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                           LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino


 


pAGINA 1

 

Introduzione [1]

A partire dall’anno Mille cominciarono a giungere nelle province meridionali d’Italia quei guerrieri provenienti dalla Normandia i quali, con l’aiuto di forze locali, sconfissero i Bizantini ed i Longobardi, unendo le varie province sotto il loro dominio e formandone un regno.

Ciò fece sì che alcune famiglie venissero in possesso di feudi, ricevendo onori e glorie che tramandarono ai loro discendenti.

A Napoli, la nuova politica di scambi e di relazioni ebbe ripercussioni anche nel campo culturale, letterario ed artistico. La città andò perdendo quel volto orientale bizantino ed arabo favorito dalla dominazione dell’Impero d’Oriente; dal Ducato autonomo, conservato durante il periodo normanno-svevo, acquisì un aspetto occidentale ed europeo.

Per quanto attiene al sistema amministrativo, si deve agli Angioini il recupero dell’organizzazione in Seggi o Sedili. Tale organismo fu creato nel 1268 in continuità con le regiones normanne ed i tocchi svevi, concedendo in tal modo all’aristocrazia locale questo privilegio.

I Seggi o Sedili erano sinonimi di Piazza perché gli edifici che li ospitavano sorgevano negli slarghi delle strade pubbliche. Per la loro architettura vennero anche denominati Teatro, Loggia o Portico. Gli edifici che ospitavano i seggi divennero, nel corso dei secoli, sontuosi ed adorni del proprio stemma e di quello appartenente alle famiglie che li componevano ed erano abbelliti continuamente da affreschi e sculture. Erano costruiti a pianta quadrilatera con arcate porticate ed ampie gradinate prospicienti, con un solo lato chiuso dove era una sala per le riunioni degli iscritti [2]. Questi ultimi erano chiamati Cavalieri di Seggio [3]. Trattavano affari pubblici inerenti il seggio che era un comprensorio territoriale ovvero un quartiere. Le votazioni per deliberare si svolgevano al termine di un libero dibattito.

Il riconoscimento ufficiale delle funzioni dei seggi si deve a Manfredi di Svevia, il quale stabilì che un sessantesimo dei diritti della Dogana di terra e di mare della città di Napoli andasse ripartito tra i nobili patrizi napoletani iscritti ai seggi, per decoro della vita che si svolgeva nel territorio di ciascun sedile.

Prima della riforma angioina, l’istituto dei seggi era composto da sedili maggiori che, in un primo tempo, furono i quartieri più antichi che dividevano in quattro parti la città: Capuana, Forcella, Montagna e Nilo o Nido. A questi si aggiunsero quelli di Porto e Portanova.

I seggi minori prendevano il nome da una nobile famiglia che in quel territorio aveva le case, oppure da una chiesa vicina. In totale a Napoli i seggi, tra maggiori e minori, erano ventinove [4].

La riforma angioina iniziata da re Roberto e portata avanti dalla regina Giovanna ridusse notevolmente gli antichi privilegi dei seggi napoletani. Fu ridotto al minimo il potere amministrativo ed annientato quello politico. Furono soppressi i seggi minori e le famiglie ad essi appartenenti furono aggregate d’imperio al relativo seggio principale. Nel 1684 fu abolito l’antico seggio di Forcella e inglobato in quello di Montagna. In seguito a tali provvedimenti, il numero dei seggi napoletani fu ridotto a cinque, con l’aggiunta di quello del Popolo, con sede in via della Sellaria, “addetto alla Porta di Mercato ed a quella della Marina”. Quest’ultimo, soppresso da Alfonso d’Aragona, fu ripristinato da Carlo VIII.

Essi furono distinti nel seguente modo:

Capuana, presso la porta omonima che esso era tenuto a custodire;

Nido, deformazione della voce originaria Nilo, aveva sede presso la Porta di Costantinopoli;

Forcella, dal luogo delle esecuzioni aveva per simbolo la lettera Y in campo d’oro;

Montagna, nella via Capuana ne custodiva la porta;

Porto, trasferito nella prima metà del Settecento dalla strada omonima ad una sede più importante, presso la chiesa dell’Ospedaletto, proteggeva la porta di Chiaia;

Portanova, detto anche seggio di Porta di Mare, fu ricostruito per la seconda volta nel Settecento su disegno del Lucchesi.

Gli “eletti” dei sedili nel proprio seno, uno per ogni seggio e due per quello di Montagna, formavano insieme a quello del Popolo la Magistratura del Tribunale di San Lorenzo, che provvedeva all’amministrazione della città attraverso le “deputazioni” paragonabili ad assessorati ante litteram.

La prima deputazione, detta della pecunia, riscuoteva le gabelle ed amministrava il patrimonio della seconda; la terza era addetta alla difesa esterna della città ed all’adunanza di una milizia di volontari in caso di pericolo. La quarta provvedeva alla difesa interna, all’approvvigionamento idrico ed al mattonato, ossia alla manutenzione delle strade e dei fabbricati; la quinta deputazione, addetta alla tutela delle garanzie cittadine, aveva la facoltà di inviare, in caso di necessità, ambasciatori a trattare direttamente con il sovrano. La sesta provvedeva ai rapporti con i monasteri; la settima era addetta a tutelare la città dall’instaurazione del Tribunale del Sant’Uffizio; l’ottava, della Zecca, controllava il conio delle monete; la nona sovrintendeva all’Annona e all’approvvigionamento dell’olio e del grano. All’eletto del seggio del Popolo spettava il controllo sui venditori del mercato alimentare [5].

Durante la dominazione spagnola, di tale organizzazione civica il vicereame minò alla base la forza fomentando rivalità non solo tra le classi, ma anche nel seno della stessa nobiltà. Avocando a sé la facoltà di ascrivere ai seggi sia il nuovo ceto in ascesa sia la nobiltà terriera, desiderosa di equipararsi a quella cittadina, Filippo II favorì l’ostilità dei “nobili di seggio” verso i “regnicoli” e verso la nuova élite culturale. Ciò privò i seggi di quelle forze nuove più che mai necessarie contro la disgregatrice politica vicereale.

La compattezza di interessi, sia in seno alla nobiltà che tra questa ed il popolo nel fine comune del bene della città, arrecò all’azione delle due classi quel successo che mancò, invece, quando le divise posizioni ideologiche ne contrapposero gli scopi; esempi emblematici: la rivolta di Masaniello, alla quale mancò l’appoggio della nobiltà e le vicende della Repubblica Napoletana che trovarono il popolo estraneo e addirittura ostile. Su due piani diversi due utopie, quella del pescivendolo rivoluzionario e quella di una rivolta, frutto immaturo per lungo tempo del declinante secolo dei lumi, sorta sull’onda della rivoluzione francese [6]. Certo è che la venuta dei Borbone a Napoli nel primo Settecento aveva dato inizio ad un lungo periodo di riforme legislative rivelatosi propizio per apportare cambiamenti radicali nel Regno.

Carlo III fu il primo re di un Regno indipendente dopo due secoli di vicereame. Abolita per suo ordine la prammatica vicereale che, vietando le case palazziate extra moenia, aveva affollato fastosamente, ma disordinatamente il centro della città, Napoli cominciò ad espandersi verso le colline, verso il borgo dei Vergini, con i palazzi gentilizi dei de’Liguori e dei San Felice: a corona, il casino reale sarebbe diventato, più tardi, la Reggia di Capodimonte.

Altre ed innumerevoli furono le opere fatte eseguire da Carlo III durante il suo regno: la Reggia di Caserta, il Palazzo di Portici, il Forte del Granatello, la fabbrica di porcellane a Capodimonte, la Casina di Persano, l’accademia ercolanense. A Napoli: l’obelisco di San Domenico, il teatro San Carlo compito in 270 giorni, l’obelisco della concezione del Gesù, solo per citarne alcune; Carlo III finanziò gli scavi di Ercolano e Pompei.

Durante il suo regno, confermò alla città partenopea i suoi privilegi tanto che nel 1746 ci fu un nuovo tentativo, questa volta da parte del cardinale Spinelli, di instaurare il Tribunale dell’Inquisizione, ma il sovrano si oppose giurando nella chiesa del Carmine che il Tribunale non avrebbe mai avuto la sua sede a Napoli.

Partito Carlo III per la Spagna , l’opera di cambiamento politico-istituzionale continuò durante il regno di Ferdinando IV che, fino alla maggiore età, era sotto la reggenza del Tanucci, la cui politica ebbe grande influenza sulle decisioni del nuovo sovrano.

Tra le tante opere realizzate si ricordano: la costruzione del primo camposanto a Napoli, avvenuta nel 1762; il popolamento delle isole di Ustica nel 1760 e Lampedusa nel 1765, che tolse asilo ai corsari barbareschi.

Re Ferdinando IV fece costruire tre teatri: quello dei Fiorentini, quello del Fondo e quello di San Ferdinando; la fabbrica dei Granili, l’orto botanico a Palermo, la villa inglese di Caserta, il cantiere di Castellammare, il piccolo porto di Napoli, il palazzo Reale di Cardito e molte strade per collegare Napoli con le province. Riordinò la Marina e l’esercito, fondò l’Accademia per le armi dotte; incrementò l’economia del Regno con la fondazione dei Siti Reali e della colonia serica di San Leucio.

Nel 1768 stabilì che fosse aperta una scuola gratuita in ogni Comune aperta ad entrambi i sessi; con decreto dello stesso anno, prescrisse che in tutte le Case religiose vi fossero le scuole gratuite per i fanciulli; in ogni provincia introdusse un Collegio per educare la gioventù.

Dopo l’abolizione della casa gesuitica fu fondato un collegio per nobili giovanetti, detto Ferdinandeo, ed un Conservatorio al Carminiello per l’istruzione delle orfane povere.

Fu fondata, nel 1778, l’università di Cattaneo e, l’anno successivo, quella di Palermo sotto il titolo di Accademia, provvista di un osservatorio per le lezioni di anatomia, di un laboratorio di chimica ed un gabinetto di fisica. Furono davvero tante le opere fatte eseguire da Ferdinando IV per migliorare le condizioni di vita dei suoi sudditi [7].

Sul calare del secolo settecentesco, la rivoluzione francese favorì l’espandersi nel Regno delle idee giacobine che incisero notevolmente e negativamente sugli ultimi sviluppi politici della monarchia borbonica. In seguito a tali avvenimenti il sovrano fu costretto a rifugiarsi in Sicilia per ben due volte con la propria famiglia aiutato dai nobili rimastigli fedeli.

Dopo il primo umiliante esilio, il 25 aprile 1800, ritornato al potere, in considerazione di quanto accaduto fino ad allora a Napoli, Ferdinando IV apportò una serie di riforme volte a modificare soprattutto l’assetto amministrativo della città partenopea: emanò a Palermo un editto con il quale sopprimeva gli antichi Sedili di Napoli, privando così la nobiltà di ogni suo diritto.

Alla base di questa decisione c’era la constatazione che la monarchia si era rivelata indegna della sua fiducia. I nobili dovevano costituire quella casta che avrebbe dovuto dare lustro allo Stato, ma nel 1799 quegli stessi nobili che avevano goduto della fiducia del sovrano si erano mostrati totalmente indifferenti alle sorti della dinastia e, conseguentemente, non avevano dato prova della fedeltà richiesta, consentendo ad un gruppo di loro rappresentanti di attentare all’autorità sovrana.

Per tali motivi, furono aboliti i Sedili, insieme al corpo degli Eletti della città di Napoli, e fu istituito il Supremo Tribunale Conservatore della Nobiltà del Regno di Napoli, composto da sette membri con l’incarico di compilare il Libro della nobiltà napoletana nel quale le famiglie furono iscritte con l’assenso reale. Questo fu il primo di una lunga serie di strutture analoghe dell’Ottocento, che avrebbero avuto il compito di mantenere inalterati i principi di onore, fedeltà e valore. L’editto del 1800 rivestì una grande importanza nella storia della nobiltà meridionale, come anche la legge del 2 agosto 1806 che aboliva la feudalità, trasformando in modo permanente quella casta dotata di privilegi e di propri organi di rappresentanza in un insieme di persone e di famiglie, se pure con particolari qualità, ma prive di un istituto atto a soddisfarne le esigenze e le aspirazioni.

Così i registri, nei quali il Supremo Tribunale Conservatore raccoglieva l’elenco dei nobili conservandone la memoria, divennero strumenti di un controllo sistematico esercitato da una monarchia in grado di valutare qualità e meriti, di riconoscere capacità e di dispensare cariche e servigi in modo più vessatorio rispetto al passato [8]. Vani risultarono i tentativi dei rappresentanti dei Seggi di far concedere la grazia ai nobili repubblicani condannati a morte che, facendo propri gli ideali rivoluzionari, sacrificarono i loro privilegi pagando con la vita il progredire delle idee di libertà. Tra i tanti si ricordano: Giuliano Colonna di Stigliano, Gennaro Serra di Cassano, Ettore Carafa di Andria [9], Ferdinando e Mario Pignatelli di Strongoli, Francesco Caracciolo, Eleonora Pimentel Fonseca, Luisa Sanfelice.

Privata delle sue funzioni storiche, l’aristocrazia napoletana perse quel rapporto con la città, in nome del quale era riuscita tante volte ad evitarne il disastro. Le sedi dei seggi furono incorporate al demanio e furono ridotte in case e botteghe.

I nobili, così, furono privati dei luoghi della loro identità culturale. Per evitare il disperdersi dell’anonimato, si poteva tentare una riedificazione all’incontrario del censo perduto, mediante la trasmissione di quei valori: tradizioni/memorie/religione, con i quali confermare la propria identità.

Nonostante questi cambiamenti, le grandi famiglie nobili rimaste fedeli al sovrano, continuarono a distinguersi per le imprese compiute in nome di quello status symbol che era stato da sempre loro riconosciuto [10]. Tra quelle più importanti ed antiche vi fu l’illustre famiglia de’ Sangro.

Secondo la stragrande maggioranza delle fonti storiografiche, essa traeva le sue origini da Berengario, dal quale discese Bernardo Francesco, venuto in Italia al seguito di Ugone, duca d’Aquitania. Tale tesi, in passato contestata da Giacomo Bugni [11] di recente è stata smentita anche dal genealogista Davide Shamà.

Secondo quest’ultimo studioso, la documentazione archivistica, se pure insufficiente, fa risalire le origini della casata ad Oderisio, figlio di un conte omonimo non ben individuato, appartenente ad un’illustre casata che possedeva vasti feudi tra la Campania e l’Abruzzo. Questo personaggio appare in un atto del 1093 in cui dona al monastero di San Benedetto, Frattura e Collagnello, i suoi beni allodiali.

Dalla documentazione, sia pure esigua per la linea antica, risulta che Oderisio “professava la legge longobarda”. Sempre secondo Davide Shamà, la genealogia, riportata nei testi ufficiali, è da considerarsi dubbia in vari punti almeno fino alla metà del XIV secolo [12]. Egli afferma che la nobiltà franca aveva il suo limite invalicabile nel ducato di Spoleto. Da tale confine, ed in tutto il Meridione d’Italia, è infatti segnalata la presenza delle sole popolazioni longobarde e bizantine. Per questo non può attribuirsi alla casata dei de’Sangro il titolo comitale, soprattutto ai suoi esponenti vissuti dal XVIII secolo in poi. Essi, memori dell’antico titolo comitale portato dagli antenati, lo usarono per dare lustro ai cadetti quando i loro primogeniti fecero uso del titolo ducale o principesco. Tale titolo era esteso a tutti i maschi.

Alla luce di quanto emerge dagli studi attuali, non esiste altra soluzione razionale se non quella di considerare la famiglia dei conti de’Marsi e di Sangro come longobarda.

Davide Shamà afferma, inoltre, che alla casata non fu mai conferito il titolo comitale dalla dominazione angioina in poi, riferendosi al titolo generico, non a quello acquisito sui feudi. Il titolo comitale fu accettato per tolleranza dalla corte borbonica anche perché, sia nelle fonti cinquecentesche sia in quelle successive, esso non è mai menzionato. Anche se il discorso non è applicabile a tutta la penisola, nelle dinastie italiane, specie per le più antiche, è sempre stato un vanto pretendere l’ascendenza straniera specie francese o tedesca, ma in molti casi anche inglese, polacca, ecc. [13].

è noto che per i periodi più antichi della storia feudale non ci sono molti documenti, pertanto, per molte famiglie, è difficile risalire a prima dell’anno 1000. Non si deve trascurare, inoltre, un aspetto essenziale legato ai mutamenti dei governi e delle dominazioni nel corso dei secoli.

Nel Meridione d’Italia poi, il governo spagnolo si è mostrato estremamente generoso nell’accordare diplomi di nobiltà, che però dimostravano poco e nulla delle ascendenze da alto lignaggio. Nel caso dei de’Sangro, i pochi documenti rimasti, risalenti al secolo XI, delineano una genealogia molto differente da quella riportata nella letteratura ufficiale, mentre forniscono indizi interessanti sulle origini della famiglia.

In primo luogo, i de’Sangro professando la legge longobarda, non potevano provenire dall’Italia Settentrionale con i Franchi, e comunque, non avevano origini né tedesche né germaniche. Poiché la legge era osservata per discendenza etnica di padre in figlio, tra i secoli VIII e XI circa per analogia si è portati a pensare che la dinastia de’Sangro fosse di origine longobarda, come la maggior parte delle casate campano-abruzzesi di quell’epoca.

Altro indizio è l’uso per tutti i maschi del titolo di conte o barone, consuetudine che rimase alla famiglia fino alla fine del 1400 circa. E’ questa una caratteristica della nobiltà longobarda. Secondo le loro leggi, tutti i maschi avevano diritto al feudo e quindi al titolo. Inoltre, la nobiltà longobarda aveva anche la peculiarità di segnalare nei documenti la successione genealogica; un po’ come avveniva per le famiglie ebraiche menzionate nelle Sacre Scritture. Tutto ciò veniva fatto allo scopo di evitare lotte di successione sulle eredità.

Nelle fonti letterarie antiche, specie in quelle cinquecentesche, quando sono citati i documenti che ricoprono l’arco cronologico relativo al 1100-1300, si nota ancora questa caratteristica nel momento in cui ci sono gruppi più o meno numerosi di fratelli e cugini che gestiscono collegialmente il feudo. Nel diritto tedesco o francese ciò non avveniva, il feudo passava al solo maschio primogenito.

Anticamente i de’Sangro in molte scritture apparivano con il cognome “de Sanguine”; il riconoscimento del loro stato nobiliare è documentato a Napoli (nel Seggio del Nilo), a L’Aquila, a Benevento, a Lucera, a Troia, a Torremaggiore, a San Severo e in molte altre città.

La famiglia fu investita di diversi titoli nobiliari tra i quali si ricordano quelli di signori di Belmonte, duchi di Torremaggiore e principi di San Severo, baroni di Bugnara da cui discesero: i baroni di Casignano e Toritto, i duchi di Vietri, i duchi di Casacalenda, i principi di Viggiano, i principi di Fondi, i marchesi di S. Lucido, i duchi di Sangro, i duchi di Martina Franca [14].

La famiglia trova esponenti certi con il conte Teotino, menzionato come padre di Simone già nel Catalogus Baronum [15]. Altro personaggio certo è il conte Simone vissuto tra il 1140 ed il 1160, citato nello stesso catalogo come nipote di Manerius conte di Trivento, investito del titolo di conte del territorio compreso tra Roccasecca, Rocca Tre Monti, Rocca Cinquemiglia, Castel di Sangro, Barrea e Alfedena. Questo personaggio veniva confuso spesso dai genealogisti con il conte Simone I. Tra gli altri discendenti della casata vi è il conte Filippo, investito della contea paterna nel 1160. Partecipò alla congiura contro l’Ammiraglio Maione nel 1162 e, costretto all’esilio, subì la confisca dei beni.

Personaggi altrettanto importanti portano lo stesso cognome ma non ci sono certezze del legame di parentela con quelli innanzi citati: Simone I, morto nel 1168 circa, probabilmente discese dai conti dei Marsi; possedeva i feudi compresi nel territorio di Roccasecca, Rocca Tre Monti, Rocca Cinquemiglia, Barrea e Alfedena. Investito del titolo di conte di Sangro poco dopo il 7 maggio 1166, fu il primo della dinastia a fregiarsi di questo cognome che derivava dal possesso di Castel di Sangro. Nel 1168 fece parte con Roberto conte di Caserta e Boemondo conte di Monopoli della giuria incaricata di giudicare Riccardo di Mandra, conte del Molise. Appartiene alla famiglia anche Riccardo I, conte di Sangro. Fu investito del titolo nel 1168 ed ebbe i territori di Castel di Sangro, Rocca Cinquemiglia, Barrea, Alfedena, Rocca Tre Monti e Roccasecca.

La genealogia sicura incomincia a delinearsi con la presenza di Rinaldo I, morto nel 1248, che avrà una lunga discendenza [16].

Nel corso dei secoli molti esponenti della famiglia presero parte anche alle vicende politiche e sociali della città di Napoli. Secondo alcune fonti, molti furono i personaggi della casata entrati nell’Ordine dei Benedettini; alcuni studiosi sostengono che tra questi siano annoverati: San Berardo, Sant’Odorisio ed il vescovo Leone Ostiense, autore dei primi libri della famosissima “Chronica casinensis [17]. Questa attribuzione di Santi e Beati alla famiglia, secondo Davide Shamà, è da considerarsi dubbia e probabilmente frutto della tradizione popolare. Che poi nei monumenti dedicati ai personaggi della famiglia tale presenza vi sia, come nella cappella Sansevero a Napoli, ciò non costituisce una garanzia dell’effettiva appartenenza degli stessi alla casata [18].

Ma non tutti si distinsero per le gesta eroiche. Qualcuno della famiglia passò alla storia per aver abusato dei poteri conferitigli. è questo il caso di Simone II che, investito del titolo di signore di Bugnara e maresciallo del Regno [19], conquistò con la forza i beni appartenenti alla casa dei signori di Altamura, poiché la sua seconda moglie, Caterina, era la figlia terzogenita di Berardo di Bari, signore di questi luoghi. Con la prepotenza Simone II spadroneggiò nella città di Altamura come fosse il legittimo signore. Nel 1331 pretese che gli ecclesiastici gli versassero le rendite sulle vigne loro concesse da re Roberto.

A tale riguardo il Della Marra, riferisce di un episodio alquanto singolare: poiché don Pietro De Moreriis, tesoriere della Basilica di San Nicola di Bari ed arciprete della chiesa Madre di Altamura, si oppose all’applicazione delle imposte pretese da Simone II, per vendetta la moglie di quest’ultimo, inviò i soldati per distruggere i raccolti delle vigne, al fine di infliggere all’ecclesiastico la giusta punizione per essersi ribellato alla legge imposta dal marito.

Saputo dell’accaduto, il re emanò un editto di condanna dei colpevoli, ma prima che questi ultimi fossero catturati e puniti, riunitisi in gruppi armati uscirono allo scoperto ad avendo avuto i rinforzi dalle terre d’Abruzzo, dove Simone II era signore, saccheggiarono quanto posseduto dagli ecclesiastici mettendo a ferro e fuoco le loro abitazioni. In più, come se non bastasse, depredarono la chiesa degli arredi liturgici, ferendo ed uccidendo i sacerdoti che si erano rifugiati lì. Ma la loro sorte fu subito segnata dalla vendetta poiché essi ben presto furono puniti; il loro capo impazzì e si suicidò, mentre degli altri colpevoli, alcuni furono giustiziati altri condannati alle galere.

Simone e Caterina, data la potenza del loro casato, scamparono alla giustizia regale ma non sfuggirono a quella divina perché da allora furono protagonisti di molte disavventure e, nonostante Caterina per espiare le sue colpe avesse fatto erigere una cappella nella Basilica di San Nicola di Bari, intitolata a Santa Caterina, dotandola di numerose e cospicue rendite, subì la giusta punizione pagando i suoi misfatti con la sterilità essendo stata privata della gioia della maternità [20].

Personaggio di spicco fu Rinaldo di Sangro, che ricoprì la carica di giudice delegato e giustiziere in Capitanata nel 1312-1313 [21].

Figura tra gli esponenti della casata anche Lucido de’Sangro terzogenito di Nicolò, che fu consignore di Bugnara, da cui discese Giovanni, duca di Vietri, Cameriere Maggiore e Maggiordomo del re Alfonso II; per i servigi resi al sovrano, nel 1494 ebbe in dono dallo stesso Alfonso circa mille pecore di razza gentile assortite ed oltre cento vacche con altri beni e privilegi. Sposò Adriana o Andreana Dentice che portò in dote Ischitella, Peschici e Barano. Il primogenito Ferrante fu Doganiere in Puglia e Commissario dell’esercito nella guerra di Siena.

Tra i figli di Ferrante, si ricorda Fabrizio, duca di Vietri, che ricoprì le cariche di Doganiere in Puglia, di Luogotenente nell’esercito del padre e di Commissario generale dell’esercito [22]. Fu Comandante di una compagnia di 300 fanti sulle galere di Andrea Doria. Quando divenne Papa Paolo IV, suo parente, egli vestì l’abito ecclesiastico e fu Legato a Venezia. Nel momento in cui stava per vestire l’abito cardinalizio, scoppiò la guerra tra il Pontefice ed il re di Spagna Filippo I; allora Fabrizio de’Sangro lasciò Roma e si recò in Spagna a combattere per il suo re. Dopo la guerra rimase a Corte e poté godere di vari privilegi, poi si trasferì a Roma. Morto Paolo IV, ritornò in Spagna e poi a Napoli, dove fu decorato del titolo di duca di Vietri e nominato Scrivano di Razione [23].

Un’altra figura di rilievo fu quella di Placido de’Sangro, vissuto nel 1500, che lega il proprio nome al tentativo di introdurre a Napoli il Tribunale dell’Inquisizione. In quel tempo era Viceré Don Pedro Alvaréz de Toledo, cattolico convinto, il quale riteneva che questo Tribunale fosse non solo utile, ma indispensabile. Il popolo, preoccupato per la decisione, inviò una deputazione al fine di convincere il Viceré a desistere da tale proposito, ma Don Pedro non volle cedere; dopo vari tumulti ed alcuni interventi da parte di molti nobili, Don Placido de’Sangro intervenne per evitare la sommossa: grazie a lui, ritornò la pace in città. Il suo provvidenziale intervento lo rese famoso ed il popolo napoletano gli fu sempre riconoscente.

Della linea dei baroni di Bugnara si ricorda poi, Gerolamo, morto nel 1572. Questi si distinse nell'assedio di Malta e, per il suo valore, il Gran Maestro dell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, gli concesse il privilegio, unico tra i nobili della sua epoca, di fregiarsi della croce dell'ordine nel suo blasone. Privilegio ereditario, valido per sé ed i discendenti, estinti con la nipote Flerida [24].

            

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[1] Il presente saggio è tratto dall’articolo intitolato: L’aristocrazia napoletana tra Capitanata e Valle d’Itria: i duchi di Sangro, storia della famiglia dalle origini ad oggi, in « La Capitanata», n. 19/2006, Foggia 2006, pag. 63 e segg., e cfr. sito web www.sardimpex.com  saggio dal titolo: Aristocratici napoletani in Puglia: i duchi di Sangro, nella rubrica “Pagine di Storia”.

[2] Alfonso GAMBARDELLA, Il centro antico, in  AA.VV., I beni culturali per il futuro di Napoli, Electa, Napoli 1990, pp. 22 e 23.

[3] Le loro consorti erano denominate Dame di Piazza.

[4] Lucia LOPRIORE, I Pignatelli in Capitanata, in «La Capitanata», n. 14/2003, Foggia 2003,  pag. 163 e segg. e stesso titolo in questo sito.

[5] Anna Maria SIENA CHIANESE, La Nobiltà Napoletana Oggi, Incontri, Gallina, Napoli 1995, pag. 14 e segg.

[6] Ibidem.

[7] Michele DE SANGRO – Carlo BERNARI, Storia dei Borboni, Lito Rama, Napoli 2001 (rist. anast. del 1884), passim.

[8] Angelantonio SPAGNOLETTI, Storia del Regno delle Due Sicilie, il Mulino, Bologna 1997, pag. 106.

[9] A tale riguardo Nicola della Monica riferisce che il duca d’Andria, giustiziato il 4 settembre del 1799 a Piazza Mercato, volle farsi decapitare in posizione supina per vedere la scure recidergli il capo. Questo gesto di “guardare in faccia la morte” fu riferito a Ferdinando IV che esclamò cinicamente: «O’ duchino ha fatto o’ guappo fino all’ultimo!». Cfr. Nicola DELLA MONICA, Le grandi famiglie di Napoli, Newton & Compton, Roma 1998, pag. 123.

[10] Ibidem, pag. 10 e segg.

[11] Giacomo BUGNI, Le investiture de’Feudi Longobardi dissertazioni sulla famiglia de’Sangro, Tipografia F.lli Testa, Napoli 1870.

[12] A tal fine Shamà fa riferimento a fonti quali l’Archivio Serra di Gerace e all’opera dell’Ammirato, che ritiene inaffidabili per la parte antica, perché non riescono a determinare esattamente tutti i collegamenti tra le numerose linee che costituivano i de’Sangro ancestrali. Cfr. http://www.sardimpex.com ad vocem, e cfr. Scipione AMMIRATO, Delle famiglie nobili napoletane, Firenze, 1580-1651.

[13] A tale riguardo sia Domenico, I° duca di Sangro, sia suo figlio Nicola, vantano l’appartenenza francese della casata con l’affermazione: «Degli Antichi duchi di Borgogna, e Conti de’Marsi […]». Cfr. nel fondo BCMF, Archivio privato Caracciolo – de’Sangro, Buccino Generale, b. 172, fasc. 15, dell’Archivio privato di famiglia custodito a Martina Franca nella biblioteca comunale ed il ritratto di Domenico custodito nel Museo Filangieri di Napoli.

[14] ASNA, Sez. Diplomatica – Politica, Archivi Privati: Archivio Serra di Gerace, vol. III, cc. 1187r, 1200r, 1204r e 1212r; vol. VI, cc. 2063r, 2064r, 2065r, 2066r.

[15] Evelyn JAMISON, Catalogus Baronum, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, 1972, pag. 204 e segg.; Enrico CUOZZO, Catalogus Baronum, Commentario, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1974, pag. 320 e segg.

[16] Ibidem, e cfr. http://www.sardimpex.com

[17] Lina SANSONE VAGNI, Raimondo di Sangro Principe di San Severo, Bastogi, Foggia 1992, pag. 3 e segg.

[18] Ibidem, e cfr. http://www.sardimpex.com.

[19] Ferrante DELLA MARRA, Famiglie estinte, forestiere, o non comprese ne’ Seggi di Napoli, imparentate colla Casa della Marra, Napoli 1641, pag. 94.

[20] Ibidem.

[21] Alfredo PETRUCCI, I più antichi documenti originali del comune di Lucera, in Codice Diplomatico Pugliese continuazione del Codice Diplomatico Barese, vol. XXXIII, Bari 1994, pp. 15 e 17.

[22] Filiberto CAMPANILE, L’historia dell’Illustrissima Famiglia de’Sangro scritta dal signor Filiberto Campanile, Tipografia Tarquinio Longo, Napoli 1615, pag. 67 e segg.

[23] Berardo CANDIDA GONZAGA, Memorie delle Famiglie Nobili delle province meridionali d’Italia, Forni, Bologna 1969, vol. III, pag. 213.

[24] http://www.sardimpex.com

     

Abbreviazioni :

ASDA: Archivio Storico della Diocesi Ascoli S. - Cerignola ASFG: Archivio di Stato di Foggia
ASNA: Archivio di Stato di Napoli BCMF: Biblioteca Comunale di Martina Franca BNNA: Biblioteca Nazionale di Napoli

b. :  busta

c./cc.:  carta/e

cc.nn.:  carte non numerate

doc. cit.: documento citato

duc.:  ducato/i

f.:  foglio

fasc.:  fascicolo

ms./mss.:  manoscritto/i

n./nn.:  numero/i

op. cit.:  opera citata

pag.:  pagina

pp.:  pagine

r.:   recto

s.:  serie

segg.:  seguenti

v. :  verso

vol.:  volume

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