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ISOLA DEL GIGLIO, ROCCA PISANA, pag. 1

a cura di Fernando Giaffreda

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La Rocca Pisana. In basso, una veduta panoramica del capoluogo Giglio Castello: alla sommità del borgo, la Rocca.

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Isola del Giglio  Isola del Giglio  Mappa fisica dell'isola e degli itinerari podistici

 

Vecchia foto di Giglio Castello degli anni 50. Sulla Rocca Pisana era collocato un ripetitore Rai  Una torre del Castello ritratta in una vecchia cartolina  Mastio di una torre di cinta a Giglio Castello  Postazione di fuoco sulle mura del castello  Particolare delle mura di Giglio Castello rimaneggiate dai Medici per il fuoco di fila


       

 

      


Epoca: a partire dall'XI secolo.

Ubicazione: a 420 metri s.l.m. nell’isola del Giglio (GR), posto al culmine del suo capoluogo, Giglio Castello, comune isolano che comprende anche Giannutri. Durante le più terse giornate di tramontana, la posizione permette di controllare ad occhio nudo l’Argentario e tutto l’Arcipelago Toscano (parco regionale), Sardegna e Corsica comprese. Ai suoi piedi, Giglio Porto e Giglio Campese, località turistiche piuttosto stipate nel periodo estivo, entrambe munite di una torre d’avvistamento risalente ad epoche successive.

Stato di conservazione: non del tutto soddisfacente. Per quanto uno sbilenco cartello della SoprIntendenza pluriterritoriale ammonisca un prossimo termine dei pubblici lavori (restauro e ristrutturazione) sulla Rocca pisana, appare evidente lo status quo ex ante del castello. Un nastro di plastica biancorosso infatti, retto da un profilato di ferro, vieta l’ingresso all’altezza dell’originale gabbiotto militare di guardia. Il borgo medievale dentro la cinta muraria si mostra invece in accettabile aspetto, anche se le inevitabili modifiche moderniste, a carattere privato, lasciano intravedere soltanto alcuni degli aspetti originali.

Come arrivarci: da Porto Santo Stefano dell’Argentario (GR) a Giglio Porto in traghetto. La compagnia di navigazione “pubblica” Toremar e quella “privata” MareGiglio garantiscono un’ora di gradevole navigazione, con trasporto auto. I mezzi pubblici per giungere a Giglio Castello sono assicurati anche d’inverno. La ricezione alberghiera è buona e varia.

Come visitarlo: non essendo accessibile, la Rocca è osservabile solo all’esterno. Del fortilizio comunque si possono ammirare, con sufficiente soddisfazione, torrioni, porte, merlature e tutto ciò che una gradevole passeggiata a piedi, con vista mare, può riservare. La cinta muraria, che racchiude il borgo medievale lungo un perimetro su roccia rafforzato irregolarmente da dieci torri circolari e poligonali, riserva diverse impressioni urbanistiche e alcune fantasie per l’immaginazione. Per un eventuale viaggio con permanenza consultare anche:

www.primitaly.it/toscana/arcipelago/giglio.htm;
www.isolagiglio.com/notizie.htm;
www.gol.grosseto.it/puam/comuni/comune12.htm.

      

Cenni storici (isola e castello).

Già questo titolo “giglio”, che presta il genitivo nell’allocuzione nominale dell’isola, devia l’interessato dall’esatto percorso storico da conoscere. Di questo secondo avamposto dell’attuale Arcipelago Toscano si potrebbe infatti pensare che il nome riveli un iniziale attributo o un’originaria proprietà della Signoria di Firenze fin dal principio. In realtà, si deve attendere ancora l’anno “del Signore” (genitivo) 1558 perché il Granducato di Toscana governato da Cosimo I de’ Medici ne entri in possesso. È solo grazie a un normale contratto di vendita feudale, fra “signori” appunto (valore: 32.162 ducati napoletani), che la famiglia senese Piccolomini (la stessa cui apparteneva Papa Pio II, il “denominatore” di Pienza), passò in quell’anno l’isola a Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo. Ma già allora si trattava dell’“insula Gigi”, come la riportava l’annalista genovese Doria nelle sue pagine latine che registravano la decisiva battaglia navale della Meloria (1284) fra le due città marinare altotirreniche.

Qualsiasi fonte storiografica disponibile si riferisce sempre a un esclusivo appellativo latino dell’isola, forte del fatto che la prima prova scritta in suo riferimento deriva da Giulio Cesare, il quale la riportò nel passo 34° del Libro I del suo De bello civili.

 

[34] «Quo cum venisset, cognoscit missum a Pompeio Vibullium Rufum, quem paucis ante diebus Corfinio captum ipse dimiserat; profectum item Domitium ad occupandam Massiliam navibus actuariis septem, quas Igilii et in Cosano a privatis coactas servis, libertis, colonis suis compleverat; praemissos etiam legatos Massilienses domum, nobiles adulescentes, quos ab urbe discedens Pompeius erat adhortatus, ne nova Caesaris officia veterum suorum beneficiorum in eos memoriam expellerent. Quibus mandatis acceptis Massilienses portas Caesari clauserant; Albicos, barbaros homines, qui in eorum fide antiquitus erant montesque supra Massiliam incolebant, ad se vocaverant; frumentum ex finitimis regionibus atque ex omnibus castellis in urbem convexerant; armorum officinas in urbe instituerant; muros portas classem reficiebant».

 

[34] «Quando vi giunge, viene a sapere che Pompeo aveva mandato in Spagna Vibullio Rufo che egli, pochi giorni prima, aveva fatto prigioniero a Corfinio e poi lasciato andare; e che Domizio era parimenti partito per occupare Marsiglia con sette navi molto veloci che aveva sequestrato a cittadini privati nell'Isola del Giglio e nel territorio di Cosa, equipaggiate con servi, liberti e suoi contadini; che prima erano stati mandati a Marsiglia in qualità di ambasciatori dei giovani nobili marsigliesi che Pompeo, nel lasciare Roma, aveva esortato a non dimenticare gli antichi suoi benefici per quelli di recente ricevuti da Cesare. Accolto questo invito, i Marsigliesi avevano chiuso le porte a Cesare; avevano chiamato presso di loro gli Albici, gente barbara che fin dai tempi antichi era sotto la loro protezione e abitava le montagne sopra Marsiglia; avevano fatto venire grano in città dai paesi vicini e da tutti i castelli; avevano predisposto in città fabbriche di armi; riparavano le mura, le porte, la flotta».

 

Per ogni storiografo che fin qui si sia occupato dell’origine nominale dell’isola, l’ablativo Igilii del testo cesareo ha finito per autorizzarlo a offrire costantemente per buono e scontato un supposto termine obbligato della seconda declinazione latina: Igilium -i, poi sostituibile nel tempo con Gilium -i, donde, inevitabilmente, Giglio. Sempre secondo costui, il termine a sua volta deriverebbe dal greco Aegilion, che vuol dire capra - afferma. In realtà, e letteralmente, capra in greco è “αΐξ – αίγός”. Ora, che una denominazione romana di luogo derivi, in generale, dal greco non v’è dubbio, essendo molto frequente (e accettabile), nel mondo antico, la traslitterazione di molti termini dal greco al latino, tanto più che i Greci hanno effettivamente navigato e lasciato tracce in tutto il Mediterraneo. Ma che Aegilion significhi capra” non è vero, neanche se il termine venga tirato per la giacca del suo genitivo.

La questione non è peregrina, anzi, paradossalmente, è di lana caprina.

È vero che gli Elleni non vi hanno lasciato tracce artistiche rilevabili, ma conoscevano questo scoglio, e sicuramente lo usavano per come, dal punto di vista naturalistico, esso è ancor oggi: un’isola d’appoggio per la navigazione, un riparo, una tappa per altri lidi. Vi pascolavano allo stato brado numerose greggi di capre e gruppi di conigli selvatici, favoriti da particolari caratteristiche geomorfologiche: un atollo montuoso dalla forma ovale, anche in altezza, pervaso di macchia mediterranea a basso fusto, arduo e difficile per la vita quotidiana dell’uomo, tranne per quella di una variegata flora e fauna a carattere migratorio. Poche cale, e tutte esposte a facili venti o marosi.

Perciò, l’originario appellativo per quest’isola i Greci lo scelsero, come al solito, col loro particolarissimo e irripetibile modo artistico di far “risuonare”, nel termine, una particolare materia per come essa appare loro, “esteticamente”: Egida!

Statua raffigurante Atena con l'egida.

Αιγίς – ίδος è quella specie di corazza protettiva, in forma di mantelletto di pelle di capra, con al centro la testa della Gorgone, che nella mitologia greca era portata in battaglia da Atena, da Zeus e da altri dèi.

È l’egida l’esatto vocabolo greco che echeggia in Aegilion, per il fatto che la ‘delta’ translittera in ‘lambda’1. In latino perciò aegis – ǐdis (egida) si trasforma idiomaticamente in aegilis. Certo, nel lessema di questo scudo di pelle ovina “risuona” la capra, ma se è per questo anche nell’aggettivo “egeo”, che è il mare ellenico, risiede il segreto di riferirsi a un mare le cui coste e isole sono abitate generalmente da capre.

L’isola del Giglio perciò fu originariamente rappresentata dai Greci in questo termine per la sua forma naturale: appariva come lo scudo di Atena, il suo mantello caprino, quell’indumento bellico la cui forgia si ripeteva nelle evidenti caratteristiche morfologiche del luogo. I serpenti altro per essi non erano che (“apparivano” come) la forma estetica degli scogli e degli arbusti; e la testa della Gorgone era il puntone di roccia nuda alla sommità dell’isola, sul quale i pisani avrebbero edificato, quindici secoli più tardi, una rocca militare.

Ma andiamo per ordine. 

Sparuti e occasionali nuclei di cavatori etruschi certamente l’hanno frequentata, se non altro per sfruttare alcuni filoni minerari modesti, ma collegati, per la lavorazione, con i centri più importanti dell’Isola d’Elba e delle coste tuscie. Infatti quel popolo non ha lasciato al Giglio segni abitativi o funerari notevoli, ma solo pochi reperti archeologici, fra l’altro mischiati a quelli risalenti all’età del bronzo, tutti visibili nella raccolta del Museo civico di Grosseto. Zolfo e pirite in maggiore quantità non sono sufficienti a giustificare una colonizzazione etrusca in senso classico. Bisognerà attendere il XX secolo perché lo sfruttamento minerario di questi materiali abbia una sua dimensione economica.

Piuttosto, è il granito a giustificare la più consistente colonizzazione successiva.

In subentro agli etruschi, si verifica una prima colonizzazione agricola romana di tipo “semplice”, che si realizza grazie all’unica coltivazione possibile in quello scoglio, la vite. Fra il III e il II secolo a. C., la necessità di contenere la presenza navale cartaginese nel Tirreno costringe l’Urbe a insediare nell’isola una colonia di liberti sottoposti alla manumissione2, istituto-madre della successiva manomorta medievale3. Dopo la II Guerra punica, il Senatus della Repubblica (S.P.Q.R.) se la cava cedendo alla facoltosa famiglia dei Domizi Enobarbi l’agrum di Cosa e le acque interessate, compreso il Giglio e Giannutri, il tutto trattato come titolo di saldo dei debiti contratti dal populus per la guerra. I Domizi originariamente esercitavano nell’Urbe la professione di “argentarii”, cioè prestasoldi, banchieri dell’epoca. Il promontorio etrusco con capoluogo Cosa fu appellato nel contratto “Argentariorum Mons” – monte degli argentari (usurai). Di qui l’attuale toponimo.

I Domizi Enobarbi furono i primi proprietari “di diritto” del Giglio, e nell’aspetto oligarchico della vita politica di Roma ebbero un qualche ruolo decisivo. Lo stesso Nerone, eletto candidato al trono imperiale grazie all’adozione di Claudio, era nato dall’unione naturale fra Agrippina e Gneo Domizio Enobarbo nel I secolo a. C. Per contro, a quel “Domizio” Enobarbo citato nel De bello civili, poi console e governatore della Gallia Transalpina per nomina di Cesare, ma suo oppositore politico insieme a Pompeo, il Giglio serviva come testa di ponte per i commerci tirrenici fra Roma e il porto di Marsiglia4. Giusto alla proprietà degli Enobarbi sono dovuti gli attuali resti della “villa romana” di Giannutri, mentre di quella edificata a suo tempo in altrettanto stile e dimensione nei pressi del porto del Giglio, oggi restano pochissime tracce rinvenibili in Cala del Saraceno, nelle quali alcuni interessati al moderno progresso turistico individuano certe vasche d’epoca per l’allevamento delle murene (!?). 

Le attività produttive dell’isola argentaria et enobarba consistevano nell’estrazione ed esportazione a Roma dell’esclusivo granito gigliese, impiegato come elemento di fregio in certi palazzi dell’oligarchia consolare; nella produzione ed esportazione del laterizio locale5; nella produzione del vino in quantità modeste, o comunque normali o di autosufficienza in relazione ai pullulanti mercati romanici, posto infatti che il prodotto locale, pur avendo solo oggi conquistato la denominazione tipica di “Ansonaco del Giglio”, risultava, allora più di oggi, una bevanda bacchica certamente molto “difficile” e “riservata”.

Igilii cacumina silvosa miror”; “sive loci ingenio seu domini genio”. Sono due versi del poeta Rutilio Namaziano estratti dal poema De reditu suo che servono a descrivere e confermare l’ambiente originario dell’isola ancora all’inizio del V secolo d. C., quando Alarico, capo dei Goti dediti nel 410 al saccheggio dell’Urbe, costrinse pochi fortunati, fra cui Rutilio, a riparare al Giglio, e a ringraziare con la poesia per l’ospitalità di un luogo eppur così forestiero.

Non può mancare un’analisi della leggenda paleocristiana di S. Mamiliano, patrono dell’isola, morto presumibilmente a Montecristo il 15 settembre 460, il cui avambraccio è conservato a reliquia nella chiesa di Giglio Castello, fasciato da una bella teca d’argento che fa paio artistico, nella pieve del capoluogo, con un Cristo attribuito al Giambologna. A dimostrazione che storicamente ogni leggenda in sé non è che una rimozione ad secretum  di un significato sociale originario, questo avambraccio del santo pare proprio “rappresentare” (ri-presentare) l’istituto giuridico romano della manumissione, al quale si deve il primo significativo trasferimento colonizzatore di liberti nell’isola. Per colpa della politica anticattolica di Gianserico, questo Arcivescovo di Palermo in epoca vandala finì in esilio prima in Sardegna e poi a Montecristo, dove morì e fu sepolto. I suoi compagni d’esilio, per sottrarre il corpo alle incursioni pagane, ritualizzarono la “resurrezione” del cristiano trasferendolo da Montecristo al Giglio. Nel IX secolo, sotto papa Leone IV, il corpo fu trasportato a Civitavecchia, e da lì frazionato con distribuzioni diverse. Al Giglio dunque è spettato l’avambraccio sinistro. Questa leggenda patronale serve a dimostrare che il fenomeno altomedievale del monachesimo a carattere eremitico nell’isola è stato pressoché assente, e che al Giglio la manomissione del corpo sembra quasi un destino.

segue

 


NOTE

1 Per la consulenza di greco antico, si ringrazia la gentile professoressa Silvana Romualdi, docente al Liceo classico F. Cicognini di Prato.

2 Nel diritto classico, la manumissione è quel negozio giuridico mediante il quale, con formalità diverse secondo le epoche, il padrone proclamava libero un suo schiavo. Consisteva essenzialmente nella rinuncia da parte del padrone (dominus) alla potestà (manus) ch’egli aveva sullo schiavo, il quale acquistava la condizione di liberto ed era tenuto a particolari obblighi di assistenza e servizio nei confronti del suo ex-padrone.

3 In un significato fra i più particolari dell’ordinamento medievale, la manomorta consiste nella condizione dei servi della gleba e dei vassalli cui era vietato di disporre dei propri beni, sia personali che oggettivi: questi erano come morti per e nella mano del padrone.

4 Nel 1978 è stato rinvenuto nelle acque del Giglio Porto un relitto romano risalente al II secolo  d. C., le cui anfore hanno accertato con una certa sicurezza  rotte commerciali fin verso la Catalogna.

5 Nei recenti scavi per la costruzione della scuola elementare di Giglio Porto è stato rinvenuto un “timbro” granitico per anfore e oggetti vascolari, recante la scritta IGI e ILIV (Igilium).

  

  

  

©2003 Fernando Giaffreda. La prima foto riquadrata è tratta dal sito www.giglioinfo.it. I video (inseriti nel 2013) non sono stati realizzati dall'autore della scheda.

 


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