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Il primo concetto da tener ben presente per comprendere la religione celtica è che, per circa un terzo della loro storia (e per tutto il periodo che altrove abbiamo chiamato protostoria), i Celti sono stati nomadi impegnati in una lenta e lunghissima migrazione verso occidente. Di conseguenza, il loro sistema spirituale si è sviluppato relazionandosi a tale stile di vita e basandosi su esso. Forse soprattutto da questo deriva la formazione di una religiosità fondata sul contatto con la natura, sul suo rispetto e sul sentirsi sua parte integrante, in un abbandono quasi fatalista al suo corso naturale (2). D'altra parte, è questa una caratteristica tipica di numerose civiltà non stanziali dell'età del bronzo e non sembra affatto un caso che la religione celtica mostri moltissime affinità con altre religioni di culture indoeuropee con cui i Celti erano sicuramente venuti a contatto, in particolare con quella scita. Gli elementi principali su cui tutto il sistema si fonda sembrano apparentemente piuttosto semplici: la reincarnazione della vita, la rigenerazione, la resurrezione e la sacralità di alcune piante, viste come tramite con il firmamento e separazione tra uomo e dei celesti (non a caso attorno ad ogni villaggio c’erano boschi sacri, detti "drynemeton" dove avevano luogo i riti sacri). Ovvio corollario di
una tale "naturalità" religiosa (e del
nomadismo che, essenzialmente, ne è causa fondante) è la mancanza di
edifici di culto: spesso Per quanto riguarda
la religiosità popolare, essa era costituita da
una mitologia accessibile e da una serie di riti che
avevano pian piano inglobato anche alcuni elementi arcaici risalenti
al neolitico e provenienti da culti solari, tellurici e lunari. Ben differente era la religiosità "alta", propria delle classi intellettuali (bardi, indovini e, soprattutto, druidi e sacerdotesse druide): l'idea di fondo era che la vita, con il suo fluido, la sua forza chiamata "oiw", permeasse ogni cosa. Tutte le manifestazioni della natura, anche quelle più violente, erano vissute come un' incarnazione di tale energia assoluta che presiedeva alla creazione e alla distruzione del mondo, in un processo ciclico di nascita e morte che si rinnovava continuamente e da cui derivava il concetto della reicarnazione. Da questa
concezione ciclica
dei tempi e degli eventi e non dalla paura o dalla superstizione
(comunque ben presente a livello popolare) nasceva l'assoluto rispetto
per la natura, vista, in un'ottica che con la sua prossimità
all'induismo non può che avvalorare una origine asiatica dei celti,
come possibile sede di reincarnazione. In realtà, comunque, più che di
ciclicità vera e propria sarebbe più consono parlare di continua
evoluzione. Il
divino stesso era visto come un principio in perenne evoluzione che si
manifestava in
quattro stadi (o mondi) diversi: dal centro (Oiw assoluto) si
passava, attraverso cerchi concentrici, allo stadio della conoscenza
spirituale, poi al mondo fisico, infine allo stato della materia
incorporea inanimata. Più che trasmigrazione da un corpo all'
altro, allora, i celti credevano in un passaggio tra stadi di
conoscenza e
consapevolezza diversi, ottenibile tramite iniziazione. Il corpo del
defunto entrava nel mondo dell' invisibile dove manteneva la memoria
dell' esistenza terrena e grazie a questa, poteva entrare in contatto con i
vivi, in particolari momenti dell' anno (Samhain); poi la memoria
andava via via affievolendosi fino all' oblio definitivo, che apriva
le porte o all' immortalità o di nuovo al mondo fisico. Da questo
processo traeva senso la divinazione, spesso ottenuta tramite trance:
il veggente, in uno stato di coscienza alterata, entrava in contatto
con i morti o con gli dei, che, nel continuum spazio-temporale celtico,
vivevano semplicemente in uno spazio parallelo (ctonio per i morti,
empireo per gli dei, con i quali il contatto era possibile anche
tramite l'osservazione degli astri) da cui era possibile vedere ciò che
alla vista umana era precluso (pur essendo comunque già esistente,con
una concezione del futuro simile ad una sorta di "presente prossimo") (6).Naturalmente, per scavalcare le barriere naturali e seguire le vie dell'oiw, era necessaria una grande sapienza ed una profondissima preparazione, riservata unicamente alla classe sociale più elevata della società celtica, quella druidica. Arriviamo così, nella nostra breve esplorazione della cultura dei "padri dell'Occidente", alla necessità di soffermarci sulla strutturazione gerarchica in cui la loro società si sviluppava.
Così come per l'aspetto religioso, anche per quanto riguarda l'aspetto della stratificazione sociale i Celti mostrano una strutturazione apparentemente semplice, sotto la quale, però, si nasconde una notevole complessità.
Dunque, ad ulteriore dimostrazione di una società fortemente spirituale, erano i druidi a formare la vera classe dominante, seguita, nel periodo precedente a La Tene, da quella dei guerrieri e da quella dei lavoratori, in una prefigurazione di quella che sarà la grande tripartizione sociale alto-medievale. Cerchiamo di analizzare un po' più approfonditamente le caratteristiche di questi tre gruppi.
Coloro che,
invece, erano preposti alla difesa del popolo erano i guerrieri.
La loro carriera era più semplice di quella dei druidi, ma non
di molto. Sostanzialmente,
si
arrivava a esercitare la funzione guerriera solo dopo una lunga e
articolata iniziazione che includeva tanto il rito del passaggio dalla
minore
alla maggiore età, che per il giovane celta avveniva a
diciassette anni, quanto l'addestramento a passare da uno stato
normale a uno stato superiore di coscienza, che comportava la
capacità di attivare e controllare energie straordinarie al
momento del combattimento. In questo modo sia sul piano sociale sia
su quello operativo il guerriero diveniva l'incarnazione dell'oiw. Il
guerriero, che così assumeva in piena consapevolezza il suo
ruolo sociale, morale e religioso, godeva della protezione divina,
come si apprende dal patrimonio mitologico e leggendario celtico,
che veniva mantenuto vivo nella memoria collettiva nelle abituali
riunioni conviviali dei guerrieri (14). Il guerriero maschio era, in ogni
momento della vita, espressione proprio dell'oiw, della forza. Anche
per questo viveva
solo insieme ad altri maschi fino al momento del matrimonio, anche dopo
il quale continuava, comunque, a frequentare prevalentemente comunità
maschili. L'oiw segnava
ogni gesto: dai grandi
banchetti, vere e proprie agapi in cui, tra abbondanti libagioni (anche
il mangiare e bere molto era espressione di forza), non solo si
rinnovavano i rituali di coesione interni al clan, ma, attraverso il
canto di gesta eroiche, si otteneva il riconoscimento della propria forza (per
i celti la fama era la cosa più importante) e, eventualmente,
attraverso duelli, si risolvevano le contese interpersonali, alla
scelta dell'acconciatura (a cui si prestava grande importanza, con
chiome fluenti, spesso tenute dritte con impacchi di gesso, che erano
considerate una riprova della prestanza fisica del loro proprietario).Naturalmente, però, il luogo principe per la dimostrazione del proprio oiw era il campo di battaglia. Il guerriero celta, in battaglia, si dipingeva il volto (normalmente di blu), urlava a squarciagola e, cosa stupefacente per i popoli mediterranei che si scontrarono con gli eserciti celtici, combatteva praticamente nudo, coperto solo da un leggero perizoma.
Ognuno di questi gesti aveva un senso rituale molto forte: si urlava sì
per spaventare il nemico, ma soprattutto per accrescere, quasi a
livello parossistico, il "furor" omicida che la forza faceva nascere
dentro di sé; ci si dipingeva il volto per attirare e convergere le
forze della natura verso la propria testa, sede dell'oiw; soprattutto,
si combatteva nudi per avere il massimo contatto con il nemico, con il
suo sangue e con la terra, che infondeva il "calore del furore" (15). Ancora l'oiw era alla base di una delle pratiche considerate più "barbariche" dei celti (che, è bene ricordarlo, non avevano il concetto di "peccato"): quella di tagliare le teste dei nemici uccisi e impalarle davanti alla propria casa come trofei. In realtà, il significato profondo era quello di interiorizzare la forza del nemico e di mostrargli rispetto, dal momento che una tale pratica stava ad indicare che il nemico ucciso, nella prossima vita, non avrebbe avuto più la testa (e la forza in esso contenuta) e, per questo, sarebbe stato un avversario meno forte che nella vita precedente (16). Un significato tutt'altro che "barbarico", dunque, per un popolo che, tra l'altro, a differenza di ogni altra "razza civile" dell'epoca, si rifiutava di praticare la tortura, ritenuta disonorevole e stupida! Infine, sempre il concetto dell'oiw fu, in buona parte, causa dell'annientamento bellico delle popolazioni celtiche da parte dei romani. Mossi dall'oiw, i guerrieri celti prediligevano il corpo a corpo e la carica d'impeto. Per questo con le spade colpivano, menando dei fendenti, che non si rivelavano mai colpi mortali. Polibio racconta che le loro piccole spade si piegavano dopo i primi colpi. Gli scudi, poi, ben rifiniti ed incisi, erano piccoli rispetto al corpo, sempre perché i Celti confidavano nell’impeto dell’assalto. Dunque i Celti, per via del loro furore e della scarsa tattica, erano destinati a perdere le battaglie contro un esercito organizzato, cosa che, contro Roma, puntualmente avvenne (17).
Comunque, con lo sviluppo tecnico-artigianale tra periodo halstattiano e lateniano (e in quello immediatamente successivo), anche la capacità celtica di produzione artistica raggiunse il suo punto di massimo splendore, donando all'umanità capolavori eterni.
L'architettura, però, fu l'unica forma artistica non sviluppata dalla cultura celtica. In generale, si ritiene che l'apogeo artistico dei Celti sia da collocare tra il V secolo a.C. e il II secolo a.C., ma una datazione in tal senso è quantomai incerta dal momento che la grande riproducibilità del loro repertorio simbolico (nodi, intrecci, spirali e chiavi) portò ad una massiccia estensione dell'utilizzo di tali segni per tutto l'alto medioevo, almeno fino al IX secolo d.C. Opinione comune, comunque, sebbene un piccolo gruppo di ricercatori prenda come punto di riferimento la cultura di Hallstatt, è che tale apogeo sia in stretta relazione con la civiltà di La Tène. Tenendo conto che tale civiltà durò per oltre 400 anni, a puro scopo tassonomico possiamo tenere ancora valida la ripartizione cronologica dei vari stili susseguitisi (in realtà spesso sovrapponendosì) tracciata già dagli anni '40 e che include: stile arcaico, stile di Waldalgesheim, stile plastico e stile delle spade.
In linea generale, probabilmente l'arte della cultura di La Tène derivò dall'incontro di tre tendenze: l'arte classica del Mediterraneo, lo stile geometrico di Hallstatt e, in misura minore, alcuni tratti orientali, forse provenienti dall'Anatolia persiana e dalle aree occupate dagli sciti. Malgrado la sede di fioritura dell'antica arte celtica fosse l'Europa centrale, molti elementi tipici dello stile filtrarono, tuttavia, in numerose altre zone, comprese la penisola iberica e le isole britanniche. In seguito, quando l'impero romano si espanse in tutto il continente europeo, l'asse della produzione celtica si spostò: se le tradizioni dell'Europa centrale e orientale degenerarono in una sorta di classicismo provinciale, le caratteristiche più tipiche dell'arte celtica continuarono a sopravvivere ai margini occidentali dell'Europa, in quelle Isole Britaniche che divennero l'ultimo vero baluardo di una civiltà millenaria (23). NOTE:
(1) Importanti fonti di dati, lungo tutto l'articolo, sono stati: http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Celti/Celti-indice.html e http://www.celticworld.it. (2) O.Davies and T.O'Loughlin, Celtic Spirituality (Classics of Western Spirituality), Paulist Press, Londra 2002, pp. 17-21. (3) L.Laing, J.Laing, Celtic Britain and Ireland: Art and Society, Palgrave Macmillan, Manchester 1995, pp. 83 ss. (4) A. Macbain, Celtic Mythology and Religion, Cosimo Classics, Edimborough 2005, passim. (5) B.Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin, London 1999, pp. 207-218. (6) O.Davies and T.O'Loughlin, Celtic Spirituality cit., pp. 86-102. (7) B.Cunliffe, The Ancient Celts cit., pp. 118 ss. (8) D.Scott, Il cerchio di fuoco. Storia, mito, folklore e magia dei Celti, cit. in http://www.specchiomagico.net/magiaceltica3.htm. (9) Caio Giulio Cesare, De Bello Gallico, IV, 14. (10) Strabone, Geographia, IV, 4. (11) P. Berresford Ellis, Celtic Women: Women in Celtic Society and Literature, Eerdmans Pub Co., Londra 1995, passim. (12) P.Berresford Ellis, A Brief History of the Druids, Carrol & Graf Publishers, New York 1994, pp. 67-74. (13) J. Markale, The Druids: Celtic Priests of Nature, Inner Traditions, Austin, 1999, p. 154-176. (14) L.Laing, J.Laing, Celtic Britain and Ireland: Art and Society cit., pp. 146-182. (15) S.Allen, Lords of Battle: The World of the Celtic Warrior, Osprey Publishing, Bristol, 2007, passim. (16) P.Berresford Ellis, Celtic Myths and Legends, Carrol & Graf Publishers, New York 2002, pp. 31 ss.
(17) Questa particolarità costituì un serio pericolo per
Annibale, nella sua calata in Italia, poiché, in battaglia, la
parte celtica del proprio fronte di attacco era la prima a cedere. Il
generale punico seppe utilizzare questo potenziale difetto a proprio
vantaggio, inserendo i Celti al centro del proprio schieramento,
dando origine alla sua famosa tattica a tenaglia, nella quale il
centro cedeva e risucchiava il nemico che veniva finito dalle ali,
ove era presente la cavalleria. L’unico
re celtico che capì che, in battaglia, bisognava usare una
strategia oltre al furore fu il gallo Vercingetorige, che, impiegando
la tattica della "terra bruciata", minava a colpire gli
approvvigionamenti dei Romani, ottenendo qualche successo. In
particolare, aveva capito che se avesse accettato lo scontro diretto
con i Romani avrebbe perso.
(http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Celti/Celti-indice.html).
(18) B.Cunliffe, The Ancient Celts cit., pp.
41 ss.(19) M.Green, Celtic world, Routledge, Londra, 1995, passim. (20) http://www.celticworld.it. (21) L.Laing, J.Laing, Celtic Britain and Ireland: Art and Society cit., pp. 21-41. (22) M.R.Megaw, R.Megaw, J.V.S.Megaw, V.Megaw, Celtic Art: From Its Beginnings to the Book of Kells,Thames & Hudson, Surrey 2001, pp. 118-169. (23) http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Celti/Celti-indice.html. |
©2008 Lawrence M.F. Sudbury