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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino



La Puglia tra i primi approdi del popolo che ha conosciuto il primo genocidio del XX secolo.

Il villaggio di Nor Arax in una foto del 1926.

   

Chi erano, chi sono gli Armeni? Pochi italiani, ed europei, ne sanno qualcosa. Malgrado che questo popolo anatolico sia stato vittima di uno dei più atroci genocidi della storia, tra il 1915 e il 1918: il governo ottomano dei «Giovani Turchi» ne trucidò un milione e mezzo. Fatte le debite proporzioni, sono forse ancor meno i baresi, e i pugliesi, consapevoli del fatto che una colonia armena di almeno cento persone ebbe un suo «villaggio» nel capoluogo regionale. 

Di certo, la loro persecuzione, in Anatolia e nel resto dell'Impero Ottomano, fu probabilmente il primo esempio in epoca moderna di sistematica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un genocidio che le autorità turche di allora, come di oggi, non hanno mai voluto riconoscere. Nacque non solo dall' ideologia, palesemente razzista, del sedicente Partito progressista dei Giovani Turchi, ma anche dalle mai risolte contrapposizioni religiose tra i mussulmani ottomani e curdi e la minoranza cristiana armena, la cui Chiesa nacque appena trecento anni dopo la crocifissione di Gesù Cristo (tanto che è stata festeggiata nel 2001 dal Papa, recatosi a Ierevan, capitale dell'attuale piccola Armenia indipendente).

Negli anni successivi al 1915 migliaia di Armeni fuggirono per cercare scampo. Misero radici più o meno solide anche in Italia; e la Puglia, per ovvie ragioni geografiche, fu uno dei primi approdi. Cosicché a Bari, nell'attuale via amendola, quartiere San Pasquale, lungo un vecchio muro di tufo, si apre un cancello. Da questo varco s'accede ad un vialetto che porta all'Istituto delle Suore Clarisse Francescane. Sulle colonne del cancello si legge, a destra, in caratteri latini, la scritta «Nor Arax», ripresa sulla colonna sinistra in caratteri dell'alfabeto armeno: significa «Nuovo Araxes», nome di un fiume che scorre tra Armenia, Turchia e Iran. C'è anche la data dell'inaugurazione: 1926. E infatti ai lati del vialetto s'intravedono, tra una fitta vegetazione, quattro delle sei costruzioni nelle quali quasi ottant'anni fa trovarono ospitalità gli Armeni «baresi». ancora oggi sono abitate dai alcuni loro discendenti, integratisi nella vita cittadina (sebbene che la maggior parte di loro, come quelli approdati nel resto d'Italia, dopo le leggi razziali mussoliniane cercò asilo in altri Paesi).

I rari documenti sugli Armeni di Bari sono conservati negli archivi dell'Istituto pugliese per la storia
dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea, diretto dal professor Vito Antonio Leuzzi. Sembra di rileggere le cronache del sbarco degli albanesi avvenuto a Bari nel 1991. Nel 1924 le prime navi stracolme di Armeni approdarono nel porto del capoluogo. Provenivano dai campi profughi greci di Atene e Salonicco, dove avevano trovato rifugio due anni prima, dopo essere fuggiti alle stragi di Smirne.

La loro accoglienza era stata organizzata dal poeta armeno Hrand Nazarianz, esule a Bari già dal 1913 perché in patria era stato condannato a morte dai turchi. a partire dal 1915 l'intellettuale era riuscito a sensibilizzare il governo italiano e quello delle altre potenze occidentali. I fondi necessari per realizzare il villaggio furono garantiti soprattutto dall'associazione nazionale degli interessi nel Mezzogiorno (ANIMI), fondata da Umberto Zanotti- Bianco, e dal Circolo filologico barese, diretto da Carlo Maranelli, geografo di origine napoletana.

In un primo momento i profughi furono collocati nel capannone vicino ad una fabbrica di tappeti, dove si mostrarono all'altezza della loro fama di tessitori. Nel 1926 il ministro Luzzato garantì loro sei padiglioni di tipo «Docher», posti su un terreno acquistato dall'ANIMI in via Capurso, poi diventata via Amendola. Nel 1927 l'Acquedotto pugliese donò una fontana garantendo l'acqua potabile. All'inaugurazione parteciparono tutte le massime autorità istituzionali ed ecclesiasaiche dell'epoca. Quella gente, di fede cristiano-ortodossa, dal punto di vista religioso faceva capo alla Chiesa Russa, costruita al rione Carrassi agli inizi del XX secolo con un contributo dello zar Nicola II.

Dagli Armeni, i pugliesi impararono l'arte di tessere i tappeti orientali, tanto che quelli prodotti a Bari furono acquistati da re Faruk, da Pio XI, dalla regina Elena e da diversi enti, come la Banca d'Italia e l'acquedotto. Nel Dopoguerra, su quella scia, nacquero anche scuole di tessitura in Calabria e ad Oria (Brindisi).

Oggi la storia dei profughi giunti a Bari è stata dimenticata. Come è stato dimenticato che ancor prima gli Armeni in Italia avevano già radici. Fin dal tempo dei Romani, fra gli Armeni e la Penisola vi erano stati numerosi rapporti, spesso di guerre ma non solo: Nerone invitò il re Tiridate I a recarsi a Roma nel 66 d.C. per incoronarlo solennemente nel Foro. «A Bari i primi Armeni - ha scritto Giorgio Otranto, professore di Storia del Cristianesimo antico nell’ateneo barese - erano arrivati durante la riconquista bizantina, negli ultimi decenni del X secolo; agli inizi del secolo successivo, un chierico armeno di nome Mosè aveva fatto costruire la chiesa di San Giorgio, ... nei pressi della Corte del Catapano. Presenze armene sono attestate per lo stesso periodo a Ceglie del Campo e, per il XIV secolo, a Taranto». Vi furono in quest'ultimo periodo intensi rapporti culturali e commerciali anche con Venezia, Livorno e Roma. E ancora oggi si possono trovare interessanti testimonianze dell'epoca: ad esempio, in Puglia, le chiese di S. Andrea de Armenis a Taranto e S. Georgius de Armenis a Bari.

Attualmente la diaspora armena in Italia è composta da poche migliaia di persone impegnate nei vari campi e che vivono soprattutto a Venezia, Padova, Milano e Roma. E a Bari? Pochissimi. Ci resta però la testimonianza di Zanotti-Bianco sulla vita a «Nor Arax»: «Donne e bimbe lavorano su grandi telai… Forse in questo silenzio si vive di cose morte che soverchiano il presente e si protendono feroci sull'avvenire».   

    

    

©2005 Marco Brando; articolo pubblicato su «Corriere della sera - Corriere del Mezzogiorno» del 22/10/2003.

      


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