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  a cura di Giuseppina Deligia

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Sant'Antioco di Bisarcio (Ozieri); sopra: la facciata; sotto, l'interno.

 

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Ozieri  Ozieri

 

Particolare protome umana in pietra verde della facciata  Particolare del leone stiloforo in facciata  La bifora della facciata originaria  Particolare della decorazione a losanghe delle testate posteriori delle navatelle  Particolare degli archetti a sesto acuto  La cappa a forma di mitra posto al piano superiore del nartece

    

   

     

La chiesa di S. Antioco, realizzata interamente in pietra locale (trachite scura), sorge in aperta campagna a qualche chilometro dall’abitato di Ozieri.

Nell’area intorno alla cattedrale si conservano consistenti ruderi dell’episcopio e del borgo medievale di Guisarchu. La facciata è costituita dalla parete frontale del nartece che è diviso da una modanatura, in cui compaiono frammenti dell’antica decorazione fitomorfica, sorretta da mensoline di ridotte dimensioni e interrotta al centro da una protome umana.

La parte inferiore è movimentata da tre arcate a tutto sesto; quella sinistra ha la ghiera ornata con figure di angeli e santi, le cui teste superano l’altezza del fregio e con le spalle  si staccano nettamente dal piano di fondo, disposte in posizione radiale (due per ogni concio).

Al suo interno probabilmente si apriva, come nell’altro lato, una bifora (oggi murata) di cui restano superstiti i due archetti (con le ghiere interne di rifacimento) che mostrano tracce dell’antica decorazione sempre fitomorfica e, superiormente, sono incorniciate da un fregio a rombi.

Questi due archetti poggiano al centro su una mensola con due protomi umane (la destra con un volto giovanile e la sinistra con un volto barbuto più anziano) e, lateralmente, sui capitelli con foglie d’acanto e caulicoli (un tratto di quello destro e di rifacimento) della parasta e del semipilastro. Sopra questi due archetti è visibile un oculo inserito in un concio quadrato con un fregio vegetale.

L’arcata centrale, che poggia sui capitelli a foglie d’acanto e caulicoli dei semipilastri che l’affiancano, dà accesso all’interno del portico.

Sopra questi capitelli sono ancora visibili due protomi, una per parte, in pietra verde «…mascheroni sorgenti di foglie, che alludono al tema dell’ “homo salvatius”, spaventoso abitatore della foresta…» (Poli, p. 181).

La ghiera interna di quest’arco è formata da ventitre cunei che all’interno hanno incisa una rosetta, eccetto il secondo e il dodicesimo (serrature), il nono (libro aperto), il tredicesimo (croce astice) e il quattordicesimo (calice). La ghiera mediana è decorata per un breve tratto con un fregio a foglie d’acanto inframmezzate da caulicoli muniti di coroncina e terminanti a volute; mentre quell’esterna presenta tracce dell’antico fregio con scolpite scene agresti.

Partendo dal basso si può notare un cinghiale (o forse un maiale) e una capra, forse divisi da un albero, evocazione della foresta; si può vedere poi un uomo vestito con una tunica corta a mezza manica; il panneggio è trattato con solcature parallele e profonde. L’uomo ha i piedi in posizione itinerante e con la mano destra (la sinistra è spezzata) regge un guinzaglio fissato al collo di un cane, seguito da un toro dalle lunghe corna, forse già atterrato.

Nell’arcata destra si apre una grande bifora sostenuta al centro da una colonnina con solcature elicoidali  e leone stiloforo di cui, anche se molto eroso, si può ancora dedurre la criniera. I due archi della bifora poggiano su un capitello di rifacimento (pare che l’originale sia quello conservato all’interno della chiesa), mentre è originale la mensola taurina che lo sormonta.

La ghiera esterna di questi archetti è scolpita con un motivo fitomorfo ed è incorniciata da un fregio a denti di sega, che ritroviamo nella ruota cosmica posta al di sopra. L’arcata più grande presenta lo stesso presenta lo stesso fregio fitomorfico con palmette a verso alternato, anche se in questo caso è sostenuto da piccoli dentelli, del tutto simili a quelli che sorreggono la modanatura.

In alto, tra le arcate, sono collocati quattro alloggi, ornati da giri concentrici di triangoli, per bacini ceramici. Al di sopra della modanatura si apre, al centro, una grande monofora affiancata sulla destra da una feritoia. Inoltre, sul lato destro è visibile una teoria di quattro arcatelle (la prima è murata) a sesto acuto, che in alcune parti della ghiera mostrano frammenti dell’antica decorazione a fregio fitomorfo.

Tutti gli archetti sono sostenuti da protomi: le centrali rappresentano delle figure grottesche, mentre nelle due laterali dovrebbero essere raffigurati dei visi femminili date le acconciature.

Al di sopra di questi archetti corre una modanatura con due diversi fregi a foglie separati da una merlatura, sormontata da due colonnine che sorreggono parte di una cornice a guscio. Proprio sotto i due spioventi del tetto è incisa una figura di non facile interpretazione.

Sulla parasta destra sono tuttora visibili i conci di ammorsatura di una qualche struttura che collegava la chiesa all’episcopio. Sia i lati bassi che quelli alti dell’edificio sono decorati da una teoria di archetti pensili (la maggior parte di rifacimento) poggianti su mensole variamente ornate.

Sul fianco sinistro, in prossimità della facciata, sono visibili due contrafforti di fattura recente. Sempre in questo lato si nota una differenza nel paramento murario fra parte inferiore, con cantonetti sbozzati, e parte superiore, con conci squadrati; e nei fori per i ponteggi, che rivelano l’uso di travi a sezione rettangolare nella prima fase, quadrata invece nella seconda; differenze che sono prese a testimonianza dei tre diversi momenti costruttivi che hanno interessato la fabbrica proposti dal Delogu (1953, pp. 76-120/124-152-155), e comunemente accettati dalla critica successiva.

Le testate posteriori delle navatelle sono decorate da due arcate (nei cui campi è visibile una losanga gradinata inserita in una cornice di pietre verdi) poggianti, lateralmente, sui capitelli gradinati delle paraste e, al centro, su una mensola con foglia ritorta. Al centro di ogni testata si apre una lunga monofora con centina a doppio strombo e davanzale segnato da cornice scalettata.

L’abside semicircolare poggia su uno zoccolo a scarpa ed è impostata al muro attraverso le paraste angolari che delimitano le due testate delle navatelle. è divisa da semicolonne con base gradonata e capitello fitomorfo in cinque sezioni (nella centrale si apre una monofora simile alle altre), ognuna delle quali contenente un arco a tutto sesto e doppia ghiera nei cui campi sono inserite delle losanghe in tutto simili a quella già descritte.

Sul lato destro, in prossimità della zona absidale, si erge quel che rimane (ossia il primo, e parte del secondo ordine) del campanile a canna quadrata. Ogni faccia è divisa in due (ognuna contenente due archetti) da una lesena.

All’interno il portico è coperto da volta a crociera con archi trasversali a tutto sesto sorretti da due pilastri cruciformi e, lateralmente, dai capitelli con foglie d’acqua divise da caulicoli delle lesene addossate al muro.

Sulla destra una scalinata addossata al muro conduce ad una porta che, tramite una stretta e bassa gradinata, da accesso al piano superiore costituito da tre vano voltati a botte longitudinale e comunicanti fra loro attraverso archi a tutto sesto. Nel primo vano, in controffacciata, troviamo la cappa di una camino dalla singolare forma di mitra bordata da un fregio fitomorfico; nel secondo si apre la bifora dell’originaria facciata sorretta dal capitello a stampella della colonnina centrale.

Al di sotto si trova l’altare (oggi di restauro) a cui si riferisce l’iscrizione leggibile sulla parete sinistra: CONSECRATUM EST HOC ALTARE AD HONOREM S(AN)C(T)I IACOBI AP(OSTO)LI / S(AN)C(T)I T(H)OM(A)E AECHIPR(A)ESUL(IS) ET MARTIR(IS) ET S(AN)C(T)I MARTINI / EP(ISCP)I ET C(ON)F(ESSORIS) S(AN)C(TAE) CECILI(A)E VIRG(INIS).

L’ultimo vano è quello più malconcio poiché oggetto di un crollo che ha interessato anche la parte sinistra del prospetto anteriore. In tutti e tre gli ambienti è ancora visibile in successione parte della decorazione della prima facciata che doveva essere divisa in più ordini (almeno tre) da una modanatura a sguscio con listello.

L’ordine mediano era movimentato da una teoria di arcate (nella centrale si apre la bifora) nei cui campi si possono ancora vedere le losanghe gradonate. Nel frontone, in posizione assiale, si apre una luce cruciforme. Un po’ ovunque nei muri del nartece sono visibili le tracce lasciate dai pellegrini di passaggio.

Si accede all’interno della chiesa tramite un portale con architrave monolitico, arco di scarico a sesto rialzato e lunetta ribassata di un concio.

La navata centrale, con copertura a capriate lignee, è divisa da quelle laterali, coperte con volta a crociera, da archi a tutto sesto sorretti da robuste colonne con basi attiche su plinto quadrato e capitelli a foglie e rosette a sei petali da cui spuntano protomi umane piriformi.

La prima attestazione del Sant’Antioco di Bisarcio si colloca tra il 1065 e il 1082 in due atti di compravendita in cui è menzionato Mariano I de Lacon-Gunale. Tali documenti si riferiscono ad una situazione anteriore al grande incendio che devastò la cattedrale poco prima del 1090 e che comportò anche la perdita dell’archivio vescovile.

Il Delogu per primo individuò i resti di questa prima fabbrica nella parte inferiore del lato sinistro (1953, pag. 76), propendendo poi (pp. 121-125) per una datazione della seconda fase attorno all’anno 1153 ed ipotizzando la presenza nel cantiere di due diverse maestranze: innanzitutto quelle tosco-lombarde provenienti da S. Giusta (Oristano) sul finire del decennio 1140-50 e poi, fra il 1150-60, quelle francesi provenienti dal cantiere di S. Maria di Corte (Sindia). Inoltre per l’autore (pp. 152-155) il portico è da riferire ad una terza fase costruttiva e rappresenta un caso unico sia nell’Isola che in Toscana dove sono assai rari i narteci a due piani.

Dato il suo carattere spiccatamente francese il portico di Bisarcio deve essere considerato «… come una derivazione delle “galilées” provvisto, com’è, di altare e messo in comunicazione con la chiesa attraverso la bifora».

Dopo quest’incendio e fino al momento della costruzione della nuova cattedrale di Bisarcio, avvenuta circa una settantina di anni più tardi, i suoi vescovi risedettero ad Ardara. Infatti nell’atto del 1139 con cui Ugone, vescovo di Orotelli, dona la chiesa di S. Pietro di Ortillen ai Camaldolesi compare un Mariano vescovo di Ardara (Ardarensis episcopus), titolo improprio che deriva appunto dal luogo in cui risiedeva il vescovo di Bisarcio.
   
   
TESTI DA CONSULTARE

  

R. Delogu, L’Architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953.
F.  Amadu (don), La diocesi medievale di Bisarcio, Cagliari 1963
R. Coroneo, Architettura Romanica dalla metà del Mille al primo ‘300, Nuoro 1993.
F. Poli, La decorazione scultorea del Sant’Antioco di Bisarcio, in SACER, Bollettino dell’Associazione     
               Storica Sassarese, Sassari 2000, pp. 167-199.

            

   

   

©2005 Giuseppina Deligia

               


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