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di Lawrence M.F. Sudbury

   

 

«Incivile, selvaggio, primitivo». Così recita la prima riga definitoria del Dizionario Zingarelli della Lingua Italiana all'aggettivo «Barbaro». E prosegue con: «crudele, inumano, di cattivo gusto, scorretto». Questa è l'idea che più o meno tutti abbiamo ereditato da autori letterari di fine '800 e da insegnamenti storici legati  alla prima scolarizzazione: i barbari sono, come gli indiani in in certi western americani anni '50, i cattivi per antonomasia, i distruttori dell'Impero romano.

Dispiacerà, dunque, ai detrattori delle popolazioni comunemente definite "barbariche", sapere che, chi più, chi meno, come europei siamo tutti etnicamente "barbari" e che le istituzioni del mondo occidentale, per alcuni versi, sono forse più figlie delle cosiddette "invasioni" che del diritto romano. Tutti abbiamo del sangue barbaro, dunque, ma, detta così, questa frase non significa assolutamente nulla, soprattutto perché è il vocabolo "barbaro" che non ha alcun significato.

Procediamo con ordine. Il fatto è che "barbaro" è probabilmente uno dei termini più generici utilizzati in ambito storico. Di per sé, la parola deriva dal latino "barbarus", che a sua volta deriva dal greco " bárbaros, che, infine, a sua volta, discende da una presunta radice indo-europea "BarBar", che, con chiara matrice onomatopeica, stava ad indicare chiunque parlasse con suoni incomprensibili per l'ascoltatore, con un balbettio (probabilmente il termine originariamente indicava proprio il balbettare) indistinto di cui era impossibile comprendere il senso (1). Insomma, barbaro, di per sé sta semplicemente ad indicare "straniero" e, ovviamente, nel corso della storia così come oggi, tutti sono stati e sono "stranieri" per qualcuno.

Che il termine venisse adottato, con significato fortemente xenofobico, dai greci e poi mutuato, con ben più ampio (e persino più spregiativo) uso, dai romani, non vuol dire nulla: i romani per primi erano stati considerati barbari dai greci che, a loro volta, in gran parte, derivavano anch'essi da popolazioni precedentemente considerate barbariche. Insomma, barbaro è, in fin dei conti, un concetto culturale ben più (e prima) che un indicatore storico reale. In questo senso, già Platone lo derideva come un significante vuoto, proprio per il suo «non indicare assolutamente nulla dell'oggetto indicato» (2).

Barbaro, con una sola eccezione in Omero (3), appare frequentemente nella letteratura greca solo dopo il V secolo a.C., quando i greci coalizzati si scontrano con l'Impero Achemenide e così i Persiani diventano i barbari per eccellenza. Sebbene Erodoto scriva: «[...] poiché le opere grandi e meravigliose compiute sia dai Greci che dai Barbari non perdano la loro fama [...]» (4), implicando la possibilità che anche i barbari siano capaci di grandi gesta e opere, è anche da questo momento che il termine comincia ad assumere la sua connotazione negativa, che passerà interamente a Roma.

Anche nella cultura latina troviamo alcune eccezioni nell'opinione sui barbari. Ne è un esempio Tacito, quando scrive: «Scelgono i re per nobiltà di sangue, i comandanti in base al valore. I re non hanno potere illimitato o arbitrario e i comandanti contano per l'esempio che danno, non perché comandano, facendosi ammirare, se sono coraggiosi, se si fanno vedere innanzi a tutti, se si battono in prima fila. [...] Sulle questioni di minore importanza decidono i capi, su quelle più importanti, tutti; comunque, anche quelle di cui è arbitro il popolo subiscono un preventivo esame da parte dei capi» (5), che, però, rimane voce praticamente isolata nel panorama coevo.

Certamente, comunque, i barbari di Tacito sono cosa completamente diversa da quelli di Erodoto, figli di popoli, culture, gruppi etnici radicalmente disomogenei:  come si accennava, quello di "barbaro", nella sua genericità è un concetto che non tiene conto né di fattori cronologici, né di elementi geografici e neppure di risultanze etnologiche. Per comprendere questo punto, è necessario tracciare un breve profilo storico delle supposte "invasioni".

Sostanzialmente, l'unico elemento comune tra i vari ceppi barbarici (e neppure tutti) è una origine unica orientale ed un forte e rapido movimento migratorio verso occidente: fondamentalmente, (quasi) tutti i gruppi avevano le medesime, antichissime (si parla di un periodo addirittura antecedente il 3000 a.C.) (6) radici indo-ariane e, per varie ragioni (dalla necessità di terre fertili, dovuta ad un nomadismo legato a livelli di agricoltura e allevamento tecnicamente molto bassi e aventi come risultato un rapido impoverimento delle terre, alla spinta invasiva di altre popolazioni più forti e con le stesse problematiche di approvvigionamento), in momenti differenti, si mossero verso ovest fino ad entrare in contatto con popolazioni stanziali (o post-nomadiche) di quelle aree.

Proprio a causa della enorme eterogeneità di tutte queste popolazioni, in un discorso generale sulle loro origini come è il presente, è necessario procedere ad una sorta di quadro semplificatorio, concentrandosi  particolarmente su quelle ondate migratorie (perchè tali furono, ben più che "invasioni") che maggiormente toccarono la civiltà romana.

In questo senso, possiamo parlare di almeno due grandi ondate ben differenziate, cronologicamente distanti circa sette - otto secoli l'una dall'altra.

Una prima ondata, situabile intorno al IV secolo a.C. ha come protagonisti assoluti i Celti. Originari probabilmente dell'India settentrionale (7), questa popolazione iniziò una lunghissima migrazione che, attraverso l'odierno Afghanistan (8) e le aree causasiche, li portò a ridosso dell'Europa. Vi è chi afferma che i Dori altri non fossero che un'avanguardia di tale migrazione (9) e, certamente, celtiche erano le origini dei cosiddetti Galati. Numerosi studiosi (10) concordano, comunque, sul fatto che le diverse tribù in cui questo popolo era suddiviso ebbero un centro espansivo comune in Europa nell'area di  Hallstadt (cultura di Hallstadt), nell'odierna Alta Baviera, da cui si irradiarono più o meno in tutta l'area occidentale (Galli in Francia e nell'Italia settentrionale, Celtiberi in Spagna, Piti e Scoti nelle isole britanniche, etc.).

Sono essi i primi antagonisti "barbari" di Roma, quelli che l'epica republicana menziona come nemici praticamente ab initio (si pensi alla storia di Brenno) e che saranno uno dei centri della grande storiografia latina da Cesare in poi.

La definizione dei Celti come barbari secondo l'uso comune odierno del termine è quantomeno problematica: le loro istituzioni sia politiche che, soprattutto, culturali erano a dir poco uguali (in termini di complessità e livello di avanzamento, non certo di omogeneità) se non nettamente superiori a quelle della Roma repubblicana e la spiritualità druidica era così profonda che la sua recente riscoperta ha addirittura dato luogo a movimenti che si inseriscono perfettamente nell'odierna società (11).

Ma quando pensiamo ai barbari, molto probabilmente, nell'immaginario collettivo, l'immagine che mentalmente ci dipingiamo è soprattutto legata al secondo grande movimento migratorio che, pur con avanguardie precedenti, possiamo situare tra il II e il V secolo d.C. e che portò alla caduta dell'Impero d'Occidente (oltre che, conseguentemente, al soggiogamento delle precedenti tribù celtiche romanizzate).

Si tratta, in questo caso, di un movimento ben più composito, che ha origine nella vasta pianura sarmatica, area di substanziamento di gruppi fortemente eterogenei e che trova la sua ragion d'essere nelle microglaciazioni registrate nel periodo in esame (con relative carestie) e nella spinta delle popolazioni mongoliche o paramongoliche orientali (12).

Le direttrici di movimentazione di questa ondata sono, molto schematicamente, riconducibili ad una classica irradiazione dispersiva, con almeno tre nuclei principali:

1) un nucleo che migra verso nord-ovest (Norreni, in seguito più conosciuti come Vichinghi);

2) un nucleo che migra verso sud-ovest, mescolandosi ad avanguardie germaniche pre-esistenti e dividendosi in due ceppi (più o meno corrispondenti a Germani e Slavi), poi frazionati in ulteriori tribù minori;

3) un nucleo il cui arco nomadico è di portata inferiore e che, disperdendosi a cavallo dell'area uralica, darà vita ad una "invasione" più tarda (13).

Da questo quadro si svilupperanno le vere "calate barbariche" che conosciamo e che daranno vita ai sommovimenti che fanno da motore alla caduta dell'Impero, secondo uno sviluppo che tutti conosciamo. Tra il 166 e il 167 d.C. i Quadri e i Marcomanni, spinti da migrazioni in atto alle loro spalle, trovando poca resistenza, avanzarono nel territorio imperiale fino a raggiungere e distruggere Oderzo (presso Treviso). Benché respinti da Marco Aurelio nel 167, il fatto rappresentò un grave colpo alla fiducia nella potenza invincibile dell'Impero. In seguito gli imperatori dovettero spesso ricacciare i barbari che varcavano i confini del Reno e del Danubio. Gli Alamanni furono sconfitti da Gallieno (261), Claudio II (269), Aureliano (270). Altri germani del gruppo orientale, i Goti, dalla metà del III secolo, saccheggiarono la penisola balcanica e le coste dell'Egeo, impegnando Decio (251), Claudio Gotico (269) e Probo (276-282). Alle frontiere dell'Impero aumentava la pressione di Franchi, Burgundi, Alamanni, Sassoni, Angli, Vandali, Longobardi, Gepidi, Eruli. Goti dell'ovest (Visigoti) e dell'est (Ostrogoti) che risiedevano fra il Tibisco e il Don. Barbari erano entrati nell'esercito romano come foederati e si erano stabiliti sulle terre dell'impero come dediticii. Pur continuando a governarsi con proprie leggi, videro riconosciuto il diritto di occupare territori formalmente sotto la sovranità dell'imperatore, ottenendo anche il prelievo di un terzo del raccolto. Fu questa struttura che portò alla creazione dei regni romano-barbarici. La vittoria ottenuta nel 357 dall'imperatore Giuliano sugli Alamanni fu l'ultima valida difesa dei confini, che crollarono entro qualche decennio, non in seguito a una pressione militare superiore da parte degli invasori, visto che le legioni imperiali erano numericamente superiori e meglio equipaggiate, ma semplicemente perché l'esercito romano era diventato una struttura debole, avulsa dalla società: gran parte dei soldati e degli ufficiali erano di origine barbarica, e d'altra parte sempre meno forti erano le differenze tra romani e barbari, perlopiù adeguatisi al modello romano. Così tra il 400 e il 425 tutte le frontiere occidentali crollarono definitivamente. Sul finire del IV secolo l'impero aveva perduto il controllo di parte della Britannia per mano degli Angli e dei Sassoni. I Goti di Alarico invasero l'Italia e saccheggiarono Roma (410), mentre i Vandali passarono in Spagna e poi, col re Genserico, in Africa (429). Già a questo punto l'Impero d'Occidente era morto (14).

Almeno per questi gruppi, sebbene sia piuttosto problematico fare un discorso comune tenendo conto della disomogeneità che li contraddistingue, possiamo pensare ad una immagine reale che si avvicini al quadro in seguito delineato su questi popoli (...incivili, selvaggi, di cattivo gusto...)? Anche in questro caso, a conti fatti, probabilmente no: già leggendo Tacito abbiamo visto come concetti quali libertà decisionale, responsabilità di potere, persino accenni di democrazia elettiva e parità dei sessi, tutti fondamentali per noi oggi, fossero ben chiari e radicati nella mentalità germanica. E che dire del fatto che le loro conoscenze matematiche, fondate sulla base del 12 anziché del 10, fossero così sviluppate che, forse come tramite o per radice comune con i Babilonesi, oggi misuriamo il giorno in 24 ore e l'ora in 60 minuti grazie a loro? E per quanto riguarda il "buon gusto" di questi "barbari", cosa possiamo pensare dei loro gioielli, delle loro rappresentazioni simboliche, dei loro oggetti d'artigianato? Forse, di fronte a tali meraviglie, termini quali "rozzi" o "incivili" non sembrano i più appropriati, così come non lo sembrano leggendo raffinati componimenti quali il Beowulf, il Mabinogion, le storie di re Artù, l'Anello dei Nibelunghi e gli Edda in prosa e poesia (15).

Alle spalle di tutti questi gruppi, comunque, si è detto che spingevano le orde mongoliche e paramongoliche (specificamente turcomanno-tunguse), quelle che, nella visione occidentale, formeranno l'ultimo nucleo invasivo, quello degli Unni. Propriamente, queste popolazioni dovrebbero essere definite Hiung-nu (o Xiungnue), di fatto, prima di procedere verso occidente, intorno al 200 d.C., avevano già lungamente guerreggiato con l'impero cinese e fu  proprio la loro sconfitta da parte degli Han a portarli a migrare dalle steppe verso pascoli più ricchi (necessari per la loro attività principale, cioè l'allevamento dei cavalli) (16).

Su di loro la storiografia, da Roma in poi, ha dato il meglio di sé per rappresentarli come la quintessenza della barbaricità: feroci, predoni, primitivi, deformati  dalle lunghe percorrenze a cavallo, sanguinari oltre l'immaginabile, sporchi e maleodoranti oltre ogni dire e inverosimilmente crudeli. Sicuramente, il loro grado di "civilizzazione" era, al momento dell'espansione di Attila, inferiore a quello di popolazioni stanziate più ad occidente e con maggiori possibilità di contatto con centri culturali più antichi. Nondimeno, probabilmente, uno studio più approfondito delle loro istituzioni sociali ci parlerebbe di una struttura interna fortemente democratica, di una capacità sincretico-culturale di notevole portata, di un sistema giuridico molto rigoroso e di una cultura mitologico-affabulatoria orale che sarà alla base di capolavori come il Kelevala ungro-finnico (17).

Ecco, dunque, che il quadro si va facendo via via più complesso e che comprendiamo come il termine barbaro sia assolutamente inadeguato per esprimere pur semplicisticamente realtà di una stupefacente complessità. Barbaro è il druido celta dai capelli rossicci che arriva ad una comprensione delle capacità curative delle sostanze naturali riscontrabile solo nell'odierna erboristeria; barbaro è il biondo vichingo che sviluppa una complessità di pensiero tale da immaginare come impossibile l'imperiturità degli elementi, persino se essi riguardano le sue divinità (si pensi al Ragnarok norreno); barbaro è il sarmata che pensa tecniche di allevamento e ammaestramento dei cavalli di livello così sofisticato da essere state riprese oggi nelle scuole di equitazione; barbaro è, infine, il tunguso mongolico che sta alla base di ideazioni di strategia militare che lo portano a conquistare metà del mondo da lui conosciuto. E l'elenco potrebbe continuare, scendendo più nello specifico, praticamente all'infinito (18). Ebbene, tra tutti questi ceppi "barbari" l'identità etnica, culturale, sociale, politica è assolutamente nulla.

Solo uno studio ben più attento, puntuale e approfondito delle differenze e delle peculiarità di ciascuna di queste popolazioni, allora, può far superare la disperante genericità di una concezione che abbiamo visto rifiutata già dai più grandi pensatori dell'antichità e farci comprendere come gli apporti di genti diverse, lontanissime tra loro, siano stati tutti ugualmente fondamentali per costruire la civiltà europea dal medioevo in poi. Senza questa volontà di analisi, forse, sarà la nostra visione storica e capacità di scavare nelle radici profonde della nostra cultura a rimanere, in alcuni casi, solo un confuso BarBar.


Note:

(1) Cfr. D. W. Mccullough, Chronicles of the Barbarians: Firsthand Accounts of Pillage and Conquest, from the Ancient World to the Fall of Constantinople, Crown, London 1998, pp. 7-21.

(2) Platone, Republica, Libro XI.

(3) Omero, Iliade, v. 2865.

(4) Erodoto, Storie, Libro VI.

(5) Tacito, Germania, Libro I, citato da: U. Diotti, Le civiltà dell'alto Medioevo, De Agostini, Novara 2001, p. 11.

(6) J. P. Mallory, D. Q. Adams, The Oxford Introduction to Proto-Indo-European and the Proto-Indo-European World, O.U.P., Oxford 2006, p. 41.

(7) P. Berresford Ellis, The Celts, Carroll & Graf, Manchester 2003, pp. 16 ss.

(8) Vi è chi sostiene che il colore rossiccio dei capelli sia unicamente riscontrabile nei geni della popolazione celtica e che, conseguentemente, ogni persona con i capelli rossi debba avere degli ascendenti celti. La presenza di soggetti con tale caratteristica all'interno delle tribù Pashtun e l'usanza molto praticata da soggetti maschili di colorare i capelli con l'Henné sarebbe un indice della lunga permanenza dei Celti in quelle aree. Cfr. Barry Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin, London 200, pp. 36-48.

(9) Berresford Ellis, The Celts cit., pp. 59-81

(10) B. Cunliffe, The Oxford Illustrated Prehistory of Europe, Oxford O.U.P, 1994, pp. 250-254

(11) J.P. Cantrell, How Celtic Culture Invented Southern Literature, Pelican Publishing Company, Los Angeles 2005, passim.

(12) J. B. Bury, Invasion of Europe by the Barbarians, London, W. W. Norton & Company, 2000, pp. 16-28.

(13) Ivi, pp. 49 ss.

(14) AA.VV., Dizionario di Storia Antica e Medievale, http://www.pbmstoria.it.

(15) T.J. Craughwell, How the Barbarian Invasions Shaped the Modern World: The Vikings, Vandals, Huns, Mongols, Goths, and Tartars who Razed the Old World and Formed the New, Fair Winds Press, Londra 2007, passim.

(16) E. A. Thompson, The Huns (The Peoples of Europe), Wiley-Blackwell, Tundham 1999, pp. 37 ss.

(17) Ivi, pp. 89 ss.

(18) Si pensi solo a quanto le istituzioni franche influenzarono tutta la struttura politico-sociale medievale.

   

   

©2008 Lawrence M.F. Sudbury

    


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