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  a cura di Giuseppina Deligia

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Le immagini:  pag. 1    la scheda    testi da consultare


Basilica di S. Antioco, l'esterno e l'interno.

   

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mappa della località

 

Particolare dell'interno  La cupola  L'accesso alla cripta

    

 

     

La nostra basilica ha dato il nome all’isola e al centro di S. Antioco, che occupa il sito dell’antica città di Sulcis, porto d’imbarco del piombo argentifero estratto nell’entroterra.

Di fondazione fenicia (metà dell’VIII sec. a. C.), la città fu sede episcopale, documentata a partire dal 484, ossia da quando un suo vescovo, Vitalis, partecipò al sinodo di Cartagine.

Nessun documento però specifica il titolo della cattedrale prima della bolla del 1218 con cui papa Onorio III prende atto del trasferimento della diocesi sulcitana nella chiesa di S. Maria a Tratalias.

A favore dell’identità fra la cattedrale di Sulcis e la nostra chiesa vanno la scoperta di un possibile fonte battesimale (ritrovato a metà degli anni ’80 dello scorso secolo) e l’ubicazione del complesso martiriale nella zona cimiteriale fuori le mura, urbanizzata per la funzione poleogenetica esercitata dal centro episcopale, nettamente distinto dal Castello Castro, una fortezza bizantina situata presso il ponte romano nell’istmo d’accesso alla città.

Risale al 1089 la prima menzione di un monasterium sancti Antiochi, donato dal giudice cagliaritano Costantino-Salusio II de Lacon-Gunale ai Vittorini di Marsiglia e riconsacrato dal vescovo suscitano Gregorio nel 1102.

Non deve assolutamente stupire l’assenza, fra i testimoni che presenziarono all’atto di donazione, dell’autorità ecclesiastica locale, né tantomeno il fatto che il giudice potesse disporre a suo piacimento della chiesa, poiché nel documento del 1124, relativo alla donazione dell’omonima isola alla mensa episcopale del Sulcis da parte del giudice cagliaritano Mariano –Torcotorio  II del Lacon-Gunale, del figlio Costantino-Salusio III e della moglie di lui Preziosa de Lacon-Zori, si dice esplicitamente che la suddetta chiesa era proprietà della famiglia giudicale in virtù di alcuni diritti ereditarii.

Purtroppo non possediamo alcun dato sullo spopolamento del sito, sopravvissuto come centro devozionali fino al 1615, anno in cui l’arcivescovo di Cagliari, Francisco de Esquivel, ordinò una ricognizione nel santuario ipogeico per confutare il preteso ritrovamento delle reliquie di S. Antioco a Porto Torres e dimostrare la tradizione, che sulla scorta dell’iscrizione del vescovo Pietro le ubicava nel sarcofago entro cui si verificò l’inventio e ove oggi è inserita la famosa epigrafe dedicatoria medioellenica in cui viene tramandato il nome dinastico dei giudici di Cagliari: il protospatario Torcotorio, la moglie Nispella e l’arconte Salusio suo successore (seconda metà del X - inizi dell’XI secolo).

Da un esame delle strutture originarie ancora esistenti si riesce a rilevare un corpo centrale cupolato, forato da quattro arcate che hanno origine da massicci piloni con spesse cornici d’imposta. Il raccordo fra dado e cupola è risolto tramite scuffie a quarto di sfera, con peducci modellati a zampa leonina (quelli verso est) e a guscio di tartaruga (quelli verso ovest), con un possibile riferimento iconologico all’opposizione luce divina, Cristo/tenebre infernali, Lucifero.

Per quel che riguarda la planimetria esatta dell’edificio originario rimane l’incertezza fra uno schema a croce inscritta, del tipo di quello del S. Giovanni di Sinis, ed uno a croce libera. Secondo Renata Serra, questa seconda ipotesi è la più probabile poiché un vano angolare sud-est (per capirci l’odierna sagrestia) non sembra poter essere mai esistito a causa della roccia emergente ben oltre la roccia del martyrium.

L’attuale interno longitudinale della chiesa è frutto dell’aggiunta delle navate laterali e dell’innesto di due vani absidati (perfettamente orientati) ai quattro bracci voltati a botte e al corpo centrale cupolato di una chiesa altomedievale cruciforme, dal cui arredo liturgico deriva un consistente gruppo di marmi mediobizantini.

Data l’entità dei successivi interveti edilizi (le prime campate e la facciata sono frutto di interventi sei-settecenteschi) è assai difficile distinguere le strutture d’impianto da quelle di rifacimento; anche perché queste ultime sono state eseguite con gli stessi cantoni in arenaria  e grossi conci bugnati in basalto (di spoglio dalle mura di Sulcis), utilizzati anche nelle absidi, che rivelano la loro età protoromanica nel catino con estradosso rientrante sul filo dell’imposta. A livello delle fondamenta, l’apparecchio murario rivela grossi blocchi  di riuso, in pietra vulcanica lavorata a bugne con tecnica punica.

Per quanto riguarda il materiale scultoreo ivi  ritrovato meritano attenzione: una lastra con Pegaso (affissa nell’ingresso laterale aperto nel XVII secolo) e un’altra con figura di tibicino (murata nella cripta), che si lega stilisticamente a due marmi rinvenuti a Perdaxius, ma provenienti dal S. Antioco.

Dal braccio sud si accede alle catacombe (formate da un complesso di salette, loculi, arcosoli e tombe) passando per il santuario ipogeico, dove un giro di sei colonne segna il percorso devozionale attorno al sarcofago del martire che richiama la funzione e l’immagine del deambulatorio nella cripta dell’abbazia di S. Vittore a Marsiglia.

L’uso di spogli eterogenei e la scalettattura inversa delle cornici parietali, nonché del capitello su cui scaricano i due archivolti di raccordo alla chiesa, rimandano ai modi delle maestranze attive fra il 1089 e il 1119 alla fabbrica vittorina del S. Saturno di Cagliari.

Per rendere il più completa possibile la visita alla piccola isola di S. Antioco consiglio vivamente di visitare il museo archeologico e gli scavi dell’antica Sulcis, così da avere una visione completa della lunga storia di questo territorio.

   

TESTI DA CONSULTARE

  

R. Delogu, L’Architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953;
M. Botteri Guida alle chiese medievali di Sardegna, Sassari 1979;
R. Serra, La Sardegna, in Italia Romanica, vol. X, Torino 1984
R. Coroneo, Architettura Romanica dalla metà del Mille al primo ‘300, Nuoro 1993.

                     

   

   

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