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PRATOVECCHIO, castello DELLA ROMENA
a cura di Fernando Giaffreda

In alto: il lato sud del piazzale del castello visto dall’interno. In basso: l’ampio cortile interno che accede alla torre, con la porta d’ingresso al nucleo abitativo.
	
	
	Epoca:
  ferme restando le preesistenti
  fabbricazioni pelasgiche ed etrusche, in quanto castello medievale Romena
  risale al X secolo, quando la gens longobarda dei Guidi Conti, notoriamente
  organizzata in clan comitale, ne viene in possesso grazie alla concessione
  personale di alcuni privilegi feudali e imperiali in Toscana, elargiti da
  Berengario re d’Italia (960), di Ottone I di Sassonia imperatore (962) e di
  Federico II (1220 e 1227).
  
  Posizione
  geografica:
  in
  Casentino, nel comune di Pratovecchio. Il castello è posto alla sommità
  (621m s.l.m.) dell’ultimo costone nordorientale del Pratomagno,
  immediatamente a ridosso del primo corso destro dell’Arno. Di qua alla piana
  di Campaldino, Pratovecchio e Stia si confrontano a Poppi, altro castello
  guidesco sistemato su un’altra sporgenza limitrofa del bacino fluviale più
  importante della Toscana.
Come arrivarci: solo con l’auto, lasciando la SS 70 Pontassieve-Bibbiena al 25° km circa per dirigersi a Stia, se si proviene da Firenze. A metà di una breve diramazione provinciale per Pratovecchio e Stia, in 3 km appena si scorgono i ruderi imboscati della Romena. Se viceversa si proviene da Arezzo, la SS 71 per Bibbiena ci fa risalire tutto l’Arno superiore per 25 km; poi la SS 70 ci accompagna su fino a Poppi e a Pratovecchio. E dal capoluogo comunale l’ultima marcia è breve.
Stato di conservazione: dipende dai punti di vista. Il castello è proprietà “privata”, cioè “chiuso”. Non è una civile abitazione né sede di una qualche istituzione o ente, sia pur alberghieri: è annesso principalmente a un fondo agricolo-forestale, con tanto di podere. Pertanto, in queste condizioni la conservazione dipende dai concetti di manutenzione e di uso che hanno i proprietari. I quali l’acquistarono dal quel conte Ottaviano Goretti de’Flamini che nell’Ottocento diede mano al restauro riparatorio delle rovine causate dal tremendo terremoto del 1579, per il quale andò perduto il grandioso e articolato impianto precedente, dai Guidi fatto di tre cinte murarie, dodici torri, cassero, ponti levatoi e quant’altro si possa pretendere da un castello medievale classico. I materiali diruti ora sono sparsi, impiantati a nuovo nelle seicentesche coloniche di valle. Altre distruzioni e sevizie Romena le ha avute nell’ultimo conflitto mondiale, quando prima i tedeschi e poi gli alleati elevarono il castello a quartier generale, non risparmiandogli l’artiglieria pesante e qualche bomba.
Come visitarlo: impossibile entrare nell’ultimo perimetro fatto a terrazzo erboso, contornato dalle tre torri superstiti e dal bel cassero, senza forzare le ridicole barriere poste a divieto dei “curiosi”. Alle sporadiche visite guidate si accede prenotandosi al numero telefonico 055.588108, che risponde al Comune di Pratovecchio. Oppure non resta altro che attendere l’annuale manifestazione regionale “Una giornata al castello” che ogni fine estate apre ufficialmente le porte dei castelli toscani (non tutti ovviamente), riunendoli in un ideale circuito corto in onore al nostro retaggio medievale così sconnesso e di difficile comprensione. Ad ogni modo, per chi si accontentasse di un’occhiata esterna, è sufficiente parcheggiare l’auto sulla provinciale per Pratovecchio per gustarsi già a piedi il bel viale cipressato che conduce alla Romena.
Cenni
  storici
I
  trascorsi etruschi del colle di Romena sono provati dall’origine del suo
  nome (Ormenna o Rumenna)
  1
   e dal
  contesto dei vari toponimi del Casentino, fino al dirimpettaio Falterona
  (“porta del cielo”). Gli etruschi a loro volta vi si insediarono a partire
  dal VII secolo a.C. sul precedente sito qui colonizzato dai Pelasgi, una
  mitica, sparuta popolazione arcaica che prima dell’arrivo in Grecia delle
  stirpi elleniche era andata spostandosi nella Caria,
  in Sicilia, nell’Italia meridionale e nell’Etruria appunto. Le congetture
  di storici ed archeologici si sono spinte fino al punto, probabilmente
  erroneo, di attribuire a questo piccolo popolo semipreistorico la costruzione
  delle mura di Micene, ma che tuttavia si basa sul riscontro di certe loro
  fortificazioni, fatte con blocchi di pietra irregolare, fango e piccoli sassi
  negli interstizi, rinvenute regolarmente in tutto il Mediterraneo come indizio
  della preferenza pelasgica per i luoghi elevati in ambito lacustre o in
  prossimità di grandi masse d’acqua
  2.
Questa
  digressione retrograda non apparrà strana quando si ripensi alle primitive
  condizioni orografiche dell’alto (ma anche basso) bacino dell’Arno in
  Toscana, dove il progressivo ritiro di vaste aree lacustri e paludose ha
  favorito, già molto prima dello sfruttamento agricolo da parte della
  centuriazione romana di grandi pianure alluvionali interne, la formazione di
  civiltà che come l’etrusca privilegiava colli silvestri e reconditi in
  prossimità di piccoli fiumi (trasporto e comunicazione). Essa al contrario
  depone in favore dell’ammissibile presenza, anche sia pur scarna e
  primitiva, di una “fortificazione civile”
  3
  sul colle di Romena antesignana ai Tusci già fin dalla notte dei tempi
  (almeno quelli cosiddetti protostorici).
Il
  fenomeno storico generale dell’incastellamento che anche il colle di Romena conosce a seguito della
  nuova situazione creatasi con le “seconde invasioni” ungare e saracene del
  IX secolo, qui non avviene ex-novo o “a pulito” sul terreno, ma si
  manifesta come un ampliamento strutturale di preesistenti civiltà più
  arcaiche. Inoltre esso si inscrive in quel ciclo postumo della sopravvivenza,
  dopo l’VIII secolo, del regno longobardo nell’Italia centrale (capitale
  Spoleto), col suo diritto consuetudinario e clanico-tribale, estraneo e nuovo
  rispetto a quello latino veicolato in loco dalla potente sede arcivescovile
  d’Arezzo. Pertanto intorno al 1008, anno in cui si ha notizia
  dell’esistenza di un castello sulla Romena, già munito di diverse torri e
  perciò abbastanza importante, il Conte Guido Alberto dei Marchesi di Spoleto,
  che ne aveva il possesso e la residenza, stava conducendo l’espansione delle
  famiglie longobarde in tutto il Casentino. Figlio di Alberto Ribonario e
  nipote del marchese di Toscana Bonifazio Longobardico, questo Guido Primo
  proseguì la discendenza della sua stirpe fino a un Guido IV Longobardico, che
  era conte di Modigliana. La moglie di questi, Ermellina, gli sopravvisse, e in
  virtù del principio longobardo della proprietà indivisa che escludeva le
  donne dal possesso e dall’eredità terriera, i privilegi feudali furono
  spartiti, ma anche ingranditi, in ugual proporzione ai figli discendenti,
  senza che il primogenito ne sortisse quantomai privilegiato. La complicata
  proliferazione estensiva dei Guidi in Toscana
  4
  ci porta, nel 1217, all’individuazione di un Guido Guerra, marito di
  Gualdrada, che pare omonimo del feudatario di Montemurlo, il quale morendo
  spartisce ancora la sua vasta proprietà feudale ai quattro figli. A uno di
  questi, Aghinolfo, toccò appunto il castello di Romena, e viene per questo
  considerato tuttora il capostipite dei Conti Guidi di Romena, da distinguersi
  dal ramo dei conti Guidi di Battifolle e di Modigliana.
Tuttavia,
  senza doversi inoltrare più di tanto nella intricata ramificazione di questo
  clan feudale dalla presumibile connessione gaelica per il suo costume
  giuridico e la fisiognomica dei suoi individui, per la lettura del castello di
  Romena è sufficiente mantenere due punti fondamentali: la strutturazione
  della fortezza così come oggi la si osserva e per ciò che dell’impianto ne
  resta, è opera caratteristica dei Conti Guidi, analoga a quella di altri
  castelli toscani per la sua funzione di centro politico-amministrativo della
  feudalità rurale che essi rappresentano; la progressiva decadenza del
  castello e della famiglia, che si registra nei secoli successivi, è lo
  specchio della trasformazione in senso mercantilistico della società feudale
  avvenuta con la crescita dei comuni, in particolare quello di Firenze, la cui
  espansione in Toscana avverrà proprio in danno dei conti Guidi. Essi infatti
  si rivelarono inesperti nel gioco delle transazioni commerciali e finanziarie
  messo in atto dalla municipalità gigliata proprio intorno all’ingaggio
  della sovranità su feudi e castelli. La serie delle conferme ai Guidi dei
  privilegi feudali concessi da re e sacri romani imperatori (Berengario nel
  960, Ottone I due anni dopo, Enrico VI nel 1191, Federico II nel 1220 e 1227)
  non valse a contenere le pressioni d’acquisto e le incursioni espansive del
  comune di Firenze, principale mandatario della famiglia dei Pazzi nella loro
  iniziale attività di valvassinaggio di alcuni castelli guideschi.
La
  struttura
  quadrangolare della fortificazione costruita dai Guidi era formata da ben tre
  cerchie murarie merlate, scandite a misura da una dozzina di torri piuttosto
  elevate, con camminamenti di ronda aggettati, sistemi scrupolosi di difesa e
  di avvistamento su ogni lato. Sul lato meridionale era presente un castelletto
  ad uso della guarnigione e dei servitori. Nell’arroccamento centrale invece
  era allocata l’abitazione del feudatario, munito di tre torri molto alte,
  mastio, dongione e cassero con tanto di ponte levatoio. Il grande spiazzo
  centrale presumibilmente non aveva pavimentazione, segno che non si trattava
  espressamente di una piazza d’armi ma di un’area utilizzata per
  l’autosufficienza minima in caso d’assedio. All’esterno del sistema,
  v’erano altre piccole fortificazioni di servizio, quali la mitica Fonte
  Branda e la “gabella” di pedaggio.
Le
  cronache del tempo che riguardano la Romena fra il XIII e il XIV secolo
  illustrano comunque in maniera eloquente il significato e il senso storico di
  questo contrasto epocale fra feudalità e comuni vissuto dai personaggi
  riferiti. Nel 1281, in seguito alla scoperta in una casa posta nel quartiere
  di borgo San Lorenzo in Firenze di una cassetta piena di fiorini d’oro
  falsi, fu inseguito, preso, torturato e arso vivo nella località poi
  denominata apposta Omomorto della Consuma, Mastro Adamo da Brescia
  (personaggio ricordato, con la dovuta morale a commento della vicenda
  5,
  nel canto
  XXX dell’Inferno).
  A quel fabbro in servizio dai conti Guidi della Romena la falsificazione gli
  fu comandata proprio da loro nel vano tentativo di arginare o truffare i
  fiorentini lanciati da tempo nell’acquisizione dei privilegi in godimento
  col castello.
Assumendo
  poi per veritiero il leggendario soggiorno dell’esule e condannato Dante
  Alighieri nella Romena fra il 1303 e il 1306 come riparo offertogli dai Guidi
  - per cui si racconta con enfasi che abbia ideato proprio in quell’occasione
  la conformazione architettonica a gironi dell’Inferno, grazie
  all’osservazione incantata di quella struttura - non è fuori luogo dedurre
  che il cosiddetto sommo poeta abbia passato quel periodo in cerca
  dell’appoggio politico-militare dei Guidi, i quali essendo per antonomasia e
  per classe nemici e vittime del regime guelfo di Firenze potevano dargli
  speranza nel vagheggiare una riscossa qualsiasi, anche di stampo ghibellino.
Svanite
  poi definitivamente le aspettative ghibelline con la morte di Arrigo VII nel
  1313 a Buonconvento di Siena, la desiderata acquisizione fiorentina del
  castello di Romena poté compiersi nell’ottobre del 1357, quando con due
  distinti contratti stipulati in Firenze il 14 e il 22 (ratificati in Consiglio
  il 23), il conte Piero della Romena vende al Comune gigliato il castello
  omonimo per 9.600 fiorini. Assieme all’acquisizione della giurisdizione
  castellare e fondiaria di Romena, fu redatto a clausola contrattuale il
  “Capitolo” dell’assunzione in servizio del Conte Guido Piero, venditore,
  e di suo cugino Brandino, per gestire in comodato perpetuo il palio annuale di
  San Giovanni Battista (indennità 6 fiorini d’oro). In un altro capitolo il
  Consiglio deliberò la modifica del regime tributario nel contado della
  Romena: esenzione quinquennale da ogni gabella, dazio e prestazione, purché
  il contado del fondo rispettasse l’obbligo di acquistare il sale dal Comune
  di Firenze per tutto il periodo di esenzione; dopodiché l’estimo del
  castello si sarebbe dovuto attestare sul pagamento di 150 fiorini d’oro. Il
  contratto del 1357 fu il crollo e la rovina definitivi della dinastia dei
  Guidi di Romena, che persero in tal modo l’antica autonomia politica e
  amministrativa a tutto vantaggio della nuova potenza fiorentina. La quale nel
  volgere della seconda metà del XIV secolo, a traino di quel “trattato”,
  aggregò il castello con quello di Castel S. Niccolò e altri più piccoli
  alla podesteria di Reggello.
L’ultimo
  rampollo dei Guidi della Romena, Roberto di Monte Granelli, già nel 1440 non
  aveva alcun peso rappresentativo neanche più in Firenze, ridotto com’era a
  suo tributario, tanto da farsi sostituire nell’ufficio del governo sul palio
  di San Giovanni Battista. Ma si era già nell’anno della battaglia di
  Anghiari, episodio finale dello scontro distruttivo fra l’espansionismo
  della signoria viscontea di Milano nell’Italia centrale e la lega fra
  Venezia e Firenze, che si protraeva dal 1424, anno dell’occupazione milanese
  della vicinissima Forlì. Ci si trovava ormai nel secolo dei capitani di
  ventura, delle truppe mercenarie, delle scorribande e delle rappresaglie,
  della lotta intestina fra le Signorie italiane a tutto danno delle antiche
  municipalità divise fra guelfi e ghibellini o fra feudalità e Comuni.
  Proprio il Casentino, e in particolare la Romena, furono teatro e vittima
  dello scontro fra il capitano mercenario Piccinino di Perugia, soldato dai
  Visconti di Milano dopo il voltafaccia a Firenze, e Neri Capponi pagato dai
  Fiorentini. Migliaia di fanti e cavalieri “milanesi”, appoggiati dai conti
  di Poppi, riuscirono prendere sotto assedio e a espugnare diversi castelli
  compreso la Romena, che in quelle occasioni d’occupazione militare
  avventuriera subì diversi danni e distruzioni nei fondi e nelle strutture di
  fortificazione.
Nel
  1579 la Romena fu ridotta ulteriormente a un rudere da un tremendo terremoto
  che colpì tutto il Casentino. In seguito a quel cataclisma il maniero divenne
  un’immensa cava di materiali bell’e pronti per l’edificazione di
  coloniche nei dintorni. Lo stallo sociale ed economico del periodo barocco
  fornì poi l’occasione di rendere sempre più periferico e desueto il
  castello col suo contesto. La piazza d’armi posta al centro della rocca
  fortificata venne adibita dai coloni a campo coltivato e a pascolo. Durante il
  successivo regime del dispotismo illuminato dei Lorena in Toscana, il
  castello, posto in una zona interna e impervia della regione, fuori cioè dal
  contesto degli scambi più importanti nella politica lorenese, venne dimesso
  dal patrimonio monarchico e messo all’asta. Con quell’incanto
  l’acquistarono i Conti Goretti de’ Flamini nel 1768, mentendolo di loro
  proprietà in pratica fino all’unità d’Italia. Non è escluso che in
  qualche periodo i nuovi nobili abbiano anche abitato la Romena, se ai Goretti
  viene riconosciuto il merito di averlo restaurato e di averne tamponato la
  definitiva rovina strutturale. Cionondimeno, dopo il 1889 i proprietari hanno
  demolito numerose coloniche e costruzioni rurali addossate sui tratti delle
  mura, cancellando così i segni di un’evoluzione tardiva del castello della
  Romena a borgo rurale, sorte toccata invece ad altri contesti castellari dei
  Guidi.
Nell’estate del 1944, in piena Seconda Guerra mondiale gli Alleati anglo-americani con l’aviazione bombardarono senza riguardo la Romena, dove erano asserragliati l’artiglieria e i nuclei di rappresaglia antipartigiana dei nazisti. A quelle ennesime rovine si aggiunse perciò l’occupazione militare del castello da parte del quartier generale alleato, che lo eresse a suo ufficio fino al completo ritiro.
1 Alcuni etimologisti hanno dimostrato, peraltro con ottime digressioni pertinenti, che molti toponimi che risalgono all’influenza etrusca hanno sempre una terminazione vocale in –enna.
2 Posto che in lingua accadica enu significa sorgente, e che i Pelasgi si presentano meglio come un popolo accadico che non “indoeuropeo” (falso vocabolo fra l’altro introdotto con le leggi razziali), non è fuori luogo notare quanto in “Ormena-Rumeni” – nome del gentilizio etrusco col quale si suole dare origine etimologica a Romena – risuoni insistentemente il termine “enu”; e altresì quanto il poggio di Romena sia storicamente legato – come si vedrà più avanti – al mito della sorgente (Fonte Branda).
3 Nel recentissimo Museo Archelogico e delle Armi inaugurato alla Romena alcuni reperti non del tutto catalogati possono dimostrare l’indizio di civiltà preistoriche.
4 Due contributi utili indispensabili alla ricostruzione storica dell’intricato albero genealogico dei Guidi (così cari a Dante) provengono dal nobile fiorentino, ordinato sacerdote in vecchiaia, Scipione Ammirato (Lecce 1531-Firenze 1601), Istoria della famiglia dei Conti Guidi, Firenze, Massi e Landi editore, 1640 (ried. Modena, 1967); e dal recentissimo Documenti per la storia dei Conti Guidi in Toscana - Le origini e i primi secoli (887-1164), di Natale Rauty, Casa Editirice Leo S. Olschki, Firenze 2003.
5 Per la lettura dello stato “naturale” del sito della Romena all’epoca del fatto vale la pena sottolineare che lo sfondo psicopatologico dell’idropisia a cui è condannato per ingiusto contrappasso Adamo da Brescia (per cui pur di saziare la sua sete di verità il dannato avrebbe rinunciato volentieri a bere dalla Fonte Branda) vale più come testimonianza che il colle dove si erge il castello Romena avesse delle particolari caratteristiche sorgive che lo rendevano prezioso e raro. Ovvero, con un’altra interpretazione, che essendo l’idropisia uno stato malato che rivela la presenza di liquido nelle cavità sierose, per cui l’individuo appare enfio e con la pancia rigonfia, la caratteristica del colle di Romena potesse essere costituita da cavità sorgive intermittenti o che, ancora, l’acqua della Fonte Branda per le sue caratteristiche facesse l’effetto di sensazione di gonfiore e pesantezza.
©
  2005 Fernando Giaffreda, testo e foto