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PIERFRANCESCO NESTOLa

   

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Immagine introduttiva (solo per arricchire la barra di caricamento che avanza): un castello in costruzione, un’umile borgata e un miles che ti guarda in cagnesco, mentre una voce bianca canta «Agnus Dei…». Cominciamo bene.

L’apertura del filmato introduttivo parla da sola: «il medio evo….» [con quattro puntini di sospensione, ma non facciamo i tignosi come al solito: melius abundare quam deficere – e con buona pace di Totò (lui sì che almeno l’ascendenza, di medieval-imperiale, ce l’aveva… e scherzava col latino…)].

Musica di sottofondo in stile simil-gregoriano in simil-latino, a cui si affiancano gli immaginabili tamburi seguiti da archi e fiati loschissimi, ad aumentare l’effetto voluto.

Voce del narratore decrepita: «Ah… la vita nel vecchio castello… la gente era così amichevole…». Scena: il presunto narratore, ormai vecchio, è alla gogna e quei buontemponi dei popolani gli tirano frutti [anziché mangiarseli?!] in faccia. Almeno non ci hanno messo i pomodori.

Continua: «… e quante feste facevamo… c’erano tante fanciulle a cui fare la corte…». Scena: in un’oscurissima stamberga il vecchio ingolla una brodaglia in cui galleggiano ossicini e pezzi di esseri non identificabili, mostrando un appetito di tutto rispetto. Di fronte a lui c’è la fanciulla: una vecchiaccia laida che a un certo punto fa un rutto e poi tossisce seccamente. Non sembra indice di buona salute…

Ancora: «…e poi c’era da lavorare. Un lavoro che acuiva le nostre menti [lui da giovane con l’alabarda, che si addormenta in piedi, mentre sta facendo la guardia sugli spalti] e rinvigoriva i nostri corpi [un altro vecchietto che, sempre tossendo, modella un arco con un coltellaccio, quando dalla baracca sopra di lui qualcuno getta una secchiata di liquami certamente luridi – sennò che senso avrebbe?!-]».

Ma, nonostante tutto, «quelli sì che erano bei tempi… e poi c’erano i vicini» e qui si capisce chi era il ceffo di ferro vestito dell’inizio del filmato: un assalitore, addosso al quale viene gettato un… ebbene sì. Secchio di olio bollente (che nella scena sembra però vomitare fiamme). Conclusione musicale: «Alleluia».

Mi metto il cappotto per i brividi (nonostante paghi 20 euro in più di condominio ogni mese, proprio per i riscaldamenti – ma dove andranno a finire ‘sti soldi?!] e avvio il gioco.

Ecco! Ambientazione insolita: una penisola sperduta… e compare l’Italia. La disperazione mi induce a fare scarsamente caso alla trama. E non a torto: solita solfa del padre nobile fatto prigioniero, blah blah, i baroni rampanti occupano le terre come fossero le scuole del ’68, blah blah, e poi fanno i complotti per non farmi pagare il riscatto, mi usurpano l’usurpabile, io devo combatterli per risolvere la situazione, fortuna che ho il consiglio dei vecchi e gloriosi amici di mio padre, blah blah. Il tutto condito con una hollywoodiana immagine del messaggio assicurato al tavolaccio per mezzo di un pugnale talmente intarsiato che sembra uscito dalla fiera dell’Oro Levante.

Il gioco non inizia male e, poco a poco, mi accorgo che, una volta tanto, le mazzate da orbi e le spadate sventranti lasciano il posto a qualcosa di più concreto.

Bisogna innanzitutto sistemare il castello, che all’inizio è (sebbene sia chiamato «palazzo sassone»-?!-) un casone di legno. Il re, che agisce per conto proprio, è vestito di un mantello blu con bordi bianchi e ha uno spadone enorme. Ma il bello è proprio questo: nel gioco, per vincere le varie campagne, bisogna produrre! E, se il tuo indice di gradimento presso i popolani scende al di sotto di un certo limite (tasse troppo alte e\o razioni di cibo troppo scarse, perché bisogna pure sistemare un granaio e un magazzino da gestire), questi se ne vanno, le attività produttive cessano di funzionare, vai in bancarotta e, quando i vari nemici ti mandano una squadra di incursori, non hai né gente arruolabile, né gli artigiani che fanno lance, archi, balestre, corazze, dacché non ci sono boscaioli-falegnami, cavatori di pietra, minatori, conciatori, allevatori etc. etc. etc.

Almeno una lancia è da spezzare in favore del gioco: rende l’idea del sistema produttivo di un castello, e sarebbe ingiusto infierire con argomentazioni intellettualistiche circa la falsità della “chiusura” dell’economia curtense, per almeno due buone ragioni: 1) si può costruire il mercato in cui si acquistano e vendono le merci in eccedenza o di cui c’è domanda; 2) è pur sempre un videogioco…

Purtroppo, però, dopo la prima (ad essere buoni) oretta e mezza di gioco, il tutto si traduce in una noia tremenda. Il gioco diventa macchinoso, le musichette assillanti, le voci dei personaggi insopportabili, insomma… meglio spegnere e farsi una partita a carte. Lì, almeno, i riflessi del Medioevo, tra spade, coppe, denari e bastoni, e re, cavalieri e fanti, ci sono proprio tutti.

Benevalete!!!

               

   

   

      

©2006 Pierfrancesco Nestola

   


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