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DUE IPOTESI. Si sta per concludere nel Laboratorio di Restauro della 
Soprintendenza P
sae della Puglia, il restauro di un dipinto su 
tavola duecentesco raffigurante san Francesco. Potrebbe trattarsi 
dell'opera commissionata da Federico II dopo il presunto passaggio 
barese di san Francesco di ritorno dalla Terra Santa.
Oppure essere «semplicemente» una delle opere più antiche dedicate 
al santo, che anche in Puglia godette di un culto precoce e 
radicato. Al punto da indurre il popolo a usarlo come simbolo 
positivo di fronte all'arroganza del potere di Federico II».

MARILENA DI TURSI

 

San Francesco dei Baresi

 

Un dipinto del Duecento riscrive la nostra storia

 

La tavola restaurata sarà presentata ufficialmente con una grande mostra la prossima primavera

 

  


In attesa che la mostra in preparazione per la prossima primavera ne consacri il definitivo ingresso nella comunità scientifica, la tavola duecentesca raffigurante san Francesco è, nel Laboratorio di  restauro della Soprintendenza al Psae della Puglia (con sede Bari nel complesso di San Francesco alla Scarpa), oggetto delle ultime  accurate puliture. Quelle che hanno permesso già di ipotizzare che  si possa trattare del più antico dipinto a soggetto francescano  della nostra regione e, presumibilmente, che possa essere identificato proprio con la tavola commissionata da Federico II di Svevia.

Della vicenda si ha notizia attraverso la leggenda riportata da  Giovanni di Bitonto nel sedicesimo secolo, secondo cui nel castello  svevo di Bari si doveva trovare un'icona dedicata a san Francesco. Era stata, sempre seguendo il racconto, richiesta dall'imperatore a suggello della sua devozione per il poverello di Assisi, conosciuto personalmente dopo che questi, di ritorno dalla Terra Santa, aveva accettato l'invito a fermarsi nel la residenza barese del sovrano. Fin qui la leggenda, avallata per certi versi anche dagli storici che hanno convenuto circa un plausibile passaggio del santo a Bari intorno ai primi anni del Duecento, e che hanno altresì ritenuto verosimile una sua permanenza nel convento di Santa Caterina, in seguito sostituito con il complesso di San Francesco alla Scarpa, attuale sede della Soprintendenza.

Di questo suo temporaneo domicilio esiste un ulteriore riferimento nella Legenda sancti Francisci, major et minor del 1261 di Bonaventura da Bagnorea, il teologo e dottore della Chiesa entrato nell'ordine francescano nel 1257, che si spinge finanche ad indicare nel 1222 l'anno esatto dell'arrivo di san Francesco nel capoluogo pugliese.

La tavola duecentesca è giunta nel Laboratorio di restauro della Soprintendenza su segnalazione di don Giuseppe Ricciuti, direttore della Pinacoteca «Monsignor A. Marena» di Bitonto dove, proveniente dalla locale chiesa dei Cappuccini, era conservata in passato. Consegnata nelle mani della restauratrice Francesca Pellegrino e di Rosanna Gnisci, storico dell'arte della Soprintendenza Psae, è stata sottoposta ad una campagna di indagini diagnostiche effettuata da docenti della facoltà di Scienze coordinati da Fabrizio Vona. Con la rimozione della dipintura, la cui fattura incerta aveva insospettito don Ricchiuti, è emersa integra la figura del santo fatalmente compromessa nella sua leggibilità dalla sovrapposizione dei successivi impasti cromatici.

Si tratterebbe dunque, e la conferma viene anche da Chiara Frugoni, maggiore studiosa di san Francesco, di una delle prime opere dedicate al santo. Lo studio della tavola, delle sue vicende e del suo restauro saranno pubblicati tra qualche mese in occasione dell'esposizione dedicata esclusivamente al dipinto e prevista nella prossima primavera, a cura della Soprintendenza. Per adesso gli interessati mostrano una comprensibile cautela nel fornire dati circa lo stato attuale degli studi, e rimandano le ulteriori precisazioni alla definitiva e completa pulitura che contribuirà a dipanare dubbi sia in ordine alle questioni formali che a quelle più propriamente legate ad una possibile collocazione storica del dipinto.

Ma quali sono i problemi in campo? Se venisse definitivamente documentato l'incontro tra Federico II e san Francesco, e dunque risultasse convincente la relativa committenza della tavola da parte del sovrano svevo, la sua datazione non potrebbe collocarsi oltre il 1250, anno della morte dell'imperatore. La data diverrebbe automaticamente un termine «post quem», una sorta di censura temporale oltre la quale quindi il dipinto non potrebbe essere inquadrato. Significherebbe allora che anche in Puglia la rapidissima popolarità che investe il poverello di Assisi obbliga a definire in tempi brevissimi un'iconografia di riferimento, come del resto viene testimoniato anche dalla comparsa di un san Francesco sia nella cripta di Sant'Antonio Abate presso Nardò, che nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Monte Sant'Angelo. Nel caso della restauranda tavola, fortemente intrisa di caratteri bizantini, evidenti nella frontalità della posa e nella complessiva assenza di vigore plastico, saremmo dinanzi ad un'opera ancora distante da quegli aneliti realisti che connotano invece l'iconografia francescana dopo gli anni Sessanta del Duecento. Sebbene la vicenda terrena di san Francesco offrisse temi che si prestavano felicemente al rinnovo dei contenuti e degli schemi i iconografici dell'arte religiosa, bisognerà aspettare infatti la rilettura popolare dell'agiografia del santo fornita da san Bonaventura alla fine del secolo e, non ultime, le novità figurative incalzanti, nella seconda metà del secolo, con Cimabue e Giotto.

Le prime raffigurazioni del santo invece, e tra queste bisogna annoverare quella di Bonaventura Berlinghieri, del 1235, e l'altra ancora precedente del Sacro Speco di Subiaco del 1228, oltre a fissare gli episodi salienti della sua vita, ne tratteggiano la figura nel solco consolidato di un'ascetica e impersonale figura di monaco orientale, su schemi bizantini rivisitati con piccole varianti. E proprio in queste forme ancora orientaleggianti si esprime evidentemente anche la tavola pugliese, che rappresenta comunque, nel panorama della pittura sacra del tempo, l'improvvisa irruzione della contemporaneità in un'iconografia sacra obbligata invece da secolari costanti di forma e contenuti.
  

Intervista al professor LICINIO


Solo una leggenda il suo incontro con Federico II?

«Non è possibile che Federico II abbia incontrato Francesco nel castello di Bari per la semplice ragione che l'imperatore in quel periodo non si trovava in città. Peraltro il castello fu oggetto di restauro da parte del sovrano svevo, come del resto dimostrano i documenti, tra il 1231 e il 1233, cioè dopo la morte di Francesco, avvenuta invece nél 1226. Nel periodo del presunto passaggio del santo nel capoluogo barese, il castello per giunta era pressoché distrutto e quindi verosimilmente non avrebbe potuto ospitare chicchessia, tanto meno un personaggio già così illustre». 

A ricordarlo è Raffaele Licinio, ordinario di Storia medievale nella Facoltà di Lettere dell'Università di Bari e direttore del Centro studi normanno-svevi della stessa Università, nonché insigne studioso federiciano. 

«Tuttavia - continua Licinio - esiste una leggenda al riguardo, riportata dallo storico barese Giulio Petroni, che nell'Ottocento parla dell'incontro tra i due personaggi proprio nel castello federiciano di Bari. Per l'occasione Federico, volendo mettere ala prova la solidità della fede di Francesco, la cui fama di virtuoso doveva allora essersi già consolidata, invia nella stanza dove alloggiava il santo una giovane e leggiadra fanciulla per insidiare l'affidabilità dei suoi principi etici».

E come andò a finire?

«Francesco, sempre secondo Petroni, non approfittò della fanciulla ma anzi, per contrastare il desiderio, passò tutta la notte sui carboni ardenti. è evidente che si tratta di una metafora costruita intorno ad uno dei personaggi più cari alla devozione popolare».

Naturalmente, non dobbiamo credere a questo tentativo di corrompere Francesco?

«Esattamente. Ma come succede per il santo Graal, conteso da sedici città che si attribuiscono contemporaneamente il possesso di quello originale, per uno storico come me non è importante che la leggenda sia autentica quanto piuttosto che esprima un significato, una sorta di visione del mondo raccontata, dal basso, da un popolo che, nella fattispecie, vedeva in Federico solo l'incarnazione del potere».

Quale sarebbe allora il senso della leggenda popolare, peraltro  ricordata da una lapide che fa tuttora bella mostra di sé all'esterno del castello? è falsa anche quella?

«Sì. Se la leggenda popolare nel corso del tempo viene ripetuta finisce poi per trasformarsi in verità condivisa, e questo spiega il perché di una lapide che ricorda un evento inesistente. In realtà, il racconto rivela innanzitutto la percezione che il popolo aveva dei due più famosi personaggi del Duecento. L'imperatore svevo veniva identificato con l'immagine del potere, e tra i due il vincente è Francesco, che sopraffà l'arroganza dei potenti con la saldezza della sua fede. è lui ad uscirne trionfante. Del resto Francesco rappresenta la scelta consapevole della povertà, lui che peraltro proveniva da una famiglia borghese come viene ricordato spesso nella sua agiografia». 

Possiamo considerarlo un personaggio no-global ante litteram?

«Non che a proposito delle sue predicazioni si possa parlare realmente di ecologia o di rispetto per l'ambiente nei termini cui siamo, oggi abituati a farlo, ma certamente la modernità del suo pensiero in materia di amore per il creato in tutte le sue forme, andrebbe forse rivalutato anche nel presente. Di contro Federico è il passato, e incarna un'idea obsoleta dell'amministrazione statale: schierato dalla parte di uno Stato accentratore, fautore di una macchinosa burocraticizzazione del governo, nonché in perenne conflitto con il potere ecclesiastico».

Ma come mai allora proprio i cittadini baresi, attraverso l'elaborazione di una leggenda, rendono palese il contrasto tra due diverse visioni del mondo, spingendosi finanche a prendere, come lei sostiene, una posizione favorevole a Francesco?

«Come ho cercato di dimostrare più volte, il castello era particolarmente inviso ai Baresi proprio perché in esso scorgevano la materializzazione del potere dominante. è chiaro allora che il castello venga eletto a scenario preferenziale per ambientare lo scontro tra due personaggi particolarmente cari all'immaginario popolare. Da una parte dunque il dominatore; dall'altro il povero, personaggio su cui scatta l'immediata identificazione, in grado di vincere il potere con le armi impari di una granitica fede».

Marilena Di Tursi

 

 
 
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da "Corriere della Sera-Corriere del Mezzogiorno" del 2/10/2004

 

  

 

 

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