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MEDIOEVO ERETICALE |
a cura di Andrea Moneti |
Nella
seconda metà del XII secolo la Chiesa di Roma era coinvolta nella contesa che
la vedeva in contrasto con l’Impero per salvaguardare la propria autonomia.
Questa situazione, in qualche modo, allargò le maglie dell’ortodossia e,
assieme al risveglio economico e sociale al
quale si assisteva un po’ ovunque in
Europa, in particolar modo nell’Italia e nel Mezzogiorno francese, fu uno
degli elementi che le impedirono di
opporsi efficacemente contro i nuovi movimenti religiosi dissidenti. Esaurita la
spinta riformatrice dei vari ordini monastici, sostenuti ampiamente da Gregorio
VII e dai papi successivi, anche per i cambiamenti socio-economici che erano
avvenuti nel corso dei secoli XI-XII, i laici richiedono uno spazio e
partecipazione sempre maggiore, sostituendo progressivamente all’ideale
monastico quello della predicazione, intesa come imitazione della vita
apostolica, esaltando in particolare la povertà.
Con
lo sviluppo delle città e l’emergere dei ceti urbani, nascono nuove figure,
quelle del cittadino, dell’intellettuale e del mercante, e non sono più
sufficienti gli ordini in cui era ripartita la società cristiana: oratores,
bellatores e laboratores. Questo risveglio, e non poteva essere
altrimenti, coinvolge anche la vita
religiosa. I laici, attratti dagli ideali di coerenza morale e di ritorno alla
purezza evangelica, cominciano a interpretare letteralmente le Sacre Scritture,
in particolare il Vangelo. Non è, quindi, più soltanto il monaco, nel chiuso
della sua cella, a vivere in “perfezione”, ma chiunque può vivere alla
“maniera” degli apostoli, a prescindere dalla sua collocazione sociale.
Questo evangelismo letterale scardina i presupposti sociali propri del mondo
clericale perché, di fatto, ammette che la Chiesa non sia l’unico legittimo
intermediario tra Dio e gli uomini. Anche la scelta pauperistica,
imprescindibile conseguenza dell’ideale evangelico, assume il sapore di una
critica, se non di un rifiuto, della gerarchia ecclesiastica e dell’egemonia
sociale e elitaria degli ordini monastici. Questi due aspetti sono compresenti
nelle esperienze ereticali, per molti versi similari e coincidenti, dei due
movimenti che andremo a approfondire: gli Umiliati e i Valdesi.
Nel vivace contesto spirituale sviluppatosi
nei secoli XII e XIII e per la diffusa necessità di rinnovamento religioso per
un ritorno al cristianesimo delle origini, presero corpo molteplici
sperimentazioni di nuovi modelli religiosi. Tra questi si inserì anche il
movimento degli umiliati, che comparve sulla scena della società medievale,
insieme o poco prima dei Valdesi, a Milano e in molte altre città lombarde
intorno alla metà del XII secolo. Questi erano gruppi di laici, uomini e donne,
in gran parte tessitori e lavoratori della lana, che vivevano spontaneamente in
comunità organizzate, praticando la penitenza e la castità e prestando aiuto
ai poveri. Il loro ideale era coniugare la vita laica e quella religiosa e
affiancare il clero nelle mansioni di mediazione tra Dio e i fedeli. Uno dei
propositi principali del movimento era proprio l’apostolato per la difesa
della Chiesa e per il recupero di coloro che si sono allontanati dalla fede
cattolica (in particolare catari e arnaldisti).
Le loro comunità erano organizzate come un
cenobio monastico e vivevano nella povertà evangelica, come Cristo. Le
giornate erano, infatti, divise e regolate attraverso la preghiera e il lavoro.
Si realizzava, in questo modo, un’organizzazione, se pur secolare e senza
rinunciare alla famiglia, di tipo monastico impostata su norme di stampo
benedettino (traducendo, in pratica e in forma laica il famoso ora et
labora). Condividendo una comune aspirazione a vivere alla lettera gli
insegnamenti evangelici, come pauperes, tra gli adepti si stabiliva un
forte legame di solidarietà e si impegnavano attivamente nella lotta tra il
Bene e il Male. Era assente quindi una qualsiasi forma di contestazione o
contrapposizione alla gerarchia ecclesiastica. Il cenobio degli umiliati non era
un pretesto per allontanarsi dal mondo, ma per un’elevazione spirituale. E la
scelta di condurre una vita evangelica e pauperistica si traduceva in realtà
con l’impegno nel lavoro artigianale non solo per la propria sussistenza, ma
per destinare il surplus ai poveri. Il lavoro, suddiviso secondo un’oculata
spartizione dei ruoli all’interno della comunità, era un’opera collettiva
di cui ciascuno poteva godere in egual misura e il cenobio era la bottega dove
si lavoravano i panni e le lane (nulla di elitario, quindi, a differenza del
cenobitismo monastico dove il “labora” aveva finito per coincidere
con il solo scriptorium). Questo permise loro di penetrare in aree in cui
già esisteva un’attività tessile fiorente e dinamiche economiche in
evoluzione e dove, ormai, era un dato di fatto la monetizzazione del lavoro. Gli
umiliati riuscirono in questo modo a mantenere uno stretto contatto tra le
proprie aspirazioni spirituali e la quotidianità, rendendo possibile la
partecipazione religiosa anche ai sine litteris.
L’importanza data al lavoro e
all’elemosina non ci deve, comunque, indurre a credere che gli aderenti al
movimento degli umiliati appartenessero ai ceti più umili della società
medievale del tempo. Probabilmente questo ha avuto origine da un sentimento e
un malessere di tipo religioso, presenti tra i salariati e i mercanti del
settore
tessile, e da questi, attraverso una rete di relazioni essenzialmente
commerciali, deve essere stato poi trasmesso anche a laici e a uomini di Chiesa
influenti. Le cronache narrano, infatti, di un’origine signorile di alcuni
dei fondatori, descritti come signori nobili (milites) e ricchi, che
spontaneamente avevano deciso di abbandonare i loro beni per servire umilmente
Dio e interpretare in maniera letterale il Nuovo Testamento. Forse anche per
questo la Chiesa romana aveva tenuto un atteggiamento più prudente nei loro
confronti rispetto ad altri movimenti religiosi dichiarati ereticali. La
stessa revoca della condanna per eterodossia era stata possibile anche per le
relazioni del movimento con le élites romane e ecclesiastiche, e non solo
(anche Iacopo di Vitry nel suo elogio, alcuni anni dopo il reintegro in seno
alla Chiesa romana, presentava gli Umiliati come laici e chierici letterati).
In questo modo confluirono nei conventicola degli umiliati ricchi
cittadini, chierici e artigiani, lavoratori, ecc.
Pur rimanendo nei binari dell’ortodossia, fu
il carattere laico del movimento, di origine secolare, e la sua pretesa di
predicare, senza aver ottenuto un ufficiale mandato della Chiesa e senza che la sua regola di vita fosse stata accolta dalla stessa curia romana, il vero
aspetto sgradito alla Chiesa. Per questo, nel 1178, Alessandro III approvò il propositum
vitae degli umiliati, ma proibì loro ogni forma di predicazione. Il loro
impegno antiereticale, di fatto, tendeva a sottrarre al clero la “cura delle
anime”, o comunque a creare una sorta di competizione religiosa. Questo causò
non pochi risentimenti tra chi aveva come obiettivo condurre una vita pienamente
ortodossa. E poiché molti degli appartenenti al movimento non rispettarono il
divieto papale e continuarono nel loro proselitismo, papa Lucio III, nel 1184,
nel concilio di Verona, promulgò la decretale Ad abolendam in cui
venivano condannati d’eresia gli umiliati, senza distinzioni di sorta. Questo,
però, non impedisce alle varie “case”, o comunità, di umiliati di
continuare la loro attività di predicazione e apostolato in Lombardia e nel
Piemonte, spesso, appoggiate dal clero locale. Nel 1198-99 il movimento inviò
dei delegati al papa Innocenzo III, per rimettere in discussione la Ad
abolendam. Il pontefice usò con gli umiliati la stessa cautela che impiegò
con i valdesi e Francesco
d'Assisi e la sua risposta si fece attendere.
Senza rinnegare l’operato dei suoi predecessori e depauperare la Chiesa delle sue prerogative, Innocenzo III emise una serie di bolle per organizzare gli umiliati in tre ordini di cui il primo, in ordine gerarchico, era costituito da soli chierici, il secondo da laici d’ambo i sessi non sposati e organizzati in comunità secondo precise regole stile benedettine, e il terzo da laici che continuavano a condurre una vita familiare ai quali riconosceva solo un “proposito”, o anelito, di vita evangelica, senza una vera e propria regola. Concesse agli umiliati anche la facoltà di predicare, ma perché tale concessione non apparisse come rinuncia ad una prerogativa del clero, ne definì chiaramente i limiti: «Sarà vostra abitudine che ogni domenica vi raduniate pèr ascoltare la parola di Dio in un luogo adatto, dove uno o più fratelli di provata fede e di sperimentata religione. .. .con l'autorizzazione del vescovo diocesano propongano una parola di Dio, ammonendoli e invitandoli a costumi onesti, in modo tale che non parlino degli articoli di fede e dei sacramenti della Chiesa».
La
predicazione era ammessa, quindi, ma solo nell’ambito della comunità
umiliata, su temi non di carattere teologico e subordinata all’assenso del
vescovo locale. Così facendo, Innocenzo III riuscì a recuperare il movimento,
vigilando sul suo operato e definendo i confini entro i quali era lecita la
predicazione. Normalizzati e istituzionalizzati in questi tre ordini, gli
umiliati continuarono a sussistere per tutto il XIII secolo, ma lentamente il
loro movimento venne assorbito nel clero (alla fine del ‘200, i primi due
ordini si distaccarono dal terzo, il quale, verso la metà del ‘300, cessò di
esistere).
Valdesio di Lione e il
movimento valdese
Verso la metà degli anni settanta del XII
secolo, in contemporanea agli umiliati, Valdesio o Valdo di Lione (per lungo
tempo ed erroneamente chiamato Pietro Valdo) inaugurò un lungo percorso
religioso che in molti seguiranno con alterne fortune (il movimento valdese è
l’unico gruppo religioso rimasto in vita dal basso Medioevo fino ad oggi).
Di lui e delle sue origini si sa ben poco. Le fonti sono concordi a
presentarcelo come un ricco mercante di Lione che, animato dal desiderio di
conoscere le Sacre Scritture, senza tuttavia conoscere il latino, si fece
tradurre da due sacerdoti i Vangeli, e alcune parti della Bibbia, in volgare.
Leggendo i Vangeli, Valdo fu colpito dal passaggio della famosa predica di Gesù
al giovane ricco: «Va', vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi
vieni e seguimi» (Matteo, 19, 21). Dopo una lunga meditazione, Valdesio
decise, nel 1176, di abbandonare la moglie e di donare tutti i suoi averi, parte
al monastero di Fontevrault, dove fece accogliere anche le sue due figlie
minori, e parte in elemosina ai poveri, per perseguire la perfezione
cristiana. Si circondò, quindi, di alcuni compagni, con i quali, fatto voto
di povertà, iniziò la sua nuova vita di predicatore itinerante, esortando al
distacco dai beni di questo mondo vestito solo con un umile saio.
La sua fu una conversione non rara tra i
burgenses e cives, più o meno ricchi, contemporanei; non mancano, infatti,
esempi di uomini benestanti che a un certo punto della loro esistenza hanno
deciso di spogliarsi dei beni, per donarli a poveri e chiese, e cambiare vita.
Ma la peculiarità della conversione del lionese non riguardava la spogliazione
di beni, bensì la finalità di quella decisione, annunciare, cioè, la Parola
di Cristo con efficacia. Questo perché chi era tenuto a farlo, ovvero le
gerarchie ecclesiastiche, erano mute e corrotte, inadatte a contrastare
adeguatamente la diffusione ereticale che si allargava nella Francia meridionale
(in particolare quella dei catari). Valdesio e compagni, che cominciarono a
chiamarsi i Poveri di Lione, si recarono a Roma per ottenere l’approvazione
ecclesiastica in occasione del III concilio lateranense del 1179, voluto da
papa Alessandro III per celebrare la ritrovata pace e unità con
Federico
Barbarossa. In un primo momento sembra che Alessandro III dimostrò comprensione
e apprezzamento per i propositi di vita povera ed evangelica dei fratres
valdensis, senza, però, riconoscere la loro richiesta di poter predicare la
Parola di Cristo.
Durante il concilio, la questione venne
demandata a un famoso canonico di origine gallese, Walter Map, affinché
esprimesse un suo giudizio personale sulla dottrina di questa nuova setta,
giudizio che si rivelò impietoso: «costoro non hanno mai una fissa dimora,
se ne vanno in giro due a due a piedi nudi, vestiti di lana, senza possedere
nulla, mettendo tutto in comune come gli Apostoli, seguendo nudi un Cristo nudo.
Cominciano ora in modo umilissimo perché non possono prendere piede, ma, se li
facessimo entrare, ci caccerebbero fuori». Nell’anno successivo Valdesio
fu convocato nel concilio di Lione dal cardinale Enrico di Marcy, vescovo di
Albano e legato pontificio, dove, assieme ai suoi compagni,
dichiarò la sua completa ortodossia, denunciando anche gli errori dei
catari. Pur ottenendo in qualche modo il crisma dell’ufficialità
ecclesiastica, precorrendo di circa un trentennio gli Ordini mendicanti
sostenuti da Innocenzo III, non si riuscì a raggiungere una soluzione
definitiva intorno alla facoltà dell’officium praedicationis. Il
riconoscimento del propositum valdese durò poco: morto Alessandro III,
Valdo entrò infatti in conflitto con l’arcivescovo di Lione, che vietò la
sua predicazione nella diocesi scomunicando i Poveri di Lione. Causa
scatenante della rottura fu il rifiuto da parte di Valdo e dei suoi seguaci di
riconoscere la loro funzione subalterna rispetto a un preposto indicato
espressamente dalla curia arcivescovile. A questo si aggiunse anche lo scandalo
che suscitò tra i canonici il fatto vi fossero donne appartenenti al movimento,
le “sorores valdenses”, predicatrici itineranti al pari degli uomini.
A questo divieto il lionese, che, per poter
esprimere il proprio diritto di predicare, riteneva intimamente che non fosse
necessaria nessuna mediazione ecclesiastica, replicò dicendo che «bisogna
ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini». Ma la Chiesa che lo aveva
accolto, anche per effetto della lotta per le investiture, era, nel frattempo,
cambiata. L’istituzione canonica aveva, ormai, guadagnato troppo terreno e
poteva imporre l’obbligo di obbedienza verso la gerarchia ecclesiastica, che,
in caso di rifiuto, emanava la sentenza di scomunica, bandendo ogni forma di
autocoscienza laica. Scomunicati nella diocesi di Lione, anche i Poveri di
Lione, unitamente agli umiliati, vennero accomunati nella condanna di eresia
nella decretale Ad abolendam di Lucio III per la loro ostinazione a
predicare senza autorizzazione (la stessa decretale precisa: «Annodiamo con
uguale vincolo di perpetua scomunica tutti coloro che avranno la presunzione di
predicare sia in pubblico sia in privato, pur avendo ne ricevuto la proibizione,
oppure non essendo stati inviati, al di fuori di ogni autorizzazione ottenuta
dalla sede apostolica oppure dal vescovo del luogo»).
Questo, però, non impedì a Valdo e ai suoi
seguaci di proseguire nella loro predicazione. Uomini quasi tutti di bassa
condizione, i più non sanno il latino e non sanno neanche leggere, riuscivano a
parlare al popolo con il suo linguaggio, colpito anche dalla loro condotta di
vita. Per questo il movimento conobbe una rapida diffusione in Francia,
nell’Italia settentrionale, in Spagna, in Austria e in alcune regioni della
Germania. Sappiamo con certezza che i valdesi prima, durante e dopo la crociata
contro gli Albigesi, proseguirono nella polemica antidualista e stabilirono loro
centri di culto nel Mezzogiorno di Francia, il cuore della diffusione catara. Le
comunità valdesi si estesero rapidamente anche in Italia settentrionale,
dove erano già presenti analoghi gruppi religiosi ed esistevano anche
numerose comunità catare. A Milano, già nel 1196, avevano ottenuto dal Comune
un terreno su cui costruire una propria sede (schola) per le riunioni di
culto e di proselitismo.
La
situazione italiana fu assai più articolata di quella francese e si espresse
con orientamenti diversi da quelli di Valdesio, nonostante i suoi tentativi di
mantenere unito il movimento valdese. Con il Lionese ancora in vita, nel 1205
circa, avvenne una profonda spaccatura tra i valdesi di Lombardia, che darà
vita a un gruppo indipendente, detto “Poveri di Lombardia” (pauperes
Lombardi), dove erano confluiti sia i seguaci di Arnaldo da Brescia che un
gruppo dissidente del movimento degli umiliati. E proprio la presenza di
questi ultimi dovette esercitare un chiaro influsso sui valdesi italiani per il
diverso concetto di povertà e il diverso atteggiamento nei confronti del
lavoro. I Poveri di Lione, i diretti affiliati di Valdo, disdegnavano,
infatti, il matrimonio, il lavoro manuale, visto come un pericoloso strumento di
arricchimento, e la gerarchia interna; i Poveri Lombardi, guidati dal
piacentino Giovanni di Ronco, invece li ammettevano tutti, ma, risentendo di
chiare e evidenti influenze patariniche e arnaldiste, erano assai più severi e
radicali, rispetto ai francesi, nel rigettare i sacramenti conferiti da
sacerdoti indegni.
Tra
il 1205 e il 1207 Valdesio morì senza aver risolto lo scisma lombardo e il
problema dei rapporti con la Chiesa cattolico-romana. Il movimento si disperse
in rivoli che sempre più si diversificarono tra loro. Già durante la sua
predicazione dovette assistere a un progressivo distacco di una parte
consistente dei suoi seguaci dalla sua linea improntata nella fedeltà
all’ortodossia cattolica, non solo nei centri valdesi dell’Italia
settentrionale. Tratti comuni delle varie correnti valdesi divennero sempre più
il rifiuto delle gerarchie ecclesiastiche, giudicate corrotte e malvagie, il
rifiuto di giurare e, come per la maggior parte delle sette medievali, il
rifiuto del culto dei santi, della preghiera per i defunti, e quindi del
Purgatorio, dei pellegrinaggi, dell’acqua santa e della venerazione delle
reliquie. Fedeli alla tradizione pauperistica, in queste comunità veniva messo
tutto in comune e si rifiutavano beni e ricchezze terrene per seguire “nudi il
Cristo nudo”. Rifacendosi a tematiche che abbiamo già trovato in Pietro di
Bruis e in altri eretici dell'inizio del secolo XII, compresi gli stessi catari,
i loro antagonisti originali, le varie correnti valdesi rivendicarono un ruolo
sacramentale anche per i laici e riconobbero la validità di tre soli
sacramenti: battesimo, confessione, e eucaristia, nota anche come la “cena del
Signore” o “cena valdese”. Allo stesso modo dei “perfetti” catari, i
valdesi si divisero in “barba”, i predicatori itineranti, e “uditori”
(da un punto di vista teologico, comunque, rimasero profondamente cristiani,
riconoscendo la deità di Cristo, lontani da tentazioni dualiste), e, proprio
come i catari, recitavano preferibilmente il Padre Nostro.
Nonostante
la condanna papale, la morte del fondatore, e la repressione da parte
dell’inquisizione, il movimento valdese continuò la sua espansione,
strutturandosi, però, come abbiamo visto, in gruppi e comunità protagonisti di
interpretazioni, religiose e spirituali, che non rispettavano gli ideali
originali voluti da Valdesio. Il principale interprete del valdismo originario,
fu Durando d'Osca, noto per la sua lotta contro i Catari (autore del Liber
antihaeresis). Questi, a seguito di una disputa teologico-dottrinale
svoltasi a Pamiers alla presenza di autorevoli prelati e di numerosi
cistercensi,
si impegnò in prima persona perché venisse finalmente riconosciuto
l’intento religioso ortodosso del movimento. Nel 1208 lo stesso Innocenzo III
dette a Durando e ai suoi compagni l’impressione che fosse possibile
ricomporre la frattura con Roma. Nacque, quindi, un nuovo ordine religioso detto
dei “Poveri cattolici” (pauperes catholici), che tentò di
realizzare la completa reintegrazione dei valdesi nelle istituzioni
ecclesiastiche, ma con poco successo, anche per la concorrenza dei nuovi, e in
breve tempo potenti, ordini mendicanti francescano e domenicano. Nel 1218 si
incontrarono a Bergamo la “Società dei fratelli ultramontani” (societas
fratrum Ultramontanorum), i valdesi francesi, appellati anche come “compagni
di Valdesio” (socii Valdesii), e la “Società dei fratelli italici”
(societas fratrum Italicorum) con l’intento di trovare una nuova unità in
seno al movimento valdese, oramai nella clandestinità. Tutto, però, fu
inutile.
Dopo la morte del fondatore, il movimento
continuò, nonostante le persecuzioni, la sua espansione, oltre che in Spagna,
Francia meridionale e Italia settentrionale, anche in Italia meridionale
(soprattutto in Calabria, dove subirono una ferocissima repressione, con alcune
migliaia di morti, nel 1561) e in Boemia, dove poi vennero assorbiti dal
movimenti degli hussiti nel XVI secolo. In Francia le prime vere e proprie
persecuzioni cominciarono dopo la crociata albigese contro i catari, nel 1208,
ai quali in molte occasioni vennero accomunati (famoso è il rogo di Maurillac
nel 1214). Tuttavia molti esponenti valdesi riuscirono a rifugiarsi nelle
regioni montuose del Delfinato e della Savoia, lontani dall’azione
dell’inquisizione e dei predicatori cattolici (nel 1488, comunque, papa
Innocenzo VIII, 1484-1492, bandì una crociata per cacciarli dalle valli alpine
francesi verso la Svizzera). Nel versante delle valli piemontesi, invece, il
movimento subì persecuzioni per tutto il XIV secolo, senza, però, venirne
sradicati. Nel 1532 i valdesi aderirono alla riforma di ispirazione calvinista.
©2005 Andrea Moneti