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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino


 


Pci, raccolta del grano

Lega Contadini  Un comizio di Di Vittorio  Soprastante  Primo maggio 1950

        

Di Vittorio cantava, e per primo intuì l’importanza della musica e del canto collettivo organizzando nel suo Circolo Giovanile un primo coro. Cantando di notte per le strade deserte di Cerignola i giovani militanti si ponevano l’obiettivo di affascinare i loro coetanei e soprattutto di far colpo sulle ragazze, quasi sostituendo con i nuovi canti le vecchie serenate tradizionali. Dimostravano così che la militanza politica era anche vita di gruppo e conquista del diritto al divertimento e al tempo libero, manifestando, contemporaneamente, alla cittadinanza di estrazione borghese e benpensante la loro forza collettiva e la loro capacità provocatoria. I loro canti appartenevano principalmente alla tradizione anarchica e socialista: canti politici divulgati in tutta Italia dai libretti a stampa e dai fogli volanti circolanti già dai primi anni del ‘900 e diffusissimi a Cerignola. I testi più conosciuti erano quelli di Filippo Turati, Pietro Gori, Mario Rapisardi, Luigi Mercantini, Lorenzo Stecchetti, Ada Negri, Adolfo Gerani, Guido Podrecca e più tardi di Raffaele Offidani. Proprio i più stretti compagni di Di Vittorio infatti tenevano in grande considerazione la loro capacità musicale sviluppata negli anni e ci hanno permesso di ascoltare dalle loro voci canti che raramente ritroviamo nei repertori di musica popolare delle regioni meridionali d’Italia. Parliamo di Addio Lugano bella, l’Internazionale, l’Inno dei lavoratori, La guardia rossa; della ballata (su un’aria da cantastorie) scritta da Pietro Cini su Sante Caserio, l’anarchico che nel 1894 a Lione uccise il presidente della repubblica francese: «Il sedici di agosto / sul far della mattina / il boia avea disposto / l’orrenda ghigliottina / Mentre Caserio dormiva ancor / senza pensare al triste orror […]»; delle canzoni sul Primo Maggio, come questa, raccolta a San Severo, «Compagni su sorgiamo / sorgiamo uniti tutti in fitta schiera / che presto sventoliamo / al gran partito la rossa bandiera / Andiamo uniti di calle in calle / passiamo monti colline e valle // Sorgi e risorgi tu / il vero fiore della gioventù / la primavera bella di splendor / il Primo Maggio dei lavoratori […]», o l’altra, di Pietro Gori (sull’aria del Nabucco di Verdi), raccolta a San Nicandro Garganico, «Vieni o Maggio t’aspettan le genti / ti salutano i liberi cuori / dolce Pasqua dei lavoratori / che risplende alla luce del sol […]» .

 

Per molti anni negli studi di etnomusicologia italiani si è ritenuto che il Mezzogiorno fosse rimasto quasi impermeabile alla diffusione di questi canti sociali e politici di estrazione colta (nei testi e nelle melodie). E si è ritenuto, a torto, che se nelle regioni settentrionali d’Italia era avvenuto un intreccio e forme di contaminazione tra la cultura ufficiale (sia pure di opposizione) e le varie forme di culture popolari, al Sud invece le culture popolari fossero rimaste totalmente isolate nelle loro forme arcaiche e nella loro sostanziale autonomia linguistica e musicale. Molta ricerca sul campo ha espresso raccolte importantissime per l’Italia del Nord, mentre al Sud le ricerche effettuate fino agli anni ’70 hanno quasi sempre evidenziato (o cercato) quello che a torto si riteneva il canto popolare "autoctono", "etnico", "originale". Si finiva quindi spesso per non accorgersi o non riconoscere valore ai canti in lingua italiana (sia pure adattata e reinterpretata) o a quelli che, su melodie già conosciute a livello nazionale (di estrazione napoletana o di canti politici della parte avversa), costruivano testi più vicini alla propria condizione culturale e sociale.

 

Ma, bisogna anche sottolineare, che già nelle campagne del Tavoliere (e non solo), nei momenti dello sfruttamento più aspro, agli albori del secolo scorso, i braccianti cantavano al calar del sole strofette isolate, per lo più in sequenze libere e non organizzate in senso narrativo, che potrebbero essere definite canti sociali, sia pure nella loro funzione di canti eseguiti sul lavoro. Alcune di queste strofette erano già prime forme linguistiche di contrapposizione culturale al padrone, in cui l’ironia dei versi, e talvolta la violenza verbale espressa, era causa e contemporaneamente effetto della presa di coscienza, allora appena avviata. Al termine della giornata i braccianti di Cerignola cantavano: «U sol'o fatt' russ'/ u patroun' appenn'u muss' / curatele e curatloune / mann'a mmett'u calaroune / u sol'o calaite / appundangill' la sciurnate / u sol'o fatt' bianghe / u patrone vè sopr'a la banche"; "U sé che disse u pòdece alla furmèich [più volte] / che nou ce n'amm'a scej, ch'am'a scapelèjo». A questi versi, che quasi timidamente indicavano il limite invalicabile del tramonto per il lavoro avviato sin dall’alba (da sole a sole), altri stornelli si aggiungevano indicando addirittura la convenienza di scegliere, potendo, una o l’altra masseria in base alla paga e alle condizioni di lavoro migliori: «Chi vuo' venì a fatega’ vin'a Curnite / è aria fin'e non si cad' malat' / quande figliole venn' tutt' zite/ all'ulteme se ne vanne maritato // Aria aria de stu pagliare bell' / a fatega’ ch' stu patrun' ghè nu dann' / fatiga assai e poch' vol'spenn' / la ggend' com' nind' se ne vanno». È da notare che queste strofette venivano inserite in maniera casuale all’interno di lunghissime sequenze (che qui non proponiamo) che venivano cantate spesso per ore, quasi a voler mimetizzare i versi "contestativi" tra quelli apparentemente simili ma innocui. In alcuni casi la violenza verbale invece si faceva invettiva e promessa di vendetta e rivolta per quanto si era subito in precedenza: «Patrone te la lasse la cunzegn' / pigghj' i chigghiuni e ti li mett' 'n maine / m'ha’ fatt' mangè lu ppain' di li caine / m'ha’ fatt' veve l'acque du pantaino». In questo contesto anche i versi di Padrone mio, ripresi dalla tradizione orale e ormai famosissimi nella interpretazione cantata da Matteo Salvatore, nella quale sembrano intrisi di un senso di sottomissione e arrendevolezza, assumono forse una valenza simbolico-allegorica di tutt’altro segno, in queste varianti delle braccianti di Orsara di Puglia: «Padrone mij te voglie arricchì / cume nu cane voglie fatjà / M'e fatte veve l'acqua a llu geloun' / m'e fatt’ fa' la vit' cum'a nu cane / Patrone mij t' vurrie fa' capitano / al posto mio avessi capita' tu».

 

Ma è nei canti di rivolta e in quelli nati all’interno o a posteriori di sommosse popolari che il documento cantato orale assume il ruolo di documento storico, vera e propria "fotografia" o forse, meglio, "radiocronaca" di quanto avvenuto e di come è stato vissuto dai partecipanti agli avvenimenti. In questi canti gli anonimi autori perdono la leggerezza dell’ironia e dell’allegoria e passano a narrare, con nomi e cognomi, il capovolgimento avvenuto: le vittime diventano vendicatori, i vecchi oppressori fuggono dinanzi alla massa inferocita. Uno degli esempi più interessanti è la ballata che proponiamo, raccolta a Minervino Murge, che descrive una rivolta popolare di fine Ottocento per il pane, contro i fornai e i loro trucchi per far pagare sempre più questo alimento fondamentale per la sopravvivenza:

E lu jurne de la Madonne
Re uagnarde si scevene a ‘sconn’
E lu jurne de l’Angurnete
Menerveine s’è revultete
E curreite curreite uagneune
Sciamm’a jardi la Chemmeune
La Chemmeune avimm’jars’
Sciamm’a jard’a l’agend’ ‘le tass’
Mò ni sciamme sotte sotte
Sciamm’a jarde u Malignott’
Mò n’ascennimme da li Capeceine
Sciamm’a jarde allu muleine  
Mò ni sciammi chiazza chiazz’
Sciamm’a jard’e ‘Manuele Pricchiazz’  
E Debranne ch’abbasce a li funn’  
Sceve scappanne cume nu palumme
Uhe’ pigliammi la catarr’  
Sciamm’a jard’allu bazar  
Battiste Barlette tu aggiuste li peis’  
Ca se none tu sind’ acceise  
Jeij li peise no li vogghje aggiusta’  
Nu cheile de fareine l’avit’a paghèi
E Battiste aggiuste li peise  
Ca se none tu sind’ acceis’  
Non me ne cour’ de li zappatoure  
Tengh’ le suldate che li canneune
Ch’i fuceile e bajenette  
Sciamm’acceid’ a Battiste d’ Barlette  
E Battiste da’ u balcungeine  
Li menave li marangheine
Marangheine na li vulimm’  
Ascinn’abbasce ca t’accedeim’.  

       

Solo in pochissimi casi episodi del genere sono descritti da un autore identificabile, come in questo, rarissimo: il bracciante Giovanni Mascolo di San Nicandro Garganico compone e firma su un foglio volante dell’epoca (siamo nel 1909) il canto, sull’aria de La ciociara, che descrive lo scontro, quasi un’imboscata, avvenuto tra i socialisti e i loro avversari "gialloni" :

Signori avete inteso avete visto

Il 1° Maggio e la festa dei socialisti

E tutti quei vigliacchi dei gialloni

Anch’essi se ne son fatti padroni

Quest’anno a Sannicandro

A largo chiesa madre

È successo è successo

Una rivoluzione

Tra socialisti e gialloni

Sono venuti per insultarci

E noi l’abbiamo rotto la faccia

 

Mentre ci ritirevamo da montevergine

I gialloni ci aspettavano per insultarci

L’abbiamo veduti e non gli abbiamo dato retta

Eravamo ad invitar l’Avv. Fioritto

 

Sotto al suo palazzo, ci siamo fermati

Tutti quanti abbiamo gridati

Scendete scendete

Ti vogliamo nei libero cuori

 

A festeggiar un’ora con noi

Non appenna finito gridare

I gialloni abbiamo visto arrivare

 

Tutti sapete chi erano i caporioni

Michele Mascolo Giuseppe Titto e Tardiolo

Come arrivarono a noi socialisti

Gridarono lasciateci passare sangue di Cristo

 

Aprite le righe dobbiamo passare

Se non le aprite vi ammazziamo

O minchioni o minchioni

Voi forse non lo capite

 

Facciamo per abbattere il vostro partito

Siamo pretetti dai Signori

Non abbiamo paura delle prigioni

 

La rivoluzione fu alla sei di sera

Primo colpo si ruppe la bandiera

Appena l’hanno veduto a terra spezzata

I gialloni si son messi tutti a scappare

 

Tutti quelli che erano restati

Di rivoltella erano armati

I socialisti, i socialisti

Nessun erano armati

 

Fecero la rivoluzione colle bottigliate

Il guardia campestre Filiullo

Fece il guappo colla rivoltella

 

Signore sapete che avuto delle belle

Tombola Giuseppe Titto e Filicello

Piangevano e pregavano Gesù Cristo

Non ci date più ci facciamo socialisti

 

Siamo venuti per insultare

Tutti a noi ce li vogliono dare

Poveri noi, poveri noi

Malidetto i capi gialloni

Che ci hanno mandato alla rivoluzione

I nostri capi che ci hanno mandato

Dalla rivoluzione se ne sono scappato

 

Per i capi gialloni fu una bella grazia

Si chiudettero nella cantina di Orazio

La disgrazia fu del renente

Avette un colpo in testa per senza niente

 

Se non era per i gialloni

Non succedeva la rivoluzione

O gialloni o gialloni

I vostri capi che vi hanno imparato

Vi danno un bello insegnamento

Ammazzare i fratelli per senza niente.  

   

Cambiando totalmente periodo (arriviamo agli anni ’50 del ‘900) e territorio (siamo a San Severo) vediamo la stessa sequenza di "punizioni" e violenze, che già abbiamo viste descritte nel canto di Minervino, successive alla sconfitta del Fronte Popolare del ’48, in questo canto espresso nella forma del vecchio stornello bracciantile:

[…]

Alli ‘lezion’ du quarantott’

Nu sime jute tand’ fort’

E p’ la Vergine Mariì

E c’ha fr’chet’ la Democrazij

 

E magnatill’ sucatill’ stu limoun’

Tu lu sa’ ca te piec’

E ti hann’a fa ‘na mend’ capece

Che i comunist’ hann’a cumanda’

 

A lu pizz’ d’ la port’ de Fogg’

Amme scupert’ ‘na vita casin’

Nu amm’a ji ‘ngoul a mast’ Michel’ Rubbin’

Colla sua settema società

 

Amma ‘ngappeit’ ‘n’ata pecherucce

Amme pigghiete u maresciall’ Iannucc’

U ma tand’ ch’è stete bell’

U sime jut’a pigghià fine a lu macell’

 

Nu sime stete li perditour’

Amme caccete u senatour’

E duje vout’ e chi ‘ngann’ teu

E nnenn è sciute debbutet’

 

Annand’ a cumba’ Foschin’

E nu ‘m fatt’ ‘na bella fest’

Amme ‘ngappeit’a Salvatour’ Tembest’

Ind’u tavout’ l’amm’a p’cca’

 

Addrete Sanda Mariì

Amme menete a don Mattei Nijr’

E ‘a mugghiere chiagneve fort’

Non me lu cundannete a mort’

 

A lu pundoun’ de la stazioun’

hanne menete tanda mazzete

 

E Gennarin’ tu pecchè si rre’

I comunist’ vann’ menann’ mazzete

E chi ‘na mazz’ e chi nu bastoun’

hann’ menete a Laurioun’  

     

I fatti di San Severo del 23 marzo del 1950, con la rivolta popolare repressa sanguinosamente dalla celere scelbiana, furono pure all’origine di due canti, composti dalle donne arrestate e rinchiuse nel carcere di Lucera, che nei loro versi danno la loro versione dei fatti, totalmente travisati dagli organi d’informazione dell’epoca. Ne riportiamo uno:

Il ventitre di marzo

Successe ‘n’arruina pe’ ddu belle San Sevjire

Nnand’a la Cammera del lavoro

Vulevene eccide a li lavoratour’

 

U commessarie Fratelle

Ne pers’ li cerevelle andù ‘rriga’ li femenelle

Avevane deic’ come diceve jsse

Pe’ ‘rrista’ li comunist’

 

Alleghete è jut’a Rouma

Purtete i connutete de li povere carcirete

Ha pigghiete la parola

Cacciete four’ li lavoratour’

 

Ha pigghiete la parola

L’aveite misse jind’ pe’ pane e lavour’ .

  

Così come in quest’ultimo canto troviamo il dirigente del Pci Allegato prendere la parola in difesa dei lavoratori arrestati, altrettanto in molti altri canti, dal Subappennino al Gargano, sono citati, sugli opposti fronti politici, rappresentanti politici quali Fioritto, Mucci, Bonghi, Maitilasso, Zagariello, Iatta, Cotugno, fino ai più noti e recenti Scelba, De Gasperi, Togliatti e Di Vittorio. Ma un’altra caratteristica è costante nei canti sociali e politici, ed è la modificazione che avviene nello stesso canto, realizzata per adattarsi alle nuove situazioni presentatesi. Lo stesso canto varierà così nel testo o nella melodia, venendo a rappresentare in alcuni casi addirittura emblema di parti politiche avverse rispetto alla matrice creativa originaria. È il caso delle tantissime varianti di canti comunisti (Bandiera rossa) così come di quelli fascisti (Giovinezza, Faccetta nera). Ed ecco, sull’aria di Faccetta nera, la versione cerignolana con Di Vittorio protagonista vincente: «Con la falce e col martello / noi vinceremo questa guerra / con la nostra opinione / vogliamo far rivoluzione / con la nostra gloria / viva Giuseppe Di Vittorio / e abbasso Caradonn' // giovinezza giovinezza / il primo maggio di bellezza / il socialismo è la salvezza / della nostra libertà / e per Giuseppe Di Vittorio eia eia alalà». Così come nel canto che segue, diffuso in tutta la Capitanata , nato nel ventennio fascista utilizzando l’aria di Faccetta nera, ma cantato in strada nelle tante manifestazioni del secondo dopoguerra:

Bandiera rossa è un bel colore

E più la guardi e più ti commuove il cuore

È la bandiera della libertà

È la salvezza dell’umanità

 

O socialisti o pure i comunisti

Giustizia noi faremo agli assassini

La colpa è stata tutta di Mussolini

Che c’ha portato a questa povertà

 

È giunta l’ora della riscossa

Gridiamo sempr’evviva la bandiera rossa

È giunta l’ora della libertà

Distruggeremo la malvagità

 

Come Di Vagno e come Matteotti

Giustizia noi faremo agli assassini

La colpa è stata tutta di Mussolini

Che c’ha ridotto in questa povertà

 

C’avevano messo la musseruola

Non ci si poteva dir neppur una parola

È giunta l’ora della libertà

Distruggeremo la malvagità.

   

A Minervino invece così cantavano sull’aria di Bandiera rossa: «Mò ascennimme da li Capeceine / Alle fasciste l’im’a romb’ lli rreine // Ce tine la pen’o core s’ l’ha da fa’ passa’ / Evviva o comunism’ de la libertà // Ce tine la pen’o core s’ l’ha da fa’ passa’ / U vendicingh’ magge e jmm’a scì a vuta’».

Abbiamo, per sommi capi, tentato di rappresentare, con l’aiuto di alcuni documenti esemplari, la ricchezza del patrimonio popolare di tradizione orale di un territorio abbastanza ristretto e definibile come Puglia settentrionale, e di un suo particolare capitolo: il canto sociale e politico. Il materiale raccolto, essenzialmente nelle campagne di ricerca effettuate da chi scrive insieme a Paola Sobrero negli anni ’70, ha fatto emergere aspetti quasi del tutto sconosciuti della tradizione orale cantata di questa zona. Zona, è utile ricordarlo, spesso citata negli studi di etnomusicologia, e non solo, come la terra delle serenate garganiche e delle tarantelle carpinesi e che ha altrimenti espresso una varietà enorme di stili, di espressioni etnomusicali e soprattutto di "storie" cantate che hanno raccontato il nostro territorio e i suoi protagonisti, trasmettendo e veicolando anche desideri, voglia di riscatto e dignità, espressi nei canti che arrivavano dall’altra Italia, dagli altri protagonisti di storie molto simili alla nostra.

   


Le registrazioni originali sono state effettuate da Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero (a Cerignola anche da Alberto Vasciaveo e Franco Coggiola) dal 1973 al 1978. I nastri magnetici originali (e in copia digitalizzati su cd) sono conservati presso l’Archivio Rinaldi, Foggia. I canti di Cerignola sono riportati (anche in audio nei cd allegati al testo) in GIOVANNI RINALDI - PAOLA SOBRERO, La memoria che resta. Vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia, Edizioni Aramirè, Lecce 2004. Vedi anche SERGIO D’AMARO, Canti del Tavoliere, Schena, Fasano 2003. Per un panorama, quasi esaustivo, sul canto sociale in Italia vedi CESARE BERMANI, "Guerra guerra ai palazzi e alle chiese…". Saggi sul canto sociale, Odradek, Roma 2003.  

FONTI

A Cerignola: Giuseppe Angione (n. 1895), Alfredo Casucci (n. 1896), Michele Balducci (n. 1895), Giuseppe Murgolo (n. 1923), Emanuele Monaco (n. 1926), Vincenzo Debono (n. 1914), Angelo Debono (n. 1910); Ripalta Buonomo (n. 1906), Anna Di Modugno (n. 1927). 
A Orsara di Puglia: Antonia Del Priore (n. 1936), Maria Ventrudo (n. 1905). 
A Minervino Murge: Natale Orecchia (n. 1927), Grazia Balice (n. 1924).
A San Nicandro Garganico: Antonio Gravina (n. 1909).
A San Severo: Soccorsa Mollica Foschini (n. 1900), Teresa Foschini (n. 1929). 
A San Marco La Catola: Giuseppina Mattia (n. 1896). 
A San Marco in Lamis: Caterina Schiena.

        

   

©2006 Giovanni Rinaldi. Articolo pubblicato a stampa in «SUDEST Quaderni», n. 1, novembre 2004.

   


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