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                                è una riproposta, la mia, di un romanzo del
                                1962, riedito nel 2003,
                                scritto da una salentina d’adozione: Maria
                                Corti.
                                Tratta di un
                                argomento sempre vivo e presente nella memoria
                                dei luoghi e delle persone: l’assedio e la
                                presa di
                                Otranto del 1480. Mi è capitato più volte, in vacanza, di visitarne
                                la
                                Cattedrale
 e di rendere omaggio ai poveri resti dei Martiri conservati sul lato
                                destro dell’abside.
                                Nell’osservare quei teschi e quelle ossa ho sempre
                                tentato di immaginare le persone a cui
                                appartenevano, i loro pensieri, i loro affetti,
                                il loro quotidiano travaglio, in una parola, la
                                loro esistenza. Non immaginavo però che questo evento fosse stato
                                argomento di interesse da parte degli
                                scrittori… 
                                In questo romanzo la milanese Maria Corti fa quello che io
                                nel silenzio della Cattedrale ho sempre pensato:
                                dà nome e voce a chi non c’è più, calando tutto
                                nella realtà storica del tempo. 
                                Si tratta di una scrittrice non pugliese, ma che ha avuto
                                grande dimestichezza e familiarità con questa
                                regione (grazie al papà), assorbendone gli
                                umori, i colori, il modo di sentire, il
                                linguaggio. Ci sono espressioni colorite proprie del luogo; i
                                piccini,
                                per
                                indicare i bambini è una di queste, e ricorre
                                per tutto il romanzo. 
                                Non so quanto di
                                storia e quanto di leggenda ci sia in
                                questo libro, ma è come se quegli antichi resti
                                si reincarnassero, riacquistassero
                                spessore e fiato per raccontare e raccontarsi.
                                Una testimonianza di parola che trascende la dimensione
                                spazio-temporale, un’aria remota, eppure un
                                brulicare di vita.
                                Un susseguirsi di quadri di piccole e grandi esistenze; da
                                quella del pescatore Mastrocola, a quella del
                                capitano Zurlo, il castellano, dalla popolana
                                Idrusa, (il cui nome ricorre tanto nella
                                toponomastica di Otranto), a quella di Don
                                Felice Ayerbo d’Aragona (lo spagnolo,
                                comandante della guarnigione).
                                Eroi ed eroine piccoli e grandi, divisi soltanto dallo status sociale…
                                 
                                «Gli ordini furono
                                duri e diversi dalle idee nostre», dirà il pescatore Cola, subito dopo l’avvistamento
                                delle galee turche, segnando così il confine
                                tra chi è notabile e chi non lo è, tra chi dà
                                gli ordini e chi li riceve…
                                «Io fossi un re,
                                ecco, abolirei tutte le guerre»,
                                dirà la voce di uno dei tanti uomini di mare…
                                 
                                Omaggio, riverenza, rispetto, santificazione, eroificazione
                                degli ottocento martiri d’Otranto da parte
                                della Chiesa, ma anche punti di vista diversi
                                e diversificati: il discorso del neo arcivescovo
                                di Otranto dopo l’avvenuta, tardiva
                                liberazione da parte degli Spagnoli, e quello di
                                Don Ferrante d’Aragona che umanizza gli eroi;
                                un eroismo alla portata di tutti che però rende
                                questi umili pescatori indimenticabili. 
                                Sono cinque storie vissute dal di dentro ed il racconto in
                                prima persona conferisce a tutte un’immediata
                                concretezza.
                                Il linguaggio, semplice e ricercato, ricco di parole
                                desuete (v. coperse), di motti latini, di lemmi salentini, italianizzati
                                (vedi anche l’espressione buon vespro!
                                o buona sorte!) sono segni di una precisa
                                scelta  da
                                parte dell’autrice; non a caso è una
                                linguista, oltre che una letterata di chiara
                                fama. 
                                Reminiscenze verghiane de
                                I Malavoglia nelle scene di vita dei pescatori -protagonisti e
                                nelle descrizioni dei vicoli dell’antica città.
                                Ma se  in Verga
                                era incombente ed oppressivo il senso della
                                tragedia, qui appare, pur nella sua evidenza,
                                uno sfondo, uno scenario che non pregiudica lo
                                svolgersi dei piccoli-grandi eventi anche lieti.
                                C’è un’allegra vivacità, nonostante tutto; non manca
                                qualche momento tragicomico. Ricordo in
                                particolare una delle scene finali, quella del muezzin.
                                C’è dappertutto una solarità mediterranea che trascende
                                la tragicità degli eventi. 
                                Il finale dell’ultima storia è come un coperchio che
                                lascia intravedere il legame indissoluto ed
                                indissolubile tra l’allora
                                e l’oggi. «Solo i vivi
                                contano gli anni. Ed è mutato qualcosa?», si
                                chiede l’autrice. 
                                C’è lo sguardo affettuoso dell’artista della parola
                                nel presentarci questo mondo di pescatori;
                                «uomini antichi»,
                                li definisce.
                                A loro ti affezioni, come a tanti compagni di avventura e
                                da loro non vorresti più separarti. 
                                Non nascondo che,
                                pur
                                non vedendo l’ora di concludere questa
                                lettura, mi dispiaceva abbandonarne sia i
                                personaggi che la loro terra, il Salento. Sarà che sono pugliese, sarà che essa ci appare così
                                vivida e colorata nella sua ubertosa fisicità. 
                                Non me ne
                                vogliano gli specialisti, ma quale miglior sistema
                                per avvicinare i ragazzi alla storia locale?
                                Anzi, sarebbe bello se qualche cineasta si accorgesse di
                                questo piccolo e nascosto capolavoro... 
                                  
                                Giulia
                                Notarangelo 
                                
                  
                                     
                  
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