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             Si
            è altrove (1)
            scritto che la cultura celtica mantenne le proprie connotazioni e
            portò a compimento le proprie linee evolutive unicamente nelle
            Isole Britanniche. Ciò è senza dubbio vero per quanto riguarda buona parte
            dell'Irlanda e per la Scozia settentrionale, ma per l'area che oggi
            conosciamo come Inghilterra, la situazione fu radicalmente diversa
            e, per ragioni storiche che esamineremo, questa remota regione
            dell'Impero divenne uno dei più formidabili esempi di fusione di
            due culture completamente estranee, quella “civilizzata” romana
            e quella “barbarica” di stampo germanico, in una unione il cui
            risultato fu, quasi in una sorta di epitome di processi analoghi
            intercorrenti un po' in tutta Europa, ben maggiore delle sue parti
            componenti.
 Proprio come esempio di tali processi di amalgama storico-culturale
            è interessante ripercorrere, seppur brevemente, l'evolversi del
            processo di mescolamento che gettò le basi più profonde della
            civiltà britannica pre-normanna, a partire dall'invasione romana.
 
            Probabilmente
            l'invasione romana della Britannia fu storicamente l'evento più
            importante mai vissuto dall'isola, non tanto perché la presenza di
            Roma fu particolarmente rilevante dal punto di vista cronologico,
            etnico o dell'intensità d'insediamento, quanto perché essa
            influenzò indelebilmente il susseguente sviluppo  culturale
            delle popolazioni residenti da praticamente ogni punto di vista:
            lingua, sistema di pensiero, architettura urbanistica,
            amministrazione e religione si svilupparono, anche sotto altre
            dominazioni successive, sulla base del seme gettato da Roma nei 400
            anni del suo pur vacillante “imperium” albionico. Soprattutto,
            fu l'esempio della gloria di Roma che perdurò nell'animo britannico
            addirittura fino a tutto il periodo vittoriano (2). Prima della conquista romana, la Britannia era essenzialmente una
            mappa piuttosto disordinata di tribù celtiche che si erano
            sovrapposte a pre-esistenti popolazioni forse autoctone (anche se
            sulle loro origini sono state fatte le ipotesi più disparate, da
            agganci con la mitica Atlantide a legami con civiltà pre-minoiche),
            i cosiddetti “Blue Men”, di cui
            oggi sappiamo davvero pochissimo (3). Come tipico
            della cultura celta, queste tribù non riconoscevano alcun organismo
            superiore al clan di appartenenza e solo la presenza romana diede un
            vero senso di unità nazionale agli abitanti dell'isola.
  Eppure,
            nonostante gli esiti seguenti, le ragioni di base che portarono
            all'arrivo delle legioni imperiali sull'isola furono, come spesso
            accade, tutt'altro che autorevoli. Sostanzialmente, l'invasione
            della Britannia faceva comodo alle carriere politiche di due uomini:
            Giulio Cesare e Commio, re degli Atrebati. Nel 55 a.C., Cesare aveva appena vinto i Galli ed era alla ricerca
            di una scusa per non fare ritorno a Roma, il cui ambiente gli poteva
            essere quantomeno ostile, mentre Commio era appena stato spodestato
            da Cunobelino, re dei Catuvellani, e si era rifugiato in Gallia.
            L'incontro tra i due ebbe come conseguenza per il generale romano
            l'idea di creare una sorta di stato fantoccio sotto le ali
            dell'aquila, allora ancora repubblicana, guadagnandosi la gloria di
            una vittoria oltre il “grande oceano” e le ricchezze derivanti
            dal saccheggio di una terra che riteneva piena d'argento e di
            bottini.
 La sua prima spedizione, comunque, mal progettata e organizzata
            frettolosamente, non fu certo un grande successo: con sole due
            legioni, Cesare potè fare poco più che allontanarsi dal suo punto
            di sbarco a Deal e vincere una piccola battaglia che impressionò più
            il senato romano che le tribù britanne. Fu più fortunato l'anno
            seguente, quando, sbarcato di nuovo, questa volta con cinque
            legioni, riuscì a reinsediare Commio sul trono atrebatico, ma,
            ugualmente, ritornò in Gallia insoddisfatto e pressoché a mani
            vuote, lamentandosi in una lettera a Cicerone che, in fin dei conti,
            la Britannia non offriva né l'argento né il bottino sperato (4).
  L'avventurismo
            militare di Cesare, in ogni caso, fece da apripista al secondo
            grande tentativo di sfruttamento della Britannia, questa volta da
            parte dell'imperatore Claudio. Anche in questo caso, le ragioni
            dell'invasione avevano carattere strettamente personale: Claudio era
            da pochissimo diventato imperatore con un colpo di stato e, avendo
            bisogno di consolidare il proprio potere ammantandolo di prestigio
            militare, colse la palla al balzo quando Verica, successore di
            Commio, si rivolse a lui lamentandosi che il nuovo re dei
            Catuvellani Carataco gli aveva sottratto il trono. Così, nel 43 a.C., Claudio inviò quattro legioni nell'isola.
            Approdate nei pressi di Richborough, le legioni, al comando del
            giovane generale Vespasiano, si spinsero verso il fiume Medway, dove
            incontrarono la fiera resistenza delle tribù ivi stanziate, che,
            però, furono vinte soprattutto grazie all'impeto degli ausiliari
            gallo-celti aggregati alle legioni (ad ulteriore riprova
            dell'assoluta mancanza di senso di coesione e di gruppo etnico che
            caratte
  rizzò
            tutta la storia celtica). A questo punto, Vespasiano marciò verso
            ovest, schiacciando ogni possibile ostacolo alla sua avanzata e
            aprendo la strada all'arrivo dall'Italia di Claudio, che entrò in
            trionfo a Colchester, capitale catuvellana, vi fece costruire un
            tempio contenente una sua enorme statua bronzea, vi stabilì una
            fortezza militare e, dopo soli 16 giorni di permanenza, lasciò la
            Britannia al suo destino e alle truppe imperiali.
 Furono,
            comunque, necessari altri trent'anni per conquistare il resto
            dell'isola (con l'esclusione delle Highlands scozzesi, che non
            furono mai occupate) e i rimanenti 350 anni di occupazione per
            mantenerla all'interno dell'impero, contrastando la guerriglia
            locale, le frequenti invasioni di Piti e Scoti dal nord (contro le
            quali Adriano fece costruire il famoso Vallo che da lui prende nome
            e, successivamente, Antonino fece erigere il suo poco più a
            settentrione) e i costanti tentativi (poi riusciti) di sbarco di
            popolazioni germanico-scandinave (5). 
             Il
            sistema delle province romane si basava essenzialmente su due
            fattori: il culto imperiale e la raccolta delle tasse. Per il resto,
            Roma aveva ben poco interesse su come cittadini, alleati e popoli
            sottomessi vivessero. Di fatto, in Britannia, tra l'altro, di veri
            romani ne arrivarono ben pochi. I soldati delle legioni stanziali
            erano per lo più Batavi, Traci, Mauritani e Sarmati: dopo 25 anni
            di servizio “coloniale” veniva loro garantita la cittadinanza
            imperiale e un pezzo di terra da coltivare. Fu anche per questa
            ragione che la convivenza tra questi neo-romano-britanni e la
            popolazione locale fu, sostanzialmente, meno difficile di quanto
            spesso si immagini (anche se mai totalmente pacifica): la resistenza
            locale si concentrava sulle legioni ben più che su questi
            ex-legionari divenuti coloni di una terra dove, per la scarsa densità
            abitativa, sembrava esserci posto per tutti. Ad ogni buon conto, i
            neo-coloni svilupparono, come naturale, la tendenza ad edificare le
            proprie dimore nei pressi dei forti in cui avevano servito e fu
            essenzialmente per questo che le città sorsero soprattutto in zone
            militari come Colchester (da Colonia Castri, cioè “colonia
            dell'accampamento”) o Chester (da Castrum, cioè
            “accampamento”)(6). 
  Come
            si vivesse in questi nuovi villaggi è ancora oggi leggibile grazie
            alla scoperta nello scavo di Vindolanda, presso il Vallo Adriano, di
            tutta una serie di tavolette di corrispondenza redatte da
            ex-ufficiali ed ex-legionari della “Nona Batavica”e databili
            attorno al 95-115 d.C. Questi reperti ci parlano di una vita
            piuttosto solitaria, monotona e dura, con rapporti spesso non
            violenti, ma complicati con i celti (un soldato arriva addirittura a
            definirli spregiativamente “britanculi”, più o meno “piccoli
            tozzi britanni”).(7) Sostanzialmente, in ogni
            caso, la loro vita di “provinciali” non era così dissimile da
            quella di ogni ex coscritto dell'impero e di ogni contadino italico.
            A poco a poco, alcuni cominciarono ad arricchirsi e a ricostruire su
            suolo britannico le ville (in alcuni casi con bagni, piccole terme e
            magari una “mansio” per gli ospiti) che forse avevano visto in
            Italia, nella Narbonense o nelle città prefettizie del sud, come
            Londinium: è un processo che ha grande impulso soprattutto a
            partire dal III secolo d.C., un periodo in cui i contrasti con i
            celto-britanni sembrano essere completamente sopiti, anche grazie ad
            abilissime manovre di sincretismo religioso attuate dai prefetti
            locali, che erano riusciti a fondere il culto imperiale e della
            Triade Capitolina con il Pantheon celtico pre-esistente (8).
 L'unico grande
            problema di Roma in Britannia aveva avuto luogo già molti anni
            prima, attorno al 60 d.C., con la famosa “rivolta di Boudica”,
            un evento storico che è interessante analizzare, più che per la
            sua entità (davvero modesta nell'ottica imperiale), perché
            permette di capire meglio quali fossero i termini del dominio romano
            nelle province albioniche.In effetti, come praticamente ovunque all'interno dei suoi
            estesissimi confini, Roma controllava la provincia corrompendo le
            sue élite locali, a cui venivano date cariche pubbliche, potere e
            ricchezze. A loro volta, tali élite imparavano il latino, vivevano
            in ville di stile romano, arrivavano addirittura a romanizzare i
            propri nomi,
  Era
            un “do ut des” in cui la nobiltà britannica otteneva uffici e
            prebende in cambio dell'impegno a ridistribuire parte di tali
            benefici tra i suoi concittadini così da “romanizzarli”. Tra
            l'altro, un sistema di questo genere era utile anche
            all'imprenditorialità romana: i “nuovi ricchi” britanni
            spendevano insensatamente, gareggiando tra loro in “romanità” e
            molti banchieri latini (inaspettatamente tra loro troviamo anche
            Seneca) si arricchivano alle loro spalle, prestando denaro a tassi
            altissimi. In questo quadro, quando Prasutago, re degli Iceni, morì, lasciò
            in eredità all'imperatore (di cui era tributario) metà del suo
            regno, sperando che sua moglie Boudica avrebbe continuato a vivere
            negli agi gestendo l'altra metà. Sfortunatamente, l'imperatore del
            tempo, Nerone, non era tipo da dividere qualcosa con nessuno e il
            procuratore imperiale locale, Deciano Cato, sapendolo, provvide ad
            incamerare tutto il regno, incluse le ricchezze reali, prelevate da
            un manipolo di centurioni che risposero all'accenno di resistenza di
            Boudica frustandola e stuprando le sue figlie.
 Naturalmente gli Iceni, umiliati,
            si rivoltarono, seguiti da altre tribù dell'Anglia orientale con
            problemi simili, e puntarono direttamente su Colchester, mentre il
            governatore Svetonio Paullino era a Anglessey per sedare una piccola
            sollevazione di druidi con il grosso della legione. Difesa da soli
            200 uomini della Nona, la città venne rasa al suolo (seguita da
            Londra e Verolamio) e Deciano Cato dovette rifugiarsi in Gallia.
            All'accorrere delle truppe di Paullino, comunque, nonostante in
            seguito Tacito descriva la repressione della rivolta con toni epici,
            le truppe di Boudica vennero immediatamente sbaragliate: la regina
            si suicidò e Paullino provvide a sostituire Cato con il più
            morbido gallo romanizzato Classiciano.
 In fondo, dunque, anche questa rivolta non fu nulla di eroico, ma
            nacque essenzialmente dalla eccessiva “romanizzazione” dei
            costumi britannici e da calcoli politici che proprio da Roma erano
            passati in Britannia.(9)
  Una
            idea piuttosto comune è che la Britannia fosse per Roma una
            provincia di scarsa importanza e di nessun profitto. In realtà le
            cose non stanno esattamente così: indipendentemente dal fatto che,
            quando intorno al 360 Giuliano utilizzò gli approvvigionamenti
            britannici per sfamare la Germania, la provincia insulare non risultò
            poi così poco redditizia, di fatto fu proprio la sua perifericità
            (con le sue tre legioni stanziali) a renderla importante come
            terreno di prova per futuri grandi politici e imperatori. Così fu
            per Vespasiano, per Agricola (che, a detta di Tacito, non conquistò
            la Scozia solo perché fermato dagli ordini imperiali dell'invidioso
            Domiziano) (10), in parte per Adriano, per
            Settimio Severo e, soprattutto, per Costantino il Grande, la cui
            storia “britannica” è emblematica: non a caso, quando suo padre
            Costanzo Cloro morì a York, fu in Britannia che il nuovo imperatore
            fu acclamato e fu con le truppe britanniche che, scendendo in
            Italia, conquistò il potere (11).
 Ma la Britannia
            era anche molto lontana da Roma e difficile da difendere in un
            momento in cui tutto l'impero stava franando. Fu per questo che, quando nel 410
            d.C. le “civitates” britanniche inviarono una lettera
            all'imperatore Onorio chiedendogli aiuto contro le orde di Sassoni
            che stavano invadendo l'isola, questi rispose con una lunga missiva
            il cui senso era, in parole povere, “arrangiatevi”. I
            romano-britanni si erano sempre "arrangiati", ad esempio
            nel 259, contro il cosiddetto Impero gallico o nel 184 contro
            Carausio, ma questa volta il nemico era troppo forte e il rifiuto
            imperiale segnò la fine dell'influenza romana sull'isola e l'alba
            di un nuovo periodo storico (12). 
            
              
                
                  
                    ANGLO-SASSONI:
                      GUERRIERI FEROCI O COLONI PACIFICI? 
                   In
                  effetti, il termine “Anglo-Sassone” è relativamente
                  moderno e si riferisce a quei gruppi di coloni che,
                  provenienti dalla Sassonia e dalla penisola dell'Anglia
                  nell'odierno Schleswig-Holstein, si insediarono in Britannia,
                  progressivamente abbandonata dalle legioni romane, all'inizio
                  del V secolo. Non erano gli unici popoli di ceppo germanico
                  che si stavano muovendo verso l'isola: Iuti e Frisoni stavano
                  facendo la stessa cosa, ma Angli e Sassoni assunsero da subito
                  la supremazia e iniziarono una progressiva opera di erosione
                  della cultura romana presente, ad esempio sostituendo gli
                  edifici in pietra con le loro case in legno e utilizzando la
                  loro lingua (che divenne poi la base per il moderno inglese)
                  nell'amministrazione (portarono con sé anche la loro
                  religione, ma essa, dopo l'arrivo di Sant'Agostino nel 597
                  venne quasi immediatamente abbandonata), instaurando un
                  dominio che durò per più di 600 anni, fino all'invasione
                  normanna del 1066 (13).
 Spesso,
                  basandosi sulle tradizioni orali dei poemi epici celti e
                  sassoni (14), si ritiene che l'invasione
                  anglosassone sia stata terribilmente cruenta, ma le
                  testimonianze archeologiche ci parlano di un quadro molto più
                  pacifico. Sebbene i signori delle diverse aree lottassero
                  effettivamente per il controllo territoriale, a livello rurale
                  appare piuttosto chiaro che gli insediamenti sassoni si
                  allocarono in zone marginali nei pressi di precedenti
                  insediamenti romano-celtici e che i due gruppi impararono
                  molto presto a convivere senza grandi problemi. A livello
                  cittadino, in ogni caso, vi fu una decadenza, ma tale
                  decadenza era già iniziata ben prima della  lettera
                  di Onorio e dell'invasione sassone, verso la fine del IV
                  secolo, quando l'aristocrazia urbana, sia per evitare
                  responsabilità civiche che per risparmiare sulle folli spese
                  di manutenzione dei grandi palazzi pubblici, si era
                  gradualmente andata ruralizzando. D'altra parte, la zecca
                  imperiale aveva smesso di inviare sesterzi verso il 370 e, con
                  la mancanza di monete e la conseguente decadenza artigianale,
                  le città avevano sempre più perso la loro ragion d'essere.
                  Naturalmente, l'abbandono delle città fu un processo lento e
                  disomogeneo: in alcune città, soprattutto quelle costruite
                  attorno ad antiche abbazie (St. Albans, Lincoln, Londra), si
                  tentò di mantenere uno stile di vita romano lungo almeno
                  tutto il V secolo, ma in gran parte dei centri si provvedette
                  ad un largo riutilizzo delle aree amministrative per usi più
                  consoni allo stile di vita germanico (ad esempio, molte terme
                  divennero depositi di legname) (15).  In
                  definitiva, l'effetto più importante dell'invasione sassone
                  fu solo una grande paura iniziale da parte dei
                  britanno-romani, che si affrettarono a rioccupare e restaurare
                  antichi forti di Roma, temendo saccheggi e massacri che, con
                  tutta probabilità, non vi furono: praticamente nessuna area
                  mostra reperti archeologici relativi a incendi e devastazioni
                  e le prove effettuate sul DNA degli abitanti delle zone più
                  direttamente  occupate
                  dai Sassoni mostrano una tale mescolanza di elementi di
                  origine celtica e germanica da far pensare che la vita
                  quotidiana dei più continuò assolutamente immutata, mentre
                  solo la nobiltà lottò, semplicemente per mantenere i
                  propri privilegi . è da questa lotta che nacquero figure semi-mitologiche (ma
                  certamente con un fondo di realtà effettuale) come quella di
                  Artù (16): mentre gli Anglosassoni
                  occupavano il sud-est della Britannia, alcuni nobili
                  romanizzati tentarono di resistere e mantenere l' “ordo
                  romanus” nelle loro aree, ma il dominio di Roma era finito e
                  le loro vicende sono oggi talmente inestricabilmente
                  intrecciate alle leggende popolari e letterarie che lo storico
                  deve fermarsi.
 
                 
 
            
 
              (1)
              L.Sudbury, I
              Celti: padri d'Occidente, www.storiamedievale.net,
              febbraio 2008.(2) P. Salway, Roman
              Britain, Oxford Paperbacks, Oxford 2000, pp. 8-21.
 (3) J.Cannon, The
              Oxford Companion to British History, OUP, Oxford 2001, pp.
              28-37.
 (4) P. Salway, Roman
              Britain, citato, passim.
 (5) Ivi
              , pp. 284 ss.
 (6) J. Balck, A
              History of the British Isles, Palgrave Macmillan, Londra
              2003, pp. 126 ss.
 (7) A.K Bowman, Life
              and Letters on the Roman Frontier, British Museum Press,
              London 1998, p. 89.
 (8) R. Hutton, The
              Pagan Religions of the Ancient British Isles: Their Nature and
              Legacy, Wiley-Blackwell, Birmingham, 1993, pp. 311 ss.
 (9) G. Webster, Boudica:
              
              The British Revolt Against Rome AD 60,
              Routledge, Londra,
              2000, passim.
 (10)  P.C. Tacito, De
              vita et moribus Iulii Agricolae.
 (11) R. Michael, K.e O. Frey, The
              Complete Chronicle of the Emperors of Rome, Thalamus
              Publishing, N.Y. 2005, passim.
 (12) P. Salway, Roman
              Britain, citato, pp. 336 ss.
 (13)
              J.Campbell, E.John, P.Wormald, The
              Anglo-Saxons, Penguin, Londra 1991, passim.
 (14) In particolare il Beowulf.
 (15) B.Sykes, Saxons,
              Vikings, and Celts: The Genetic Roots of Britain and Ireland,
              Norton, Londra 2007, passim.
 (16) Anche se non è chiara la reale esistenza di
              un Arthur (anche se un certo Artorus pare essere realmente
              esistito) è confermato che popolazioni native celtiche si unirono
              al fine di arrestare l`espansione occidentale degli anglo-sassoni,
              cosa che in effetti si protrasse per quasi cento anni.
 
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