termine Lucera sembra quindi provenire da Nucria, da cui poi Nuceria e Luceria che, similmente ad altre città dell’Umbria, della Campania e della Gallia Cispadana, deriva dalla voce ebraica Nocria o Nucria come è testimoniato nel manoscritto di Giovanni Antonio Cassitti e dallo stesso Cesare.

Secondo altri storici invece il nome Lucera potrebbe essere di derivazione etrusca con la valenza di ‹‹Genti che abitavano il bosco sacro››.

Lucera fu fedele alleata di Roma nella seconda guerra sannitica, ottenendo il riconoscimento del Senato Romano. Al triste annuncio della presa di Lucera, i Romani, accampati nel 321 a. C. presso Caserta, si mossero verso la Daunia. Giunti a Caudio, furono dai Sanniti accerchiati, lasciando al nemico, dopo la pace firmata a prezzo del proprio onore, seicento dei migliori cavalieri che, presi in ostaggio vennero rinchiusi nell’arx lucerina caduta nelle mani sannitiche.

Solo nel 314 a. C. tornò sotto il potere di Roma, che volle lì stabilirvi una cospicua colonia, denominata colonia jus latini, che nel 294 a. C. scampò la minaccia sannitica. Quartiere generale dei Romani che ne seppero sfruttare la posizione geografica e strategica, Lucera resistette ad Annibale. Inoltre durante la guerra annibalica la città fu tra quelle diciotto province che non tradirono Roma, diversamente da quante, invece, piegate dalla stanchezza e debolezza, si erano arrese al nemico.

Sotto l’Impero di Augusto la città divenne cristiana nonostante la forte presenza dei Saraceni. Un tale S. Basso, uomo d’ingegno e d’azione, consacrato vescovo della città da S. Pietro, eresse sulla riva del fiume Vulgano la chiesa di S. Pietro in Bagno.

In questo clima di trasformazione spirituale i templi dedicati a Minerva, Cerere e a altre divinità lasciarono il posto a monumenti civili e religiosi che ancora oggi arricchiscono la sua storia.

La tenace fedeltà dimostrata da Lucera nei confronti di Roma venne ricompensata con privilegi che altri alleati non ottennero neanche nelle lunghe e dure guerre puniche.

 

MONUMENTI: CHIESE

Durante l’Impero Lucera vide sorgere ad oriente della città l’Anfiteatro, che rimase tra i più antichi d’Italia e secondo per la struttura stabile, solo a quello di Pompei, meno vasto e costruito dopo la colonia Sillana nell’ 80 a. C.. Costruito da Marco Vecilio Campo secondo una forma ellittica, l’Anfiteatro era diviso in quattro settori, i muri di sostegno dei maeniana erano più alti, i quattro ingressi erano disposti in corrispondenza dell’asse maggiore e gli spoliaria (locali dove si portavano i gladiatori feriti mortalmente) erano adiacenti al corridoio di accesso all’arena.

Distrutto da Costante II nel 663, nel XIII secolo con Federico II venne definitivamente dimenticato. Questa imponente costruzione, in cui avevano luogo le lotte fra i gladiatori, fu sommersa dal terreno per cause ancora ignote per molti secoli e solo nel 1930 tornò alla luce. I due portali sopravvissuti in pietra d’Apricena constano di due colonne dai capitelli di stile eolico, con architrave recante un’iscrizione e con un frontone triangolare, il cui timpano è ornato al centro da uno scudo rotondo e da una lancia con figure simboliche che corrono lungo le cornici come le aquile, i serpenti e le sfingi. Null’altro rimane purtroppo dell’epoca imperiale. Lucera, scampata miracolosamente all’alluvione barbarica, fu minata da Costante II, geloso della grandezza dei Longobardi a cui voleva sottrarre il ducato di Benevento.

Dopo tante guerre la città fu restaurata e conservata in buon stato fino ai tempi di Costanzo Secondo, figlio di Costantino Terzo, imperatore dei Greci, dal quale fu empiamente distrutta intorno all’anno 670 per timore dell’arrivo dei Longobardi.

Successivamente, dopo un lungo assedio, nell’802 si arrese a Pipino, re d’Italia; ma nello stesso anno fu riconquistata da Grimoaldo, duca di Benevento, assolvendo fino al Mille alla funzione di sentinella longobarda contro la marcia dei Bizantini.

Durante la dominazione Bizantina la città fu governata da quattro castaldi, ma dopo, caduta in potere dei Normanni, diede un considerevole contributo alla prima crociata, come si allude nella Gerusalemme Liberata. Gli ultimi decenni del IX secolo furono contrassegnati da una svolta nella storia delle chiese locali. La Puglia ormai compresa dal governo bizantino nel thema di Longobardia. Benevento e Siponto divennero due diocesi di forte influenza politico-ecclesiastica in grado di governare tutta la Puglia. I Bizantini procedettero ad una ristrutturazione ecclesiastica del territorio creando nuovi vescovadi tra i quali la stessa Lucera con a capo il vescovo Landenolfo. Lo scopo era di assicurarsi la fedeltà politica dei vescovi mediante il controllo e le cumulazioni di vescovadi.

Il momento di maggiore splendore fu nel 1200 quando Federico II di Svevia ne intuì l’importanza strategica, tanto che nel 1223-24 vi insediò una colonia saracena dalla Sicilia. Sembra che nel 1239 in città fossero rimasti pochissimi cristiani e che il vescovo fosse costretto ad esprimersi in arabo per essere capito.

A quest’epoca risale la costruzione del Castello con materiali forniti da edifici romani, i cui resti oggi testimoniano, non solo il grande amore di Federico II per la Puglia, Foggia in particolare, ma anche il desiderio di eternarsi nei monumenti. Fu proprio qui che l’Imperatore radunò animali di specie diverse, concentrò un orientaleggiante harem di leggiadre almee, contro gli strali della chiesa, e permise la costruzione di moschee che diedero a Lucera l’aspetto di una città senza croci, dove la presenza dei cattolici diventava sempre più insostenibile. Indiscussa fu la profonda ammirazione di Federico II per il mondo arabo e per la sua cultura, che spesso gli procurò gravi problemi con la chiesa cattolica.

La moschea più bella, ricca di marmi e colonne, era quella su cui sorse successivamente la cattedrale.

Il castello si presenta come un’enorme costruzione quadrata poggiante su uno zoccolo di pietra viva, circondato da una galleria, denominata dei tiratori, caratterizzato da un loggiato di difesa rinforzato agli angoli da torrette, le quali servivano come osservatori della sicurezza interna. Di grande affinità con Castel del Monte, il castello lucerino, sviluppato su tre piani, fu sicuramente il più importante edificio gotico del Duecento, arredato con squisito senso d’arte e adorno di figure di bronzo e di marmo proveniente da Napoli e da Grottaferrata, e comunicante secondo la tradizione con il pozzo dell’Imperatore, una fontana la cui costruzione risale a Federico II, e la cui apertura, rimpicciolita nel 1613, fu per esigenze edilizie del tutto chiusa. Del castello rimane solo lo zoccolo piramidale che cinge il palazzo e racchiude un cortile quadrato. Quando agli Svevi successero gli Angioini, Luceria Saracinorum si sottomise ai conquistatori, ma nel 1268 dopo un terribile scontro con Carlo I d’Angiò la colonia saracena fu vinta.

L’Imperatore svevo edificò un palazzo a forma di torre quadrangolare alta tre piani con un cortile quadrato al centro, le cui rovine sono ancora oggi inscritte nel versante nord orientale della costruzione angioina. L’edificio doveva risultare alquanto colorato per la presenza della breccia corallina che rivestiva le pareti, per il marmo dei capitelli e le tarsie policrome.

Proprio lì, attorno alla rocca federiciana, Carlo I d’Angiò volle costruire una fortezza per poter controllare e tenere a freno i musulmani. Si valse per gli interni dell’aiuto di Pietro d’Angicourt, di protomagistri, maestri provenzali e locali, molti dei quali si erano formati nei cantieri di Federico II venendo a determinare una certa continuità artistica fra i due casati. I lavori dell’esterno vennero invece affidati a maestranze saracene verso le quali Carlo I si mostrò sempre ostile e poco fiducioso. La costruzione ampia e maestosa aveva una cinta di novecento metri, irta di torri, mentre il profondo fossato che la circondava salvaguardava la fronte orientale della cinta. Le mura sono caratterizzate da semi torri e da due torri cilindriche, indicate come la torre della Regina e quella del Re o del Leone e della Leonessa che è un vero colosso con la merlatura ancora oggi ben conservata. Il ponte levatoio la collegava con la città, intorno al quale Carlo I fece costruire delle case destinate alle famiglie provenzali.

A questo periodo risale la nuova cinta fortificata che presentava quattro grandi porte, la più grande delle quali era sormontata da un superbo arco piatto che si differenziava dalle altre tre ogivali, e si apriva in un angolo rientrante così da rendere impossibile qualunque sorpresa. Su di essa venne affissa una lapide.

Carlo I volle far costruire un palazzo che simboleggiasse il suo potere, caratterizzato da quattro ali, da un cortile quadrilatero con giochi d’acqua e da una cappella gotica ad una navata con abside; inoltre chiamò maestranze francesi per la realizzazione di vetrate policrome. I materiali utilizzati a tal scopo furono le pietre da taglio bugnate e i mattoni provenienti da Fiorentino. La fortezza di Lucera è stata soggetta a continui saccheggiamenti da parte di eruditi e contadini.

Nel 1300 Carlo II attuò il disegno di sterminare i saraceni dalla città e riutilizzò marmi e colonne della fortezza per nuove costruzioni.

 

Nel mezzo della città volle far edificare una chiesa (l’odierna Cattedrale) dedicata a S. Maria della Vittoria in ricordo della liberazione di Lucera dai Saraceni, che volle arricchire di doni preziosi. Tra gli oggetti scomparsi sono da annoverare la croce d’oro e d’argento dorato del 1305 commissionata da Roberto d’Angiò, e la collana d’oro donata da Maria d’Ungheria, moglie di Carlo II.

è tra le glorie di Giovanni Pipino la ricostruzione della Cattedrale, magnifica testimonianza d’arte gotica, che slanciata verso l’alto, simboleggia l’eterno anelito del popolo di Dio verso l’infinito. I lavori iniziarono nel 1300 e dopo qualche anno, precisamente tra il 1309 e il 1311, venne arricchita dalla campana donata dai Templari; nel 1317 fu completata.

La Cattedrale presenta molte analogie architettoniche con la chiesa di Saint-Maximin di Provenza; attribuita probabilmente a Pietro d’Angicourt che si avvalse dell’aiuto di Nicola da Foggia. A tre navate, semplice nelle sue linee, domina tutta la piazza con le due torri, di cui una di forma ottagonale, l’altra invece, la torre campanaria, di forma quadrata.

Tre portali di pietra bruna caratterizzano la facciata. Quello centrale, fiancheggiato da due colonne verdi con eleganti capitelli, è sormontato da archi a sesto acuto decorati da fogliami che ricordano quelli dell’archivolto del palazzo di Federico II di Foggia. Il timpano è occupato dall’immagine della Madonna col Bambino, sopra al quale è possibile notare lo stemma angioino.

Nel 1874 fu dichiarata monumento nazionale e tra il 1878 e il 1892 venne liberata da tutte quelle sovrapposizioni barocche che nel Seicento e nel Settecento l’avevano appesantita restituendola così a quello stile semplice e rigoroso nel XIII secolo. Caduta poi in rovina, fu deteriorata dallo stesso Federico II che voleva edificarvi al suo posto un Palatium imperiale.

Oltre la Cattedrale appartengono allo stesso periodo di Giovanni Pipino di Barletta altri monumenti di grande bellezza e prestigio come la chiesa e il monastero di San Bartolomeo. La prima, oggi cappella del Convitto Nazionale, ha dal 1300 subito molte trasformazioni e, pur avendo perduto parte dello stile originale, conserva pregevoli tele seicentesche del Solimena e del De Mura. Il secondo, ossia il monastero, fu assegnato ai fraticelli di Pier Celestino, ma dopo le leggi della soppressione del 1807, venne adibito a sede del Reale Collegio.

Allo stesso periodo risalgono la chiesa di San Francesco e la chiesa di San Domenico. La prima delle quali rispecchia il semplice stile francescano con una navata slanciata verso l’alto senza cappelle, coperta da un tetto a capriate e un coro pentagonale con archi e volte ogivali, che conserva al suo interno tele del Quattrocento, Seicento e Settecento. Recentemente sono venute alla luce alcune eleganti ogive nell’antico attiguo convento dei Minori, ridotto, fin dai tempi della soppressione napoleonica degli ordini monastici, a carceri e un antico chiostro che doveva costituire con la chiesa stessa un complesso architettonico unico. La porta, ricca ed elegante architettonicamente, presenta un grande rosone decorato da tre girali di fogliami in rilievo. All’interno il soffitto a cassettoni nasconde il sommo arco a sesto acuto situato in fondo alla navata. I frati minori Conventuali, ritornati a Lucera nel giugno del 1932 dopo oltre settant’anni di lontananza, hanno trovato non poche difficoltà a causa della mancanza di una struttura loro consona dato che il convento edificato dopo la Restaurazione a nord-ovest della chiesa fu, nella seconda metà dell’Ottocento, adibito ad abitazione e unito al locale delle carceri.

La chiesa di San Domenico, invece, costruita presumibilmente su rovine musulmane, presenta elementi differenti. Di notevole interesse artistico è il coro ligneo di Francesco Ianulo da Monopoli, decorato da figurine quasi ad altorilievo e da agili colonnine tortili, sormontato da una cornice ricca di foglie ornamentali. Coevo a queste due chiese è il convento del Salvatore, che pare sia stato costruito sotto il Pontificato di Bonifacio VIII e abbandonato nel 1400, perché ridotto in cattivo stato. Vennero utilizzate due lapidi provenienti da Fiorentino per la realizzazione dell’ altare maggiore della chiesa.

Per tal motivo fuori Porta Troia venne edificato un altro monastero denominato “della Pietà” per il fatto che lì sorgeva una “Cappelluccia” con l’effigie della Vergine avente fra le braccia “il morto suo Figliuolo”, alla destra San Francesco d’Assisi e alla sinistra San Antonio da Padova. Ma nel 1518 i fondatori del nuovo convento si divisero: i Riformati tornarono al S. Salvatore ormai restaurato, gli Osservanti, invece, rimasero alla Pietà, notevolmente ampliata nel 1580, quando i Lucerini, con il vescovo de Petris, decisero di ridurre “in forma di un magnifico Tempio” l’antica Cappelluccia, per devozione all’immagine sacra della Vergine che nel 1554 aveva restituito, come ricorda una lapide, la vista ad un cieco.

Divenuta città cristiana, Carlo II d’Angiò la dichiarò città demaniale e vi fondò il Capitolo della Cattedrale sui modelli di quelli metropolitani, secundum morem Ecclesiae Gallicanae. Roberto d’Angiò, terzogenito di Carlo II, dopo aver abbattute le mura edificate da Carlo II, cinse Lucera di solide e nuove mura con l’arco a sesto acuto e grosse bugna rettangolari, di cui conserviamo attualmente solo la monumentale Porta Troia, simile a quella di Sulmona. All’interno vi volle fondare ben undici chiese: S. Maria Maddalena, S. Marco, S. Angelo, S. Caterina, S. Pietro, S. Lucia, S. Matteo, S. Giacomo, S. Martino, S. Paolo e S. Lorenzo, che però ora non esistono più e di cui non si conosce neanche l’ubicazione.

Solo l’antichissima chiesa di S. Caterina e l’attiguo omonimo convento delle Benedettine è sopravvissuta ai secoli.

Un’ala del convento fu nel 1400 adibita a sede del Tribunale della Dogana e conserva oltre la statua di S. Benedetto del Colombo, quattro dipinti attribuiti al De Mura del secolo XVIII: S. Scolastica, S. Antonio da Padova, S. Lorenzo e S. Pier Celestino, e S. Assunta sull’altare maggiore, una tela del Rossi, discepolo del Solimena. Nel convento vi sono due bassorilievi riproducenti l’uno S. Nicola e l’altro S. Benedetto di incerta attribuzione. L’opera di Roberto d’Angiò riguardò anche la donazione, elargita già dal padre, del feudo di Apricena e del Palazzo Guardiola; inoltre proibì a conti e a baroni di abitare all’interno della città destinata invece a coltivatori e piccoli proprietari, vittime di abusi feudali. Il regno della regina Giovanna I non riuscì ad eliminare i disordini, gli sperperi del pubblico denaro e le prepotenze dei magistrati, che si inasprirono con la morte del marito Andrea d’Ungheria. Ladislao risollevò le sorti di Lucera, provata da tante guerre civili, pestilenze e carestie. Ma questo periodo di prosperità ebbe presto fine.

Le sorti della città declinarono a causa dei nuovi turbini di guerra suscitati dalle rivalità tra Sergianni Caracciolo, gran siniscalco del Regno, e il condottiero Attendolo Sforza. Il Regno della regina Giovanna II cessò nel 1435.

Nel 1442 la città dovette arrendersi agli Aragonesi, i quali concessero molti privilegi: il Tribunale della Dogana delle pecore di Puglia, che ebbe florida vita fino al 1468, anno in cui venne trasferito a Foggia da Ferrante I; e la Regia Audentia Provincialis che con i suoi Governatori e Presidi ebbe giurisdizione civile, criminale e amministrativa per oltre tre secoli. Durante la dominazione spagnola la condizione di Lucera non fu più lieta di quella delle altre città del Reame. Nella seconda metà del Cinquecento la città, che iniziava ad avvertire le nuove tendenze architettoniche rinascimentali, ospitava molti ordini monastici: Osservanti, Conventuali, Agostiniani, Riformati, Cappuccini, Predicatori e Carmelitani, i quali rimasero fedeli alla tradizione umanistica, filosofica e teologica.

Gli Agostiniani, venuti a Lucera da Castel Fiorentino dopo la soppressione di quella diocesi, edificarono nel 1583 un convento e una chiesa, dedicata a S. Leonardo, che venne abbellita per volere di D. Orazio Zunica, duca della Castellina e loro protettore. Nel 1594 invece vi giunsero i Carmelitani che ad oriente della città edificarono un modesto convento. Nel 1793 si deliberò la loro espulsione. Essi andarono via solo dopo la soppressione degli ordini monastici, donde la trasformazione nel 1804 del nuovo convento in orfanotrofio femminile, denominato S. Carlo e incorporato nel 1916 in quello fondato da Tito Pellegrini.

Venne costruito il semplice e decoroso portale di palazzo Bruno, residenza nel Seicento del viceré Angelo Geronimo Bruno Alimena, che conserva secondo la tradizione una delle due leges lucorum, l’altra, detta lex spolentina, è conservata nella collezione archeologica di Spoleto, attestanti la grande cura dei Romani nella conservazione dei boschi sacri. La lapide in questione, che concerneva il divieto di gettare cadaveri e celebrare sacrifici funebri nel bosco lucerino, fu rinvenuta nel 1847 fuori Porta Troia, dove attualmente sorge la Colonia Agricola e reimpiegata come materiale di fabbrica nella ricostruzione di un’ala dello stesso palazzo Bruno. Motivi rinascimentali sono riscontrabili lungo gli stipiti dei ricchi e festosi portali del palazzo Pignatelli, oggi Lastaria, provenienti forse da un antico altare. Significanti sono anche le alte finestre di forma rettangolare, ornate di fregi che corrono lungo gli stipiti orizzontali superiori, del palazzo detto dei Sacramentini, attiguo alla chiesa del SS. Sacramento. Divenuto sede dell’Università di Lucera, il palazzo venne saccheggiato e bruciato con tutti i suoi archivi nel 1592 e ricostruito solo nel 1700 e adibito a convento.

Sempre nel Cinquecento migliorarono le condizioni dell’agricoltura, giovate dall’acquisto di nuove terre a pascolo brado. Sulla città si abbatté un nuovo flagello: la peste, provocata, nel Vice Regno, dall’occlusione degli acquedotti di Napoli.

La mortalità non fu molto elevata, per cui l’Università di Lucera volle ringraziare S. Rocco, protettore degli appestati, con l’edificazione di una chiesa, ora in rovina, a ponente della città, nel luogo dove sorgeva il lazzaretto.

Il XVIII secolo trascinò con sé i disastri e le brutture del secolo precedente, che poco conforto trovarono con il Regno di Filippo V e poi degli Austriaci. Appartengono alla fine del Seicento il palazzo Quaranta, ornato da un capitello di epoca medievale e da un leoncino che sporge da un lato; palazzo Valletta, oggi De Troia, recante un’iscrizione lungo l’architrave adorno di un biscione.

Solo a fine Settecento con Carlo di Borbone si segnalò un rivolgimento intellettuale e morale di Lucera. A questo fermento intellettuale corrisponde un miglioramento delle condizioni di vita. Sorsero: il palazzo vescovile, opera dell’architetto Romano Brunelli, seguace del Solimena, dal vasto e arioso cortile a ferro di cavallo, decorato al piano superiore da due logge laterali con ampie arcate sorrette da colonne; palazzo di Giustizia, ad opera dell’architetto Francesco Viti, sorto a spese del castello svevo - angioino nel 1795; palazzo Lombardi è un modello di sincretismo artistico in cui si fondono lo stile rinascimentale e quello barocco.

Testimonianze dell’edilizia settecentesca sono anche il palazzo Bonghi, dai bei portali di pietra lavorata, ricostruito sulla vecchia casa dei Caropresa; il palazzo Mozzagrugno, agile e semplice, presenta una facciata caratterizzata dal forte bugnato a pianterreno e da un ordine dorico di mezze colonne addoppiate al piano superiore che nel 1832 venne completamente rimaneggiata dall’architetto Gifuni. Nel suo solitario giardino troneggia un colossale leone di pietra che sembra guardare l’intera città.

 

Nel 1806, con l’assunzione di Giuseppe Napoleone al trono di Napoli, Lucera cessò di essere capoluogo della Provincia di Capitanata e del Contado del Molise.

Il XIX secolo vide fiorire la vita amministrativa e civile della città. Vennero costruiti nuovi rioni, strade più lastricate, palazzi più decorati; adornando di giardini e di artistiche fontane le piazze, trasformando l’incolto Belvedere in un’incantevole villa di fronte alla Maiella e al Gargano.

Lucera fu una città forte nell’antichità, munita di valli, mura e torri. La pelle di leone con clava, ruota e delfino, simbolo del commercio marittimo, sono elementi tipici delle monete. L’effigie di Pallade, sostenuta dalla mano diritta sporgente verso la città, ricorda che in quel luogo fu posto da Diomede il palladio, secondo la leggenda.

La Puglia era meta di pellegrinaggi e visite ai luoghi sacri sin dai tempi remoti da parte di fedeli provenienti da tutto il mondo cristiano, come attestano Tommaso da Celano e San Bonaventura che danno notizia della presenza dello stesso S. Francesco che si sarebbe recato proprio nella nostra terra per pregare. In seguito a questo evento gli insediamenti francescani si moltiplicarono già dal 1217 rendendo l’antica Apulia una delle Province Madri dell’Ordine Minoritico. Riguardo alla venuta del Santo, alcuni biografi ritengono che due siano le date controverse: 1216, sostenuta da Ughelli, e 1222, la più accreditata, sostenuta da Wadding. In quel tempo erano quattro i Santuari più celebri del mondo conosciuto ed erano indicati con un famoso trinomio: Deus (Palestina), Angelus (San Michele di Monte Gargano), Homo (tombe degli Apostoli in Roma e di Giacomo di Compostela in Galizia). Ogni cristiano fervente doveva recarsi almeno una volta nella vita in uno di questi luoghi. Anche S. Francesco non volle sottrarsi a questa devozione e secondo alcune fonti è probabile che si fermò anche a Lucera intorno al 1221. In seguito a questo evento fiorirono in tutta la Provincia conventi che osservavano la regola del Santo.  

Nella complessa storia di Lucera, importante e massiccia è la presenza degli Ordini religiosi. Si insediarono Francescani Conventuali, Osservanti e Riformati che abitarono i relativi conventi fino alla soppressione del XIX secolo. I frati minori fanno la loro apparizione in Puglia, in maniera itinerante e senza fissa dimora, nell’anno 1216. Solo con la Bolla del 28 febbraio 1301, emanata da papa Bonifacio VIII (Inter ceteros Ordines), i Francescani ebbero la facoltà di accettare e trasformare in luoghi di preghiera alcune case, donate dal re Carlo II d’Angiò. Il primo convento fondato a Lucera fu quello di S. Francesco, costruito grazie alle offerte dei fedeli oltre che al consenso degli Angioini.

La chiesa dei Frati Minori Conventuali deve la sua origine a Carlo II lo Zoppo che volle dedicarla a S. Francesco in ricordo di suo figlio monaco. Fu fondata a Nord del centro abitato in prossimità delle mura lungo la strada che conduce a San Severo.

L’ingresso della chiesa si trova su via dei Mille; il lato Sud costeggia la piazza dei Tribunali, mentre il lato Nord confina con via Martiri, quasi a ridosso delle mura. La chiesa è ad una sola navata, illuminata da lunghi finestroni, con la facciata animata dallo slanciato portale e dal rosone. L’armoniosa abside chiude la navata con costoloni che convergono nella chiave di volta. All’interno vi è un sarcofago in marmo, adibito ora a pergamo, raffigurante in bassorilievo l’immagine di un guerriero, forse Antonio Santo de Paglias, seguace del Cordova. In esso sono conservate le spoglie di Giovannella Falcone dei baroni Visciglieto, consorte proprio dello stesso Santo de Paglias. Al di sotto dell’altare maggiore, di moderna costruzione, sono conservate le spoglie del beato Francesco Antonio Fasani, frate conventuale, guardiano del convento nel 1711, eletto ministro provinciale da papa Clemente XI dal 1720 al 1723, buon predicatore e lettore di filosofia, che il 29 novembre del 1742 passò a miglior vita proprio nel convento di S. Francesco.

Vi sono tre dipinti ad olio che adornano l’interno della chiesa. Il primo, raffigurante “S. Agostino, S. Chiara e S. Tommaso”, risale al 1714 ed è attribuito a Girolamo Genatiempo. Il secondo, che rappresenta, “La Vergine con Bambino e S. Antonio”, è attribuito al Sanfelice. Il terzo dipinto, infine, raffigura la Vergine seduta alla destra di Gesù con alcuni angeli; esso è stato attribuito a Nicolò Carlone, fratello di Andrea Nicolò. In una cappella attaccata alla chiesa, adibita ora ad oratorio dell’Arciconfraternita della S. Croce, vi è una grande tela che raffigura “Il Calvario”, risalente al 1696, copia di un dipinto esistente nella chiesa di S. Agata a Roma.

Di fianco all’abside sorge il trecentesco convento, rimaneggiato più volte nel corso dei secoli. Negli anni 1720-1739 vennero eseguiti dei lavori di restauro nella chiesa e nel convento. Le capriate furono sostituite da un soffitto a cassettoni e vennero eretti otto altari laterali. Solo tra il 1940-43 i lavori di ristrutturazione restituirono alla chiesa di S. Francesco il suo originario aspetto. Il soffitto a cassettoni venne sostituito da nuove capriate, mentre gli altari laterali da otto furono ridotti a quattro. Attualmente l’abside della chiesa è in restauro.

In seguito al decreto di soppressione del 1809, il convento di San Francesco fu chiuso. Gli oggetti d’argento vennero inviati all’Intendente di Capitanata che provvide a depositarli presso il Banco di Napoli. Il convento fu prima adibito ad Archivio e Camera notarile, in seguito trasformato in carcere.

Dopo i Conventuali, giunsero in città gli Osservanti che vivevano, invece, in piccole dimore rinunciando ai privilegi apostolici. Perciò durante il secolo si profilò una spaccatura tra gli ordini francescani che si definì solo agli inizi del secolo successivo. Intanto i Frati Osservanti avevano in loro possesso già diversi conventi e nel 1407 fondarono quello del SS. Salvatore, detto anche S. Pasquale.

Il convento fu costruito per volere di P. Giovanni Vici da Stroncone, uomo dotto e ardente fautore della regola dell’Osservanza, il quale diede inizio alla costruzione di una rustica chiesetta sui ruderi di un antico edificio romano dedicato a Giunone Lacinia, nello stesso luogo in cui ai tempi dell’impero romano vi furono il foro, il comiziale e le terme non lontano.

Secondo antichi documenti di epoca angioina la chiesa preesisteva già dal 1273 e venne donata da Roberto II di Loretello, signore di Fiorentino, all’abbazia benedettina di S. Sofia di Benevento. Successivamente Stroncone fece restaurare la vecchia chiesetta e adattò ciò che restava dell’antica grancia benedettina per il convento francescano.

Al suo interno sull’altare fu posta una grande mensa di pietra proveniente da Fiorentino. Sotto l’altare maggiore della chiesa furono deposte in una tomba comune le spoglie di fra’ Giovanni da Stroncone, morto nel 1418 a Lucera, il cui corpo dopo cento anni fu riesumato e collocato in un’urna di pietra sotto lo stesso altare fino al 1683. Solo nel 1832 le sue spoglie vennero sistemate in un pilastro a sinistra della navata laterale, e nel 1970 nel pilastro a destra della navata laterale. Dopo la morte di fra’ Giovanni, il nuovo vicario provinciale fra’ Tommaso da Firenze, dopo un breve periodo di chiusura, continuò la costruzione del convento, riaperto solo nel 1441.

La chiesa, annessa al convento, è caratterizzata da un corpo longitudinale poco profondo, suddiviso in due navate separate da pilastri. Vi sono sei altari: il primo, in legno dorato, è dedicato a S. Diego; il secondo, in marmo, è dedicato a S. Pasquale, protettore della città; il terzo, in stucco, a S. Maria delle Grazie, voluto dalla famiglia Lombardi; il quarto, in stucco, è in onore della Vergine Addolorata, commissionato dal signor Giordano; il quinto, invece, in legno, è in ricordo di S. Antonio; il sesto, sempre in legno, è in onore di S. Francesco di Paola, ed entrambi furono voluti dal signor Nicastro, quest’ultimo è impreziosito da una tavola settecentesca, copia di un dipinto di scuola napoletana. La sagrestia è situata nella navata laterale. Nell’abside rettangolare è collocato un coro ligneo piuttosto semplice. Il convento sorge fuori le mura della città e lungo la via per S. Severo, ad Occidente del Colle Belvedere. È situato nelle vicinanze della cosidetta Reggia di Diomede, che, secondo la leggenda, qui si fermò e vi eresse la sua dimora.

La chiesa, che si affaccia sul viale della Libertà, domina il Belvedere e l’antistante villa immersa nel verde degli alberi, mentre il convento attiguo, ora in restauro, dà su via Lastaria. Dato che la vita del convento ebbe un nuovo impulso nel XVI secolo, nel 1510 si ampliò la chiesa; venne costruita la navata sinistra, ornata da dipinti ancora esistenti, fra cui la tavola raffigurante la “Pietà con la Madonna ai piedi di Gesù, S. Giovanni, S. Francesco e S. Antonio” eseguita nel 1515 dal frate Francesco di Torremaggiore dietro commissione di Marco da Moliterno.

Importante è anche la tela de “La Madonna delle Grazie”, risalente al 1565, opera di Carlo Tolentino, pittore meglio conosciuto come il Tartaglia.

Sulla parete di fondo, dietro l’altare maggiore, è collocato il seicentesco polittico di Pietro Marchesi, ricco di ornati e colonne dorate, raffigurante “l’Immacolata” ai piedi dell’antica Lucera e “La Trasfigurazione di Gesù” in un riquadro in alto, mentre ai lati vi sono quattro dipinti rappresentanti Santi Francescani.

L’intero complesso conventuale sorge sui ruderi di un antico edificio, probabilmente il tempio di Minerva, nell’omonimo casale del SS. Salvatore.

Gli Osservanti, detti anche Regularis observantia, dopo la bolla di papa Leone X del 29 maggio del 1517, rappresentarono una vera e propria riforma all’interno dell’Ordine Francescano. Propulsori del nuovo ordine furono: Giovanni da Stroncone, Francesco da Fabriano e S. Giovanni da Capestrano.

Nel XVI secolo si formarono nuove correnti all’interno dell’Ordine Francescano. Le più importanti furono quelle dei Cappuccini e dei Riformati, che auspicarono il ritorno ad una vita di maggiore austerità. Il 16 novembre del 1532 il papa Clemente VII rese nota la bolla In supremae militantis Ecclesiae, con la quale si consentiva ai Riformati di occupare conventi già appartenenti agli Osservanti. Questa scissione fu definitiva nel 1639 con la Bolla Iniuncti nobis del papa Urbano VIII. Questi Frati Riformati, detti anche della Stretta Osservanza, all’atto di occupare il convento del SS. Salvatore incontrarono l’ostilità degli Osservanti presenti nel convento da ormai un secolo. La conseguenza fu che i Riformati ne occuparono il convento con violenza, aiutati da alcuni contadini e signorotti locali. Nel 1625 lottarono con violenza e prepotenza per quindici giorni fino a scacciare definitivamente gli Osservanti che decisero così di lasciare questo luogo e fondare un nuovo convento fuori le mura della città lontano dal centro abitato. I Riformati nel XVII secolo fecero del convento del Salvatore un centro di studi di teologia; avevano un’ottima biblioteca, tra le migliori di Capitanata, la quale nella soppressione del 1811 passò al collegio reale di Lucera. Nel 1683 vi erano ben trenta frati. Nel dicembre del 1811, per ordine di Gioacchino Murat, il convento, dotato di trentuno stanze al piano superiore e di un chiostro dalle imponenti arcate in pietra con cisterna ed ampio giardino, fu soggetto alle Leggi della soppressione, per cui i Riformati furono mandati via. Caduto il regime murattiano, uno dei primi conventi ad essere riaperto nel 1816 fu proprio questo, chiuso definitivamente però nel 1863. Nel 1916 le condizioni del convento, già segnato dal tempo peggiorarono. I Francescani vi poterono tornare solo nel 1932. Esso fu adibito a lazzaretto e poi ad abitazione dei senzatetto; attualmente è inabitabile.

       

   

  

©2005 Barbara Di Simio

    


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