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STIA, castello DI PORCIANO

a cura di Fernando Giaffreda

scheda    cenni storici    video


In alto: un elemento della fortificazione castellare originaria visibile dal giardino centrale. In basso, a sinistra: la torre principale di Porciano, oggi adibita a museo e dépéndance dei proprietario; a destra: Una vite americana avvolge la torre principale dove si trova il museo Spechi.

 

In basso: il castello in un disegno di Antonio Caputo.

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La torre principale del castello di Porciano vista da un altro lato  Un'altra torre "smezzata" della cinta muraria  La sala del museo al primo piano della torre principale  Dal sito del comune di Stia (www.comune.stia.ar.it) un'immagine cartolina della torre di Porciano  Una panoramica del castello in campo lungo da una foto tratta dal sito www.toscoumbria.com  L'impianto del castello e del paese di Porciano visto dall'alto (www.comune.stia.ar.it).

 

La mappa catastale dell'attuale insediamento urbano di Porciano  La porta d'ingresso nord posta accanto alla torre principale.


      


Epoca: X-XI secolo, di costruzione longobarda, possesso feudale di uno dei tanti rami comitali dei Conti Guidi.

Posizione geografica: in alto Casentino, nel comune di Stia, ai piedi del Falterona, lungo il tratto torrentizio dell’Arno. Posto su un poggio di alcune centinaia di metri sul livello del mare, il castello guidingo denomina anche il borgo omonimo, frazione di Stia, e in qualche carta stradale, manco a farlo apposta, è addirittura difficile da rintracciare..

Come arrivarci: una volta giunti a Stia da Firenze con la SS70 Pontassieve-Bibbiena, oppure da Arezzo con la SS71 per Bibbiena, si imbocca la SS310 per il Passo della Calla (1296 m). In 2 chilometri e mezzo dal centro del capoluogo comunale, le indicazioni portano al borgo di Porciano e quindi al castello, sul piazzale G. A. Specht.

Stato di conservazione: della massiccia e complessa struttura originaria rimangono appena due o tre delle torri principali, la più alta delle quali (35 m con una merlatura guelfa) oggi è adibita a museo con annesso un piccolo appartamento dei proprietari; e un’altra, posta sul lato occidentale della cortina muraria, è oggi il campanile della chiesa paesana. Sono rimaste anche due porte, una che guarda verso nord, la più importante, posta lungo un intatto pezzo di cortina muraria, l’altra a sud. Il restauro dei 6 piani della torre e degli altri spezzoni murari fu iniziato nel 1961 dagli attuali proprietari, la famiglia di Gorge A. Specht, in collaborazione coi Flamini de’ Goretti, per terminare nel 1963. Nel complesso pertanto di quel che resta lo stato è buono e ben conservato, visto anche l’accettabile uso turistico, sia pur modesto, che ne vien fatto. Inoltre, il bel cortile interno può offrire al visitatore qualche buon momento di relax nella bella stagione. La rovina del più grandioso impianto originale iniziò nel corso del Cinquecento, non tanto per la crescita della postazione di Stia nei flussi commerciali emergenti, quanto per l’invasione e lo stanziamento delle truppe mercenarie dei vari sovrani che segnarono la decadenza generale dell’Italia. La guerra mondiale poi ha fatto il resto.

Come visitarlo: la visita al castello e al borgo annesso è più che agevole dal momento che l’ingresso è libero, sia al paese che al museo della Torre. Non manca la possibilità di un comodo parcheggio dell’auto per poi inerpicarsi nelle viuzze del borgo e giungere alla sommità del cortile castellare. Il museo del castello di Porciano, inserito nel circuito regionale dei musei, offre interessanti reperti archeologici ritrovati durante i restauri, di epoca sia castellare e contadina che più antecedente, più un’esposizione di oggetti artigianali di vita quotidiana degli indiani Sioux del Canada e North Dakota, facente parte del Museo Specht. È aperto dal 15 maggio al 15 ottobre, domenica e festivi: 10.00-12.00 e 16.00-19.00. Per i gruppi occorre una prenotazione (vedi il sito internet: http://brunelleschi.imss.fi.it/ist/luogo/museocastelloporciano.html). Informazioni: 055-400517 / 329-0209258. Visite guidate di sabato.

        

Cenni storici

Come ogni insediamento «longobardo», in ispecie quelli avvenuti in Casentino per mano della gens dei Guidi, conti per antonomasia e ben organizzati in comitati (homines comĭtis), anche questo «castello», o ciò che resta, fu edificato su un precedente castrum romano, a sua volta soprelevato su un antico insediamento etrusco.

Sulla derivazione romana del nome si può giocare in due direzioni: una, più nobile, che attribuisce il toponimo Porciano ad un’eventuale fondazione del castrum da parte di quella stirpe plebea dei Marco Porzio Catone, a partire dal capostipite, propositore mitico del «delenda Carthago», fino all’Uticense, lo stoico oppositore di Cesare vissuto nel I secolo dopo Cristo che, sconfitto, preferì sottrarsi morendo che cadere nelle sue mani – e non è vano per questa soluzione rammentare il ritrovamento nella zona di alcune monete di bronzo del III secolo d.C. ora conservate nel museo del castello; l’altra invece che vede un più prosaico e medievale significato tardo-latino, volgare, di Porciano, tratto dal porco, il che non è cosa improbabile per quanto il commestibilissimo animale fosse davvero allevato in gran quantità nei decaduti castra guidinghi più infrattati, trasformati appunto, e più comodamente, in cospicue accolitate di bestiame (e i longobardi si sa quanto fossero provetti allevatori di bestiame).

«Curte mea» nominò il castello, nel 1029, il primo conte Guido che si rinvenga padrone di Porciano, tal Guido Teudegrimo che vi risiedeva, la cui esistenza dice sia provata da un documento del 1115. Costui, dell’originario e plurisecolare feudo guidingo casentinese posto a sud delle bocche d’Arno e del Tevere, fra l’odierne Toscana e Romagna, aveva il quarto titolo del dividendo: appunto il ramo di Porciano, che, unito con quello di Modigliana, si allivellava con le altre tre porzioni comitali: Dovadola, Battifolle e Romena.

La schiatta dei Guidi vantava poi il titolo di conti palatini dell’imperatore in Toscana, grazie a tre diplomi ricevuti nel 1164, nel 1191 e nel 1220, quest’ultimo emesso dallo stesso Federico II Hohenstaufen, o chi per lui, in riconoscimento del sostegno e dei servigi militari ricevuti durante le campagne imperiali. Il diploma imperiale del 20 novembre 1220, confermato anche nel 1246, dispensava i Guidi dai tributi di vassallaggio all’imperatore, e pertanto costoro passavano alle sue dirette dipendenze personali. Addirittura l’omonimo rampollo Tegrimo, narrato molto fedele allo Svevo e all’impero, ottenne in isposa Maria Albina (o Albiera), figlia di Tancredi ex re di Sicilia. Ma i Guidi di Porciano si distinsero pure nelle battaglie di Campaldino e Montaperti, sempre parteggiando ovviamente per la parte ghibellina. Tegrimo di Porciano fu chiamato a ricoprire la carica di podestà a Pistoia per due anni (1209-10), per tre anni a Pisa (1236-39) e ad Arezzo nel 1248.

Questo sia detto per accreditare la «potenza» del castello di Porciano all’epoca, il quale non poteva non essere composto da una struttura fortificata tradizionale e abbastanza completa. Sviluppandosi, il borgo rurale era per metà posto all’interno della cinta muraria, e per un’altra parte si era allargato al di fuori, in concomitanza temporale con le incursioni fiorentine per espugnarne la sovranità fondiaria, cercando di minarla proprio nell’estensione esterna del castello.

Come al solito, su questo come su altri castelli guidinghi in Casentino viene riferita da più parti la presenza «fondamentale» di Dante Alighieri, come se a nobilitare il sito non ci foss’altro d’intrinseco o degno di lustro. La leggenda si sa vive di vita propria e non è escluso che Dante vi avesse dimorato davvero, o addirittura - come riferisce qualcuno - fosse stato imprigionato nel castello di Porciano per via di essere entrato in contraddizione politica con i Conti Guidi dopo il 1301, quando si dovette tramare a rovesciare le sorti in favore del partito bianco a Firenze. È vero però che Dante attribuisce alla decadenza dei Guidi in Toscana un significato nefasto, non tanto per i destini ghibellini risollevati speranzosamente dalla discesa in Italia di Arrigo VII, quanto per quelli morali, cioè politici della «serva Italia» – anche se non è luogo o tempo in questo caso di attribuire troppo al termine «Italia» una caratterizzazione nazionale come l’intendiamo noi moderni. «Sariesi Montemurlo ancor de’ Conti», grida infatti il Poeta nel sedicesimo del Paradiso (verso 64).

Un Guido figlio di Tegrimo firmò il 15 aprile del 1259, proprio nel castello di Porciano, un trattato di cessione ai Fiorentini della sua quarta parte personale dei castelli di Montemurlo e Montevarchi. Dopo aver seguìto pure Federico II insieme al padre nella battaglia contro i faentini e gli antimperiali di Modigliana, fu anche condannato dal podestà di Firenze a pagare 5.000 fiorini per le per le violenze usate nei suoi tentativi di espansione nei castelli intorno al torrente Ambra. Ma ancora, il figlio di Guido, Tegrimo, omonimo del nonno, fu forse il più famoso dei Guidi da Porciano, perché eletto podestà d’Arezzo nel 1288, combatté con ogni mezzo contro i Fiorentini e la loro inesorabile penetrazione in terra aretina. Battuto a Campaldino insieme ai ghibellini si rifugiò nel castello di famiglia e si mise ad imitare, forse senza neanche saperlo, le medesime gesta che Ghino di Tacco apparecchiava nel senese, nel fare cioè scorribande a danno dei mercanti e nel darsi al brigantaggio. Nel 1291 infatti si ha notizia che il podestà di Firenze, tal Bartoletto di Spoleto, condannò Tegrimo, come il padre, al pagamento di 10.000 fiorini d’oro per aver derubato un mercante anconetano. Ciò non gli impedì però di diventare podestà di Faenza nel 1299 e di presentarsi a San Godenzo, insieme ai suoi parenti comitali Guidi, per dare l’appoggio al sopraggiunto Arrigo VII. Non senza però mutar poi bandiera ed allearsi con i Fiorentini (forse nasce da questo ribaltone avant-la-lettre il disaccordo col Dante Alighieri che chiedeva appoggio politico-militare per rientrare a Firenze).

Dopo la morte di Arrigo VII a Buonconvento per malaria, la parte bianca e ghibellina hanno la peggior sorte, e per tutto il XIV secolo la nobiltà feudale extracomunale dei Guidi sarà erosa lentamente nell’influenza esercitata nei territori loro privilegiati. Privi di appoggio e riferimento politico non seppero resistere al geniale mercantilismo finanziario dei Fiorentini, a quella superiorità financo culturale e di scuola che li contraddistingueva, aggrappati pervicacemente e senza alcuna sensibilità per il cambiamento alle loro consuetudini feudali e rurali, fatte del caratteristico egualitarismo ereditario e comitale, di astiose lotte intestine e parentali, di divisioni e opposte preferenze politiche, all’interno delle quali il comune di Firenze seppe introdursi abilmente, portando a proprio vantaggio e dominio i territori e feudi guidinghi.

Arrigo VII medesimo aveva causato la crisi dei Guidi in Casentino assegnando con un diploma al fedele Tancredi di Porciano certi beni fondiari e castellari, escludendo gli altri comitali dal privilegio. Un altro segno di cedimento si ha quando nel 1337 Guido Alberto da Porciano si vede costretto, insieme al fratello Guido Giovanni e al nipote Guido Francesco, a capitolare alcuni possedimenti al comune di Firenze. E poi, con l’intendimento di riscattare i domini castellari ceduti, Guido Alberto prende parte a una congiura contro la Repubblica di Firenze, che però viene scoperta e che gli costa, nell’agosto del 1341, il bando fiorentino per condanna all’ergastolo, fra l’altro indirizzato ad altri nove conti Guidi. Tutto questo «comitato» in seguito, cioè solo nel 1350, riuscirà a togliersi dagli impicci e a riavere almeno il diritto alle rispettive dimore castellari, ma senza diritti fondiari; a patto però di celebrare il consueto atto solenne di sottomissione alla Repubblica fiorentina. Un anno prima, nel marzo del 1349, un altro Tancredi, figlio di Guido Alberto, si era ritrovato a dover siglare un accordo di sottomissione alla Repubblica fiorentina consistente nell’«accomandigia» [1] di tutti i suoi beni nelle mani della città gigliata. Fu l’atto giuridico che diede inizio di fatto al dominio fiorentino sul castello di Porciano, padronanza che poi divenne definitiva e conclamata un secolo dopo, nel 1442, quando uno degli ultimi rampolli guidinghi di Porciano, Ludovico figlio di Neri, vestì in Firenze, dicesi per vocazione, l’abito dell’ordine dei frati camaldolesi di S. Maria degli Angeli, facendo rinuncia dei beni terreni, per poi essere ordinato sacerdote dopo qualche anno, ma permettendo così il passaggio completo di Porciano, fondi, dipendenze, mercato e territorio, alla sovranità di Firenze. Un passaggio non acquistato con contratto di compravendita – come avveniva in molti casi -, ma per estinzione della discendenza dei Guidi di Porciano.

Quel secolo precedente al passaggio di Ludovico all’ordine religioso, fu caratterizzato dagli endemici disaccordi e dalle divisioni dei vari comites dei Guidi, che parevano agire indipendenti circa l’atteggiamento da tenere verso la presenza politica e la penetrazione commerciale fiorentina: un Antonio che combatte a fianco di Firenze alle prese contro Gian Galeazzo Visconti presente in terra d’Arezzo; un Piero alleato per necessità a Firenze ma che viene assediato e fatto prigioniero col figlio Deo nel castello dai suoi nipoti; un Neri che assedia nel 1390 il castello di Porciano e che ne prende il possesso alla morte dello zio.

Nel Settecento, come successe per altri castelli della zona, fra cui Romena, il castello passò alla proprietà della casata nobiliare dei Goretti de’ Flamini grazie alla «campagna d’acquisti» portata avanti allora dal Conte Giuseppe, ed è rimasta fino ad oggi nella proprietà della stessa famiglia, oggi rappresentata dalla contessa Flaminia Goretti de’ Flamini, che ha sposato George A. Specth, il fondatore dell’attuale museo che il castello di Porciano ospita dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso.

   


1 L’accomandigia è un istituto giuridico medievale caratteristico sorto con ogni probabilità nel contesto feudale del diritto longobardo, che proprio alla gens dei Guidi, riunita appunto in «comitati» (da comes, donde conti), deve la sua maggiore attestazione. Esso consiste in un atto giuridico formale di tipo personale, anche se più o meno scritto, col quale un soggetto (comune o signoria fondiaria) si metteva sotto il protettorato di un altro pari soggetto – ancora comune o signoria – per un periodo di tempo determinato o in perpetuo. L’accomandigia ha dato vita, nel diritto commerciale moderno all’accomandita: rapporto patrimoniale-finanziario fra i soci dell’impresa commerciale omonima.

     

       

 

© 2006 Fernando Giaffreda, testo e foto (tranne le nn. 7 e 9, dal sito www.comune.stia.ar.it, e la n. 8, dal sito www.toscoumbria.com). I video non sono stati realizzati dall'autore della scheda.

    


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