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Acquafredda, torre dell'Acquafredda

a cura di Giuseppe Tropea

scheda    cenni storici    descrizione unità topografica  bibliografia


 

La torre in località Acquafredda, presso Randazzo.

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Localizzazione di Randazzo


Epoca: XVI-XVII secolo.

Localizzazione: l’edificio sorge circa 6 km ad est di Randazzo, tra le contrade Acquafredda e S. Anastasia, non lontano dagli abitati di Mojo Alcantara e Passopisciaro.

  

Cenni storici

Definire i lineamenti storici di un edificio di piccole dimensioni all’interno del complesso avvicendarsi degli avvenimenti, che nei secoli hanno caratterizzato e coinvolto l’intero territorio di Randazzo e la Valle dell’Alcantara, risulta alquanto complesso. Si sconosce con esattezza la data di edificazione della torre, presumibilmente innalzata intorno al XVI/XVII sec., secondo quanto è possibile evincere dalla contemporanea feudalizzazione di buona parte dei territori demaniali dell’abitato di Randazzo. In particolare la limitrofa contrada S. Anastasia figura già alla fine del XV sec. come possesso dei monasteri di S. Filippo il Grande o di Fragalà e del S. Giorgio di Gesso (1); la contrada Acquafredda, oggi sita all’interno del territorio di Castiglione, rientra, presubilmente, all’interno dei beni feudali della famiglia Lanza, la quale dalla fine del XVI sec. detiene la baronia del vicino abitato di Mojo (2).

A tale proposito risulta particolarmente importante e significativa la descrizione, che dà il Filoteo degli Omodei di tali territori nel 1557. L’autore infatti ricorda che: «…è la Roccella un castelletto sopra fortissimo monte, del barone di casa Spatafora. E ricevendo questo fiume, lascia nel destro lato un’antica rocca chiamata la torre dell’Acqua fredda, di casa Lanza, dove si vedono alcune rovine…» (3). Il passo risulta fondamentale giacchè descrive l’esistenza di un edificio fortificato, possesso dei Lanza, proprio nella contrada Acquafredda. Non è dato comprendere cosa l’Omodei voglia intendere per “antica rocca” e “torre”, giacché il territorio distendendosi lungo la sponda meridionale dell’Alcantara non offre, allo stato attuale, una particolare conformazione rocciosa adatta per l’arroccamento di una struttura fortificata. Dunque è possibile che contrada Acquafredda un tempo coprisse un territorio più ampio, trovando il suo spazio più a sud, in direzione del piccolo abitato di Passopisciaro. Si ritiene, inoltre, improbabile che la torre dei Lanza, citata dall’Omodei possa identificarsi con l’attuale edificio turrito presente in contrada Acquafredda. Innanzi tutto la costruzione, pur presentando alcuni rimaneggiamenti, non versa in rovina, al contrario della Rocca dei Lanza, già diroccata nel XVI sec.; in secondo luogo, l’attuale torre dell’Acquafredda possiede semplicità costruttiva ed esigue dimensioni, all’interno delle quali non è possibile ricavare alcun spazio residenziale né confortevole, né permanente. Si tratta, in sostanza, di poco più di una garitta, alla quale si delegavano funzioni di controllo del territorio e certamente in diretto contatto visivo con la vera Rocca dei Lanza, edificata tra sconosciute balze laviche dell’Etna, non lontano dalla sponda meridionale dell’Alcantara. In realtà l’Omodei sembra quasi accennare ad un piano di fortificazione, ovviamente su scala medio piccola, dei beni territoriali feudali da parte dei Lanza. Lo storico infatti ricorda altri edifici turriti: «…Quindi dalla man sinistra (sei miglia tra Randazzo e Castiglione), tra l’Appennino e il Mongibello, vi è un territorio detto della Fede, feudo nominato il Moggio, dove oggi è una torre fondata a tempi nostri da D. Pietro Lanza, baron del Moggio…» (4). Si tratta dell’edificio residenziale principale della nobile famiglia, edificato al centro dell’abitato di Mojo e del quale oggi non rimane praticamente nulla. Il paese, comunque, sembra avere antica memoria: Edrisi, nel 1150, testimonia l’esistenza di uno castello o borgo fortificato (hisn), “somigliante ad un piccolo casale” e definendolo al-Mudd (Mojo) (5).

Agli inizi del XIV sec. all’interno del testo arabo Masalik al-Absar (6) tra le rocche di Sicilia si cita Mojo, che stranamente alla fine dello stesso secolo non esiste più né come località, né come feudo (7). Solo nel 1602 risorge come nuovo abitato, avente licentia populandi. Probabilmente proprio tra la fine del XVI e gli inizi del XVII sec., i Lanza, ottenuto paese e territorio limitrofo in feudo, fanno erigere la torre, al posto della quale oggi si trova l’edificio comunale. Ma le vere origini di Mojo sono un mistero ancora da sciogliere. Quello che oggi si può osservare è un abitato edificato poco oltre a sponda settentrionale dell’Alcantara, in territorio pianeggiante: non esiste alcun elemento, per il quale si possa definire il paese “rocca”. Evidentemente la ricostruzione portata avanti tra la fine del XVI e gli inizi del XVII sec. prevede uno spostamento dell’abitato, magari in luoghi più favorevoli alla vita. Allora dove un tempo sorgeva l’antica rocca di Mojo? Non si possiedono prove tangibili che possano dare valide risposte, però si consideri che poco a nord-est dell’attuale abitato esiste ancora un colle, il cui toponimo è “Monte Castelluccio”, sulla sommità del quale sembra sia possibile intravedere labili resti di una struttura fortifcata. Forse l’antico paese si trovava nelle colline poco a settentrione dell’attuale agglomerato urbano. Prosegue l’Omodei nella sua descrizione, segnalando un’altra torre, edificata sempre dai Lanza, e posta nei pressi della Cuba di Malvagna e del millenario Vulcanetto.

Presumibilente altre torri dovevano trovarsi sparse lungo il territorio di Mojo, tutte edificate in tempi vicini, già a partire dalla fine del XVI sec. Lo scopo di questi edifici doveva essere duplice: certamente di primaria importanza era il controllo continuo dei beni feudali; in secondo luogo tali edifici dovevano essere anche una dimostrazione di forza del potere baronale nei confronti degli abitanti del feudo e, più o meno direttamente, dei possedimenti demaniali dell’abitato di Randazzo. In effetti l’avanzare del latifondo e in generale l’appropriazione di territori un tempo semplicemente beni ecclesiastici o beni demaniali della città di Randazzo inizia nel XV sec. e prosegue inesorabile lungo i sec. XVI e XVII. Fra i feudi baronali, il più esteso risulta quello della “Foresta della Porta vecchia” (8), il quale per lungo tempo conserva una straordinaria compattezza territoriale e ai giorni nostri risulterebbe compreso tra i comuni di Bronte, Longi e Tortorici. Il feudo, in principio possesso di Matteo Palizzi e in seguito di Guglielmo Raimondo Moncada, si presenta composto da sette “marcati” e rimane indiviso fino al 1449, anno in cui le famiglie proprietarie dei Paternò e dei Santangelo procedono ad una spartizione. Quattro marcati, le contrade Triairi, Botti, Foresta Vecchia, Mangalaviti, tra Randazzo, Bronte e Longi, finiscono nelle mani dei Santangelo; i rimanenti tre, Cartolari, Barrilla, Acquasanta, insistenti su porzioni di territorio a nord di Randazzo, tra Longi e Tortorici, vanno ai Paternò, i quali finalmente li cederanno nel 1507 a Blasco Lanza, barone di Mojo. Dunque già agli inizi del XVI sec. avviene nei confronti di Randazzo un ideale accerchiamento dei suoi territori demaniali da parte della famiglia Lanza, la quale di anno in anno pare vantare sempre più estesi territori. In questo quadro storico, ove la terra risulta l’unico vero bene per il quale lottare accanitamente, la citta regia conserva possedimenti demaniali, che ad oriente confinano con Castiglione, i Lanza e i terreni di proprietà ecclesiastica: principalmente si tratta del territorio di Montelaguardia (9), oggi solo piccolo abitato, ma un tempo probabilmente vantava una superficie più estesa, confinante con Castiglione e col feudo ecclesiastico di S. Anastasia; un noccioleto tra la terra di Castiglione e contrada Ianazzo, quest’ultima limitrofa ad Acquafredda e S. Anastasia.

Descrizione unità architettonica

La torre di Acquafredda sorge su di un affiormento di roccia lavica lungo la sponda meridionale del fiume Alcantara, in un territorio compreso tra Castiglione e Randazzo. L’edificio è realizzato attraverso una muratura sommaria, composta da pietrame vario, generalmente di origine lavica, non sbozzato e legato insieme da una malta non molto tenace. Solo i cantonali si presentano leggermente rinforzati da alcuni conci di pietra lavica sommariamente squadrati. La struttura possiede una pianta quadrata leggermente irregolare e si divide in due piani: al pian terreno si osserva solo l’ingresso, rivolto a settentrione, largo poco più di m. 0,50, e caratterizzato da una vistosa strombatura interna. Si accede al primo piano per mezzo di una scala interna lignea, un tempo presumibilmente mobile, ai giorni nostri sostituita da una permanente. Questo secondo piano si distingue per la presenza di quattro ampie finestre quadrangolari, ciascuna delle quali rivolta verso uno dei punti cardinali: le finestre di meridione e occidente risultano murate. Inoltre si può osservare la presenza, poste ai lati dei finestroni, di alcune saettiere, che possiedono una strombatura non molto accentuata. Tali saettiere sono in realtà cieche, poiché il loro necessario sbocco esterno è stato del tutto ostruito, causa i pesanti rifacimenti esterni che nei secoli hanno afflitto la torre. La copertura della struttura è a doppio spiovente, composto da tegole disposte alla maniera “laconica”. Inoltre il tetto è arricchito da una merlatura a coda di rondine decorativa posta similmente ad acroteri: quattro merli sono angolari, due centrali. Inoltre essi si impiantano sulle tegole di copertura, elemento che farebbe pensare ad un’aggiunta successiva di questi elementi architettonici.

L’intero corpo di fabbrica pur possedendo unità edilizia, è, comunque, il frutto di rifacimenti e rimaneggiamenti, anche pesanti, attuati in epoche successive. La torre sembra, infatti, aver subito adattamenti nella funzionalità abitativa di volta in volta simili, ma non identici. Per prima cosa l’ingresso, composto da bei conci di pietra lavica, si presenta sorretto da un architrave basaltico e monolitico, poggiante a sua volta a sinistra su di un concio di pietra lavica avente verso l’interno una sagomatura ad arco di cerchio; a destra, in realtà doveva esservi la medesima soluzione architettonica, adesso perduta e semplicemente sostituita in malo modo da alcuni laterizi sovrapposti. Poco al di sopra dell’architrave si osserva un’ampia parte mancante della muratura, presumiblmente causata dall’asportazione di un oggetto, quale un tempo poteva essere il blasone della famiglia Lanza. Varcato l’angusto ingresso, si trova un unico vano quadrangolare del tutto privo di finestre o aperture per il passaggio della luce. Risalta solo la soluzione per la divisione dei due piani, operata per mezzo di travi e assi di legno che compongono i pavimento del piano superiore. Si tratta di una soluzione edilizia certamente recente, ma che potrebbe rispecchiare il sistema originale di divisione dei piani. Quale utilità potesse un tempo avere un vano del tutto chiuso, ove l’unico varco per la luce era la porta d’ingresso? Presumibilmente il pian terreno della torre dell’Acquafredda serviva per stipare derrate alimentari, quali cereali, ortaggi, prodotti della natura in genere, anche uva, visto che ad esempio sia il feudo S. Anastasia, quanto quello omonimo dell’Acquafredda vennero, tra XV e XVI sec. convertiti alla produzione vitivinicola.

Il piano superiore doveva svolgere rudimentali funzioni residenziali e di avvistamento. Esso rappresenta la parte della torre maggiormente rimaneggiata, giacché difficilmente in origine dovevano essere presenti quelle quattro finestre così ampie, certamente utili per poter tenere sotto controllo buona parte del feudo, ma anche inefficaci, anzi dannose nel fortuito caso di un assalto esterno. Le grandi aperture, arricchite da una cornice composta da conci ben squadrati di pietra lavica, vennero probabilmente praticate in seguito, quando le necessità abitative non furono più quelle per la difesa del territorio. Presumibilmente nel medesimo periodo in cui vennero ricavate le finestre, vennero ostruite anche le saettiere, forse non più utili. Le pareti interne di entrambi i piani risultano coperte in maniera uniforme da un intonachino grigiastro, risultato di rifacimento recente, che ha trasformato la torre prima in una sorta di magazzino temporaneo di attrezzi agricoli, in seguito, fino ai giorni nostri, in un rifugio temporaneo per i pastori della zona. L’intera superficie esterna dell’edificio presentava un tempo un rivestimento di colore anch’esso grigiastro, il cui progressivo ed inesorabile disfacimento lascia la nuda muratura della torre all’azione disgregatrice degli agenti atmosferici. In particolar modo il prospetto settentrionale presenta, non lontano dal cantonale di nord-est, una frattura, risultato o di un progressivo cedimento strutturale, o di un terremoto, evento non infrequenti nella zona. Anche la stessa solidità dell’edificio si basa più che nella tecnica edilizia e nello spessore della muratura, non oltre i 0,70/0,80 m., soprattutto nelle fondamenta praticate su di uno sperone di roccia lavica più che mai antico e solido. A tal proposito sorge anche il sospetto che un tempo vi potesse essere un tunnel che principiando alla base della rocca, potesse condurre direttamente all’interno del pian terreno della torre. Questa ipotesi non è verificabile, poiché il pavimento del piano terreno adesso è semplicemente il risultato di uno spesso strato di calce.

Descrizione unità topografica

Si è già accennato a due particolari, che questa sezione si promette di approfondire: l’orografia della zona e la presenza di altre torri simili a quella di contrada Acquafredda. Questa zona della valle dell’Alcantara (media valle) si caratterizza per alcune particolarità, che la distinguono rispetto alle sue porzioni limitrofe al mare (bassa valle) o ai Nebrodi (alta valle). I territori che si distendono a meridione del fiume sono il riultato di centinaia d’anni di lavori per cavare dalla dura e nera roccia vulcanica un terreno fertile atto a colture cerealicole e vitivinicole, oltre a frutteti, uliveti e pochi agrumeti. Si tratta di un territorio mediamente irregolare, ove ogni affioramento di roccia lavica rappresenta un ipotetico punto di osservazione. La torre di Acquafredda sfrutta tale peculiarità, che giustifica la sua limitata altezza, non oltre gli otto metri. Il territorio che si stende lungo la sponda settentrionale del fiume Alcantara, possiede caratteristiche decisamente diverse. Si tratta, infatti, di un terreno prevalentemente argilloso, dove il vigneto spesso cede il passo al frutteto e all’uliveto. Questi luoghi sono immediatamente a ridosso dei Peloritani meridionali, caratterizzati da rilievi di circa 1100/1200 m. s.l.m., adatti maggiormente alla pastorizia, e da zone boschive un tempo di gran lunga più estese.

L’Alcantara era ed è il vero spartiacque di due ambienti tangibilmente diversi, poiché un tempo le colate laviche, provenienti dai vulcanetti effimeri prodotti dall’attività magmatica dell’Etna, arrestavano la loro corsa contro il violento fluire delle acque del fiume, raramente valicandolo. Ma la memoria di un grande corso d’acqua in grado di arrestare un altrettanto fiume di fuoco oggi è praticamente scomparsa, giacchè l’alveo dell’Alcantara risulta particolarmente ristretto, causa pesanti attività agricole. Esse infatti hanno progressivamente rosicchiato le sponde per ottenere terreno coltivabile, la cui necessità d’acqua ha causato l’ulteriore prosciugamento del fiume in favore di pesanti attività irrigue. In tale maniera la maestosa Valle versa alla stregua di un gigante ferito, bisognoso di profonde cure, che ne risanino le piaghe ormai infette. Qualora questo monito possa sembrare un’esagerazione, giova osservare che il fiume, un tempo colmo d’acqua in ogni stagione, ha ormai assunto un carattere torrentizio. Tutto questo disfacimento ha origini recenti, meno di cinquant’anni. La ricchezza naturalistica della Valle va di pari passo con quella archeologica ed artistica. Acquafredda non è solo la contrada della torre, ma anche un sito archeologico che nei decenni passati ha restituito numerosi reperti di epoca classica, adesso esposti presso il museo Vagliasindi di Randazzo. Anche le limitrofe contrade S. Anastasia e Imbischi sono ricche di storia e ancora ai giorni nostri restituiscono i ruderi di edifici sacri risalenti ad epoca greco-bizantina.

La torre dell’Acquafredda non è isolata. La citata descrizione dell’Omodei lascia intendere l’esistenza di strutture turrite in altri luoghi della baronia Lanza. In effetti non molto distante dall’edificio oggetto di studio, ne sorge un altro, esattamente a est-nord-est. La costruzone risulta poco visibile perché inglobata in strutture più recenti. Questa torre presenta caratteristiche del tutto simili a quelle analizzate per l’Acquafredda, sebbene si presenti decisamente più alta, contando un piano in più. Per il resto, pianta, copertura e merlatura coincidono. Purtroppo per osservare un’altra struttura simile bisogna viaggiare molto attraverso la Valle, in direzione orientale, fino all’attuale abitato di Giardini Naxos. All’interno dell’area archeologica che contiene i resti dell’antica colonia greca di Naxos sorge un’altra torre, detta della Vignazza: essa presenta uguale pianta, uguale copertura, simile altezza e divisione dei piani (tre) sebbene sia assente la merlatura. La torre della Vignazza inoltre conserva integro l’ingresso, largo 0,50 m. circa e sorretto dal caratteristico architrave monolitico in pietra lavica. Purtroppo quest’ultima struttura, dopo svariati decenni di abbandono, è stata oggetto di pesanti restauri, che hanno del tutto nascosto la muratura, coperta sotto uno spesso intonaco grigiastro. è evidente che tali torri fossero il risultato di un’idea edilizia comune ed evidentemente di esigenze diffuse tanto nell’entroterra etneo, quanto lungo la costa. Dovevano svolgere una doppia funzione: di vedetta e di luogo ove presumibilmente stipare derrate alimentari. In effetti queste strutture non posseggono affatto caratteritiche simli alle contemporanee torri di Deputazione, la cui edificazione fu il risultato di un piano ben studiato, rivolto alla difesa delle coste siciliane.

Al fine di porre in atto un’opera tanto dispendiosa, vennero dalla Toscana due architetti, Camillo Camilliani  (10) e Tiburzio Spannocchi  (11). Il loro compito, di difficile attuazione, fu quello di una lunga ricognizione dei tre litorali dell’Isola, per scoprire luoghi adatti per edificare grandi torri di avvistamento. Esse avevano caratteristiche comuni: base scarpata, all’interno della quale vi stava solitamente una cisterna; primo piano a pianta quadrangolare e segnato da marcapiano; infine terrazza ove solitamente sostava un piccolo cannone. Le torri di Deputazione, infatti, funzionavano come veri e propri fortini, collegati fra loro, ma virtualmente indipendenti: avevano l’importante compito di difendere, anche a colpi di cannone, le coste dai frequenti sbarchi di pirati turchi Dunque caratteristiche diverse rispetto alle torri oggetto di studio. La differenza si spiega in base allo scopo per il quale vennero edificate. La torre dell’Acquafredda non doveva cannoneggiare nessuno, eventualmente avvertire i vicini abitanti delle campagne di possibili pericoli imminenti: incendi, briganti, eventuali pirati, tanto ardimentosi da spingersi cosi in profondità verso l’entroterra. E trattandosi di torri probabilmente private, desta interesse l’identità del progetto: ovunque si trovino edifici del genere, essi presentano sempre caratteristiche comuni. Ciò lascia incuriositi, poiché nel caso di torri private edificate lungo le coste dell’isola, questa identità di progetto non si riscontra. Sia il Camilliani, quanto lo Spannocchi descrivono torri baronali sempre diverse, una a pianta quadrangolare, un’altra a pianta circolare, tutte con dimensioni dissimili. Evidentemente le torri granaio edificate lungo l’Alcantara, nella loro identità strutturale rispondono a particolari esigenze, non ultime quelle prettamente legate alle attività rurali.

In ultima analisi si consideri il caso dell’abitato ionico-etneo di Giarre. L’insediamento dovrebbe sorgere intorno alla metà del XVI sec. come centro di raccolta delle derrate alimentari prodotte dalle attività agricole esistenti nella zona. Poco prima dei moti rivoluzionari per l’unità d’Italia, al centro del paese sorgeva una torre. Ai giorni nostri di tale struttura nulla rimane, perché devastata dalla furia popolare del 1848. Fortunatamente dell’edificio turrito esiste una piccola rappresentazione pittorica, operata dalla mano di un pittore acese del settecento: Tuccari. Certamente la pittura stilizza l’antico centro storico di Giarre, ma la torre viene rappresentata similmente a quella dell’Acquafredda o della Vignazza presso Giardini Naxos: si ipotizzano infatti i tre piani, si legge chiaramente la pianta quadrata, la copertura a doppio spiovente e la posizione delle finestre simile a quanto si può osservare nelle strutture ancora esistenti. Pur non avendo una testimonianza architettonica diretta, si può affermare che l’antica torre di Giarre era una torre granaio, del tipo ampiamente esposto in queste pagine. La sua presenza non stupisce, poiché la vocazione dell’abitato fin dalla sua nascita era proprio quella agricola. Si sconosce il numero di tali strutture esistenti o esistite nell’area etnea. Studiarne la presenza e la diffusione potrebbe realmente aiutare la comprensione delle attività economiche e in generale della società siciliana del XVI e XVII sec. Infine, riguardo all’edificazione di tali strutture, non si sottovaluti la possibile influenza della famiglia Lanza, dei cui effettivi possedimenti terrieri, certamente vasti, non possediamo una completa conoscenza.

 

Bibliografia

M. Amari, Biblioteca arabo sicula, 2 voll., 1880-1881; V. Amico, Dizionario topografico della Sicilia, tradotto e annotato da G. Di Marzo, 2 voll., Palermo 1855-56; C. Camilliani, Descrizione dell’isola di Sicilia cominciando dalla città di Palermo, seguendo il lito verso ponente, a cura di G. Di Marzo, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, s. II, vol. XXV, Palermo 1877; G.L. Barberi, I Capibrevi, a c. di Silvestri, 3 voll., Palermo 1879-1888; A.F. Omodei, Descrizione della Sicilia (1557), in G. Di Marzo, Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, vol. VI, ristampa Forni ed., Bologna 1974; T. Spannocchi, Marine del regno di Sicilia, a c. di R. Trovato, Catania 1993; D. Ventura, Randazzo e il suo territorio tra medioevo e prima età moderna, 1991.

       


NOTE

1 D. Ventura, Randazzo e il suo territorio tra medioevo e prima età moderna, 1991, p. 240.
2 D. Ventura 1991, p. 250.
3 A.F. Omodei, Descrizione della Sicilia (1557), in G. Di Marzo, Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, vol. VI, ristampa Forni ed., Bologna 1974, p. 51.
4 A.F. Omodei, op. cit., pp. 52-53.
5 M. Amari, BAS, vol. I, p. 116.
6  M. Amari, BAS, vol. I, p. 263.
7 G.L. Barberi, I Capibrevi, a c. di Silvestri, 3 voll., Palermo 1879-1888, p. 127.
8 D. Ventura 1991, p. 242.
9 D. Ventura 1991, pp. 240 e 245.
10 C. Camilliani, Descrizione dell’isola di Sicilia cominciando dalla città di Palermo, seguendo il lito verso ponente, a cura di G. Di Marzo, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, s. II, vol. XXV, Palermo 1877.
11 T. Spannocchi, Marine del regno di Sicilia, a c. di R. Trovato, Catania 1993.

   
  

©Copyright 2008 Giuseppe Tropea, testo e foto; pagina pubblicata nel sito medioevosicilia.tk, e qui ripresentata con il consenso dell'autore.

   


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