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a cura di Stefania Mola

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Sopra: Cattedrale, il Mausoleo di Boemondo. Sotto, da sinistra, l'interno e la Cattedra di Romualdo.

 

 

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Canosa   Canosa

  

  

     

LA SCHEDA

  

In principio fu la strada, soprattutto la via Traiana, che consacrò Canosa – città dauna già importante e prospera, produttrice di ceramiche e di lana, dapprima alleata di Roma, poi municipium e colonia – crocevia obbligato di ogni itinerario.

Quella strada veicolò anche la precoce e rapida diffusione del Cristianesimo, che ebbe in Canosa la più antica diocesi in Puglia, e nel vescovo Sabino uno dei più attivi committenti di edifici sacri. La cattedrale della città, dedicata proprio a quest’ultimo, ha una storia lunga e travagliata, ed un suo fascino del tutto particolare.

Da Canusium alla città di san Sabino

L'ubicazione non lontana dal fiume Ofanto e la vicinanza alla via Traiana permisero alla città di Canosa di mantenere, anche dopo l'età romana, l'importante funzione di collegamento fra la Puglia e l'Italia centrale appenninica, grazie anche al ruolo di capoluogo della provincia in età tardoantica, nonché all'immagine di città cristiana e diocesi guida per buona parte della regione.

Il primo vescovo che la documentazione ricordi fu Stercoreo – menzionato in relazione al concilio di Serdica nel 343-344 – seguito, dopo una lacuna nella cronotassi lunga un secolo, da Probo, sottoscrittore degli atti del sinodo tenuto a Roma nel 465. La diocesi canosina era in stretta dipendenza da Roma, come attestano le notizie relative ad alcuni dei vescovi presenti ai sinodi romani nei decenni immediatamente successivi: Rufino, tra 494 e 499, Memore, tra 501 e 502, e Sabino (514-566), sotto il cui lungo episcopato la città raggiunse il massimo splendore – religioso e monumentale – seguito dal rapido declino che nel 591 portò la diocesi – ormai vacante – ad essere affidata al vescovo di Siponto.

L'agglomerato urbano tardoantico ed altomedievale si ricostituì sul pendio nord-orientale del colle del castello (l'antica acropoli), a causa dell'abbandono per impaludamento della zona centrale bassa dove si trovavano l'antico foro ed i mercati, mutando radicalmente la viabilità tradizionale e la dislocazione degli spazi di aggregazione; della città presabiniana si conosce l'esistenza della chiesa episcopale, dedicata a S. Pietro, ubicata in posizione marginale rispetto al centro antico, così come la basilica di S. Leucio, grandiosa costruzione a pianta centrale tetraconca edificata in più fasi sull'omonimo colle sui resti di un precedente tempio italico, del quale riutilizzò conci, rocchi di colonne, capitelli figurati e parte del mosaico pavimentale. Anche il vescovo Sabino – protagonista del nuovo volto urbano cristiano di Canosa e ricordato come venerabilis vir restaurator ecclesiarum – intervenne su questo edificio, mutandone tra l'altro l'ignota dedicazione originaria in quella dei SS. Cosma e Damiano; ma soprattutto, fece costruire il nuovo polo episcopale della città, probabilmente in relazione con il tratto urbano della via Traiana, costituito dalla cattedrale di S. Maria, dal vasto battistero dodecagonale intitolato a S. Giovanni nonché dalla basilica dedicata al Salvatore, secondo un disegno (quello delle "cattedrali doppie" o ecclesiae geminatae) tipico dell'età paleocristiana ed altomedievale e di alcuni complessi romani, teso a ribadire i forti legami tra la diocesi canosina e la capitale della cristianità.

Gli antefatti

Già dalla fine del VI secolo la splendida civitas di età sabiniana non esisteva più, anche a causa delle sempre più frequenti scorrerie dei Longobardi di Benevento, dei danni subiti nel corso della guerra grecogotica e del ruolo secondario attribuitole nel quadro del riassetto giustinianeo della penisola a vantaggio – pare – di Lucera, che divenne la nuova sede del governatore provinciale. Fallito il tentativo di riconquista da parte dei Bizantini, Canosa entrò a far parte dei domini di Benevento beneficiando del clima di generale rinascita che interessò l'intero Ducato; la città si apprestava dunque a risorgere per mano dei Longobardi, gli stessi che l'avevano distrutta alla fine del VI secolo.

Le fonti tramandano del miracoloso ritrovamento del corpo di san Sabino, che coincise con la realizzazione – promossa dalla duchessa Teoderada, moglie di Romualdo I – di un sacello nell'antica cattedrale di S. Pietro destinato ad accogliere le reliquie, nonché con la conversione al Cristianesimo dei Longobardi, incoraggiata da Barbato, vescovo di Benevento.

Canosa registrò significativi interventi urbanistici ed edilizi, soprattutto nel corso dell'VIII secolo, tanto da far parlare di una Canusium novum ben distinta da quella vetus; il momento longobardo si tradusse in ristrutturazioni ed interventi sugli edifici cristiani preesistenti, ma anche nella riedificazione di una basilichetta fuori le mura intitolata a S. Sofia, affine nella struttura e nella dedicazione ad alcuni edifici di culto dell'area beneventana. Forse ancora in età longobarda, sullo stesso sito dell'antica cattedrale di S. Pietro (nella quale venne traslato – entro l'818 – il corpo di san Sabino ad opera di un Petrus canusinus archiepiscopus, così come ricordato da un'iscrizione reimpiegata nel pavimento della cripta) si intraprese la costruzione della nuova cattedrale dedicata ai SS. Giovanni e Paolo, benché nessuna documentazione ne assicuri l'epoca di fondazione.

Le storie di una lunga storia

La cattedrale di Canosa rappresenta quanto di più arcaico e fascinoso ci si possa aspettare da un panorama come quello pugliese, fatto soprattutto di maestose cattedrali romaniche dalla sigla inconfondibile nelle quali Oriente ed Occidente si incontrano con equilibrio in un dialogo apparentemente privo di tensioni. Al contrario, la cattedrale canosina, ambiguamente in bilico tra due mondi e due culture – da un lato l'occidente longobardo, dall'altro l'oriente bizantino – risulta vittima di un forzato isolamento che ne accresce inconsapevolmente il fascino antico, anche per la difficoltà di definirne con precisione la data di nascita, che alcuni vorrebbero inquadrare nell'ambito culturale normanno riferendola alla committenza degli Altavilla, ma che i più sono propensi ad inserire nell'orbita culturale longobarda e in modi costruttivi bizantineggianti – per quanto “provinciali” – databili intorno al IX secolo. In effetti sembra assai difficile ignorare l'aura così prepotentemente orientale e remota che emana dalle cinque cupole di un edificio che, ben lungi dall'essere consacrato nel 1101 – in piena età normanna – come pure è stato sostenuto riferendosi alla data di dedicazione, doveva esistere già da tempo con l'intitolazione ai SS. Giovanni e Paolo. La data riportata nella trascrizione di un'antica pergamena su una lapide del transetto si riferisce evidentemente alla nuova dedicazione, studiata come strumento politico per arginare le pretese della curia barese.

Si è detto che poco prima dell'anno 818 il vescovo Pietro, di stirpe regale longobarda, depose sotto l'altare dei SS. Giovanni e Paolo nella chiesa vescovile le reliquie di san Sabino, traslandole dal sacello eretto in precedenza dalla principessa Teoderada presso la stessa S. Pietro. Le ripetute incursioni saracene ed i relativi saccheggi travolsero certamente l'edificio, alla cui ricostruzione parziale si provvide sotto l'amministrazione bizantina tra la fine del IX e gli inizi del X secolo, ed al cui ulteriore ampliamento ed abbellimento si giunse attraverso specifici interventi nel secolo successivo. I Normanni nutrirono una particolare predilezione per la cattedrale canosina, tanto che Boemondo di Antiochia vi fece erigere la sua tomba e Guglielmo duca di Puglia, nel 1118, la dichiarò Cappella Palatina dotandola di beni e privilegi. Si trattò tuttavia di glorie effimere; il declino, l'abbandono, l'incuria, unite ai frequenti terremoti, hanno disperso e stravolto nel corso dei secoli l'originaria fisionomia dell'edificio, i suoi arredi ed il corretto rapporto con il contesto urbano. Nel Cinquecento le pareti d'ambito delle navate laterali vennero sfondate per ricavarne cappelle sepolcrali, mentre nel secolo successivo – fino ai primi del Settecento – fu ricostruita la fiancata sinistra crollata in seguito ad un terremoto. Lo splendore dei mosaici che ancora in quest'epoca decoravano le cupole doveva essere poca cosa rispetto all'irreparabile stato di abbandono e di degrado delle strutture, se nel 1748 Carlo di Borbone – con l'acquiescienza dello stesso arcivescovo canosino – poté permettersi di progettare lo smantellamento delle sei monumentali colonne antiche per destinarle all'abbellimento delle sue regge campane (Caserta e Portici). La mancata realizzazione dell'infausto proposito consentì all'edificio di restare in piedi, almeno sino ai primi decenni dell'Ottocento quando, abbattuta la primitiva facciata, venne aggiunto un nuovo corpo di fabbrica a prolungamento del braccio longitudinale della chiesa.

L’edificio tra passato e presente

Oggi, dopo essere scampati ad ulteriori danni provocati da avventurosi restauri di fine Ottocento – che avrebbero comportato la definitiva perdita della suppellettile marmorea sistemata all'interno – la cattedrale appare quasi a disagio nel mutato contesto urbanistico ed ambientale, soffocata da uno squilibrato rapporto con l'edilizia recente e da un piano stradale che – nella zona dell'abside e del capocroce – la sovrasta di alcuni metri. Superato il disorientamento creato dal brutto avancorpo ottocentesco, virtualmente cancellate le numerose fabbriche posteriori addossate ai muri perimetrali, dell'antico edificio restano le cinque cupole, dissimulate all'esterno dai rivestimenti di forma conica, e qualche tratto di paramento della testata meridionale del transetto in opera listata, tipica dei modi costruttivi bizantini nonché di quelli di età longobarda, che nulla hanno in comune con le tecniche murarie utilizzate nei maggiori edifici di culto romanici della regione. All'interno l'impianto primitivo emerge nelle ultime due campate – sostenute dalle sei grandi colonne monolitiche in verde antico dell'antica Canusium – e nel capocroce al di sotto del quale, in corrispondenza dell'unica abside, si estende un succorpo a tre navate abbellito da capitelli tardoantichi sistemati su alte e sottili colonne di riporto. Come suggeriscono ipotesi recenti, potrebbe trattarsi del sacello che il vescovo Pietro ricavò sotto l'altare dei SS. Giovanni e Paolo per deporvi le reliquie di san Sabino, anche alla luce dell'effettivo ritrovamento di un sarcofago – ornato da croci affrescate –  all'interno di un altare in muratura; e potrebbe altresì indicare che la cattedrale attuale – come d'altronde accadeva il più delle volte – venne edificata sulla stessa area dell'edificio di culto più antico, recuperandone la memoria storica e cultuale.

Con la riconquista della Puglia da parte dei Bizantini, che si insediarono a Bari nell'876 dopo oltre trent'anni di emirato arabo, Canosa – già più volte devastata dai Saraceni – fu costretta a fare i conti con la crescente affermazione politico-amministrativa e religiosa di questa città, divenuta capitale del thema di Langobardia e destinata ad ospitare – dal 975 circa – la sede del Catepanato d'Italia. Nonostante l'associazione dell'antica sede episcopale canosina con la cattedra barese, ben presto la città si ritrovò in posizione emarginata, legata solo formalmente al prestigio di Bari, città dove i vescovi soggiornarono di fatto riservando a Canosa solo sporadici sopralluoghi. La supremazia della curia vescovile barese fu definitivamente sancita dall'arrivo delle reliquie di san Nicola di Mira nel 1087, nonché legittimata dal vero o presunto ritrovamento – da parte dell'arcivescovo Elia – delle reliquie del vescovo Sabino nella locale cattedrale, dove nel IX secolo il vescovo Angelario le avrebbe trasferite per sottrarle ai Saraceni. Una risposta polemica al potere di Bari – che aveva intitolato al santo di Canosa il suo episcopio – venne nel 1101, quando la cattedrale canosina venne dedicata a S. Sabino alla presenza del papa Pasquale II. Nel frattempo all'interno dell'edificio avevano lasciato le loro tracce scultori come Acceptus (autore dell'ambone) e Romualdo (artefice per il vescovo Ursone della cattedra vescovile).

La suppellettile marmorea

La suppellettile marmorea della cattedrale canosina, costituita dall'ambone e dal trono vescovile, rappresenta un importante punto di riferimento per la produzione plastica pugliese della prima età romanica. L'ambone, a cassa quadrangolare su pilastrini ornati da capitelli, con lettorino semicilindrico a lacunari e leggio sorretto da un'aquila ad ali spiegate, è opera dello scultore pugliese Acceptus su committenza del prete Guitberto, come risulta da un'iscrizione sulla fiancata destra in cui l'artefice – oltre a definirsi «peccatore» – si qualifica come «arcidiacono». L'ambone canosino di Acceptus è forse una delle opere tarde del maestro (non dopo gli anni Sessanta dell'XI secolo), che nel 1039 e 1041 aveva firmato e datato analogo arredo nelle cattedrali di Siponto e Monte S. Angelo qualificandosi, in quest'ultimo caso, «scultore». Maturato nella Puglia ancora bizantina, Acceptus realizzò a Canosa – presumibilmente affiancato da maestranze locali imbevute di cultura occidentale, di stampo longobardo e carolingio – un'opera sobria e severa nelle linee architettoniche, caratterizzata dall'intaglio duro e metallico dei partiti decorativi, nonché da una vigorosa e rude forza espressiva. Quanto di più lontano dall'aura sfarzosa ed orientaleggiante del trono marmoreo, oggi sistemato in fondo all'abside, eseguito dallo scultore Romualdo per il vescovo Ursone, così come si evince dall'iscrizione posta all'esterno del bracciolo sinistro. Forse frutto di un rimaneggiamento – attribuibile agli anni Ottanta – di un più semplice seggio coevo all'ambone di Acceptus, il trono episcopale è sostenuto da due elefanti e presenta – al di sotto del sedile – una lastra decorata con aquilette, mentre grifi e sfingi si affrontano sulle formelle laterali. La sua struttura, non priva di incongruenze e squilibri tra schienale, braccioli e parte inferiore, fa pensare che si possa trattare – in senso spirituale e politico – di un oggetto dal valore fortemente simbolico, destinato – più che ad accogliere fisicamente la persona del vescovo – ad evocarla idealmente durante la sua assenza. Fasto, decorazione e segni del potere accentuano il carattere profano di un arredo assimilabile per molti versi ai troni di principi ed emiri, se non fosse – a parte l'iscrizione dello schienale – per la piccola croce al centro del trave frontale, che ci ricorda la sua destinazione ecclesiastica.

Nel segno dei Normanni: il mausoleo di Boemondo

Nel periodo della crisi della dominazione bizantina e dei primi interventi normanni la cattedrale fu sede del vescovo di Canosa e Bari, fino alla fine dell'XI secolo, per cui appare assai probabile un coinvolgimento diretto (se non addirittura la committenza vera e propria) della casa d'Altavilla nell'abbellimento del maggior edificio di culto della città, tenendo anche conto che fu Roberto il Guiscardo – nel 1079 – a trasferire dalla sede di Rapolla il vescovo Ursone, e che il figlio Boemondo – morto nel 1111 – fece erigere il suo mausoleo sul fianco meridionale dell'edificio.

Il cosiddetto mausoleo di Boemondo si presenta come una singolare costruzione quadrangolare monoabsidata, interamente rivestita in marmo e sovrastata da una cupoletta innestata su un tamburo ottagonale ritmato da colonnine. Di icnografia probabilmente orientale, l'edificio esprime – nella complessità dei problemi legati alla sua effettiva funzione, nonché nel suo legame con la chiesa cattedrale – tutta una serie di riferimenti alla vicenda personale di Boemondo d'Altavilla, principe di Antiochia qui sepolto tra 1111 e 1118 per volontà della madre Alberada, riassunta nelle iscrizioni latine incise sulla cornice del tamburo e sulla porta bronzea.

Protagonista ed eroe della prima crociata, grande condottiero oltre che accorto diplomatico, Boemondo contribuì a convogliare a Canosa e nel suo territorio molti oggetti preziosi – forse parte del bottino di Antiochia e di Gerusalemme – come icone, stauroteche, tessuti, argenti ed arredi liturgici, quali ad esempio il celebre flabello eucaristico della cattedrale. Se la prima generazione di dinasti normanni – Roberto il Guiscardo compreso – aveva scelto come personale pantheon dinastico una chiesa monastica (la SS. Trinità di Venosa), con Boemondo venne inaugurata la consuetudine del legame con la chiesa cattedrale (lo stesso fratello Ruggero Borsa fu sepolto nel quadriportico della cattedrale di Salerno), secondo una tradizione già seguita in Italia meridionale da vescovi e principi longobardi, nonché successivamente in Sicilia dagli stessi normanni.

Le porte di bronzo

I Normanni in Italia meridionale e Sicilia furono tra i massimi committenti di porte di bronzo, tanto da poter rivaleggiare in questo campo con alcuni papi, nonché con i grandi imperatori d'Occidente e d'Oriente come Carlo Magno e Giustiniano. La prima metà del XII secolo si caratterizzò per la massiccia diffusione di questo tipo di manufatto, passando dall'importazione da Costantinopoli alla produzione locale modellata su quegli esemplari, e riservando alla porta di bronzo il compito di riflettere «fatti di attualità viva e sofferta, timori ed auspici di comunità e di singoli», come accadde a Troia con il vescovo Guglielmo e con la porta laterale della cattedrale, nella quale si proclamava a gran voce il diritto d'indipendenza della civitas troiana e dei suoi pastori. Nel caso delle porte che serrano l'ingresso del mausoleo canosino – edificio non sacro – il messaggio eternato nel bronzo si fa invece del tutto funzionale «all'apoteosi del principe che vi è sepolto», degno sigillo dell'evocazione – tra storia e leggenda – della vicenda personale di Boemondo d'Altavilla.

Le due valve che costituiscono la porta sono state assai discusse in sede critica per alcune evidenti incongruenze tecniche e formali. L'una (la sinistra), di maggiori dimensioni, fusa in un solo blocco ed ornata da dischi con motivi arabizzanti e da una maschera leonina, reca la parte conclusiva dell'iscrizione in onore di Boemondo, e potrebbe essere il frutto del rimaneggiamento di una precedente porta appartenente forse alla stessa cattedrale. L'altra (quella di destra) è invece costituita da quattro pannelli separati, con figurazioni incise e in origine ageminate, riferibili a Boemondo e Ruggero Borsa da un lato, nemici in vita e ricongiunti in morte nell'orazione alla divinità (forse l'immagine di Cristo o della Vergine, oggi non più leggibile), e a Boemondo II e Guglielmo dall'altro, i figli dei due fratelli rivali, uniti con lo zio Tancredi nella promessa di concordia e di pace, secondo un messaggio squisitamente politico di augurio per il futuro della dinastia.

La valva destra è firmata da Ruggero da Melfi, artefice meridionale che interruppe la tradizione delle porte commissionate a Bisanzio smorzando, con toni pacatamente occidentali, la forte impronta islamica dell'intero manufatto, e restituendo all'incisione nel bronzo un suo valore propriamente e fortemente disegnativo, capace di costruire figure dotate di una consistenza plastica tutta occidentale.

    

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO:  

P. Belli D’Elia, Puglia romanica [Patrimonio artistico italiano], Milano 2003, pp. 92-105

                

   

  

©2003 Stefania Mola

   


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