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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino


  


La microstoria cittadina, indagata da Saitto e Chiaromonte, presenta dei tratti originali, connotati dalle bonifiche di Placido Imperiale, “principe illuminato” che vi insediò una piccola colonia albanese

Poggio Imperiale, Corso Vittorio Veneto nel 1930

   

Piazza Imperiale, 1922  Corso Vittorio Veneto, 1932  Monumento al Principe Imperiale, 1932  Via Trieste, 1935  Interno della chiesa di San Placido Martire, anni '50

      

   

La microstoria è l’humus di cui si alimenta il presente di una comunità, nel suo costante cammino verso la democrazia ed il progresso, fatto di tempi lunghi. La ricerca non si esaurisce mai con il lavoro di un solo autore, ma si completa e si perfeziona con nuovi studi ed ulteriori documenti. Soltanto questo controllo incrociato porta gradualmente alla conoscenza storica. La storia di Poggio Imperiale, in questi ultimi anni, è stata indagata dai ricercatori Giovanni Saitto e Alfonso Chiaromonte che hanno colmato i vuoti e  precisato circostanze ed eventi che hanno visto la loro comunità protagonista, nel suo piccolo, della grande storia.

Chiaromonte, con La Capitanata tra Ottocento e Novecento, completa la sua trilogia di studi su Poggio Imperiale. Egli ne approfondisce la vita politico-amministrativa, basandosi su interessanti fonti d’archivio: le delibere decurionali, comunali e gli Stati Discussi, cioè i bilanci comunali. Attualmente queste “carte” si trovano versate all’Archivio di Stato di Foggia, nei Fondi “Affari comunali” e “Affari demaniali”. L’autore, per focalizzare i momenti-chiave che hanno caratterizzato la storia dell’insediamento di Poggio Imperiale, non trascura altre fonti come i carteggi dell’Intendenza (Opere Pubbliche Comunali)”, del “Governo e Prefettura”; gli “Atti di Polizia” e della “Sottoprefettura di San Severo”; consulta altresì “Il Giornale dell’Intendenza di Capitanata” e la pubblicistica del tempo.

La storia di Poggio Imperiale è inquadrata nel contesto della storia di  un’intera provincia: la Capitanata. Una terra, che per la favorevole posizione mediterranea fu, nel corso del tempo, un crocevia di civiltà e di culture, oltre che meta ambita di conquista militare. Una terra che si caratterizza, nell’area di Lesina, come una zona che gradualmente, a causa di eventi vari, si spopolò, assumendo l’aspetto di una terra paludosa, miasmatica, portatrice di malaria e di morte. La popolazione che abitava quei territori se ne andò via, in cerca di migliori condizioni di vita.

Ma ci fu anche gente che arrivò dalle opposte sponde dell’Adriatico: un nuovo insediamento, voluto fortemente dal principe Placido Imperiale per sperimentare anche nel feudo di Lesina le sue teorie illuminate, venne colonizzato da coloni provenienti dall’Albania, oltre che dalla Puglia, dalla Campania, dalla Basilicata, dalla Calabria.

   

IL FEUDO DELL’AVE GRATIA PLENA

Ma vediamo di risalire alle origini della comunità di “Terranova”, com’era denominata un tempo Poggio Imperiale. Il feudo di Lesina, all’inizio del XV secolo, era stato donato nel 1411 dalla regina Margherita di Durazzo alla Santa Casa dell’Annunziata di Napoli, «come voto per la recuperata salute e a scomputo dei propri peccati e di quelli degli augusti suoi congiunti». L’Annunziata, retta da una confraternita laicale della famiglia Capece, era divenuta uno spazio nobiliare del quartiere di Capuana, arena di una gara di prestigio tra i nobili di quel Seggio. L’ingente patrimonio della “Casa Santa”, formato da beni feudali sparsi in tutte le province del Regno, all’inizio del XVII secolo forniva una rendita annua di 5390 ducati, «per arrendamenti, fiscali, gabelle», e per la direzione delle opere di carità (ospedale, brefotrofio, Conservatorio). Questi beni dal 1580 furono gestiti dal Banco dell’AGP (Ave Grazia Plena), definito lo “splendore del regno” per le sue vaste ricchezze e per le sue «immense opere di pietà».

La Casa dell’Annunziata tenne il feudo di Lesina per più di due secoli, fino a quando nel 1702 il suo Banco, «per cattiva amministrazione e per i continui prelievi di danaro fatti da Filippo IV per spese di guerra», fu dichiarato fallito, avendo contratto debiti per sei milioni di ducati. Da quel fallimento ebbero origine lunghe liti e laboriosi compromessi con i molteplici creditori.

Il Sacro Regio Consiglio fece valutare il feudo di Lesina dal tabulario Donato Gallerano, che nel 1729 ne compilò un dettagliato “apprezzo”. Nel 1750 anche questo feudo dell’A.G. P.  fu posto in vendita sub asta.

Quel bando d’asta ci è stato descritto in tutti i particolari dallo studioso Giovanni Saitto, il quale precisa che i contendenti furono Domenico Cataneo, principe di San Nicandro e Placido Imperiale, principe di Sant’Angelo dei Lombardi. All’asta parteciparono i loro fiduciari; la spuntò Notargiacomo il quale, “per persona da nominare”, si aggiudicò il Feudo di Lesina. Placido Imperiale (che era appunto la persona da nominare)  l’8 marzo 1571 si aggiudicò il feudo per 104.201 ducati. Il prezzo finale dell’acquisto del feudo di Lesina fu di 108.256 ducati e 25 grana, in quanto ai precedenti 104.201 ducati occorsi al Notargiacomo per aggiudicarsi l’asta, si aggiunsero 800 ducati per altri beni che  il Gallerano non aveva calcolato nel suo apprezzo.

   

PLACIDO IMPERIALE, PRINCIPE “ILLUMINATO”

Il 3 aprile 1753 l’acquisto del feudo ottenne il Reale Assenso da parte del Re di Napoli, Carlo III di Borbone. Costui, assunto il titolo di re delle Due Sicilie, il 2 giugno 1735, si circondò di ministri capaci ed intelligenti, tra cui Bernardo Tanucci, che intraprese un profondo rinnovamento dello Stato, aperto alle idee illuministiche ormai diffuse in tutta Europa. Su questa strada lo seguirono i feudatari più intraprendenti, come gli Imperiale a Lesina.

Placido Imperiale era un principe illuminato, «nato per il bene del genere umano», secondo una definizione molto in voga a quei tempi. Apparteneva ad una famiglia denominata Tartaro, di origine mercantile. Giovanni, il capostipite, intorno al 1100, si era trasferito in Italia, dopo essersi arricchito negli empori genovesi di Caffa e Tana, sulle sponde del  Mar Nero. A Genova, già nel XII secolo, la sua famiglia divenne “grandissima di nobiltà”, per usare una terminologia cara ai trattati di araldica. I discendenti furono chiamati a far parte degli “Otto Nobili”, massima autorità dell’epoca, ricevendo le più alte cariche della Repubblica, e collezionando onorificenze come il “Toson d’Oro”. Nel 1528 erano inclusi nelle 28 famiglie che costituirono gli “Alberghi dei Nobili” e che governarono la Repubblica di Genova. Fu probabilmente in questa data che la famiglia assunse il cognome della casata più importante, Imperiale, com’era uso all’interno di questa Istituzione che aggregava le famiglie più nobili della città.

La famiglia Imperiale, grazie alle sue ingenti ricchezze, acquistò feudi e titoli anche negli altri stati della penisola italiana. A Napoli, il 4 gennaio 1743 fu ascritta al “Libro d’oro” del Seggio di Capuana. Il ramo degli Imperiale di Sant’Angelo, capostipite diretto del fondatore di Poggio Imperiale, aveva avuto origine il 4 aprile 1631, quando il dottor Giuseppe Battimello, “per persona da nominare”, acquistò per 108.750 ducati il feudo di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino), nel Principato Ultra di Napoli. Gian Vincenzo Imperiale acquistò il feudo, motivando la sua scelta con una precisa regola economica: disse che «il permutar mobili in stabili non gli parea contrario alla regola economica». Non lasciò Genova per trasferirsi nel suo nuovo feudo, non ci andò ad abitare. Ne affidò l’amministrazione ai suoi agenti.

Toccò a Giulio Imperiale trasferirsi definitivamente da Genova a Napoli, per curare personalmente la gestione della proprietà, aumentandone i  beni e il profitto. L’esempio fu seguito dal figlio Placido il quale, dopo la morte del padre, rientrò a Napoli, assunse la gestione dell’immenso patrimonio ereditato, al quale si aggiunse lo “Stato” di San Paolo di Civitate in Capitanata, ereditato dalla madre Cornelia Pallavicino. Placido sposò Anna Teresa Michela Acquaviva d’Aragona, figlia di Giulio Antonio, duca d’Atri e conte di Conversano e di Maria Spinelli dei principi di Tarsia, di origine garganica.

Postosi sulla scia di tanti imprenditori che vedevano nella trasformazio­ne dei terreni agricoli il ritorno di cospicue rendite, il Sant’ Angelo avviò nei propri possedimenti un importante processo di sviluppo e di colonizza­zione interna che passava essenzialmente attraverso la chiusura e la messa a coltura dei demani feudali sino ad allora prevalentemente adibiti a bosco e pascolo. Nel Principato Ultra e in Capitanata egli mutò  diversi suoi feudi «dal tristo aspetto al più favorevole, che immaginar si possa; vedendosi il tutto posto a profitto, o a maggior aumento, a segno che siccome la loro ereditata rendita era di annui ducati quindicimila, oggi giugne a ducati sessantamila» [1]. L’impresa più rilevante portata a termine da Placido Imperiale in Capitanata fu senza dubbio la fondazione di Poggio Imperiale, strettamente connessa con l’acquisto nel 1751 del feudo daunio di Lesina. Il progetto venne avviato concretamente nel 1759, anno in cui il principe concesse ad un folto gruppo di coloni del circondario, ai quali fornì gratuitamente case, animali e masserizie, un appezzamento da colonizzare.

Anche se molti illuministi dell’epoca si mostrarono scettici sulla effettiva realizzazione dell’opera, la colonia si sviluppò e, accrescendosi, con­sentì nel giro di mezzo secolo la formazione di una nuova, seppur modesta, comunità amministrativa. Accanto a questo evento non bisogna tuttavia dimenticare ciò che venne effettuato da Placido Imperiale nel suo feudo irpino. Qui, a Pontelomito, con l’impianto di estesi castagneti, destinati a sostituire più produttivamente i vecchi boschi, assicurò l’assetto idrogeologico del suolo. Introdus­se, sia pure su scala ridotta, colture arboree intensive come gelseti e vigneti. Inoltre sfruttò, per finalità industriali, le risorse idriche, installando, oltre a numerosi mulini, una grossa cartiera a dodici pile e alcune gualchiere, cioè delle macchine per la conciatura delle pelli, la cui forza motrice era data dall’acqua. Infine, nella tenuta di Fermentino, avviò un grosso allevamento di bachi da seta.

L’acquisizione del feudo dell’AGP da parte di Placido Imperiale coincise con gli anni in cui gli illuministi della corte partenopea, fra cui Ferdinando Galiani, esortavano il re Carlo III di Borbone  ad adottare nuovi provvedimenti per incrementare l’agricoltura nel Regno di Napoli, specialmente nel Tavoliere daunio [2]. In questo clima favorevole sia alla crescita della popolazione che allo sviluppo agricolo della Capitanata, si colloca la fondazione di Poggio Imperiale.

   

LA COLONIA ALBANESE

Alcuni anni dopo aver definito l’acquisto del feudo di Lesina, Placido Imperiale visitò i nuovi possedimenti e, confortato dagli esiti positivi delle trasformazioni fondiarie realizzate nel suo feudo irpino, decise di tentare un esperimento di bonifica anche in Capitanata. Per attuare il progetto, scelse una boscosa collinetta chiamata «Coppa di Montorio», distante circa miglia due da Lesina e quattro da Apricena. Dopo averla fatta disboscare, la rese coltivabile. Quindi, sul punto più alto di essa, fece costruire un «Casale» costituito da una palazzina baronale con sedici vani al pianoterra, dove vennero ubicati gli uffici contabili, i magazzini, le scuderie, piccole abitazioni per i contadini, una stalla per il ricovero degli animali ed un magazzino per gli attrezzi agricoli e sedici locali al primo piano.

Placido Imperiale, dopo la sua visita del 1760, per popolare il Casale, fece emanare un bando e fece affiggere avvisi per il Regno e fuori, promettendo a chiunque volesse stabilirsi nella nuova terra, i seguenti privilegi:

ricovero ed alloggi gratuiti;

una certa quantità di grano per il vitto e per la semina;

un’estensione di terreni per la semina, per ortaggi e vigne senza pagamento;

diversi animali per i lavori campestri e per l’industria;

diritto di legname e di pascolo nelle terre del principe;

il diritto di portare armi ed immunità, ed altri ancora;

un medico e cappellano, a salvaguardia della salute fisica e spirituale dei coloni.

A rispondere alla chiamata furono quindici famiglie di coloni provenienti da vari luo­ghi della Puglia e da Roccella Ionica, una località della Locride in provincia di Reggio Calabria. A questi pionieri va il merito di aver per primi dissodato le terre incolte e, quindi, di aver avviato il processo di colonizzazione voluto dal principe Imperiale. Era il mese di maggio dell’anno 1759. Nasceva Poggio Imperiale. Vennero costruite altre abitazioni e molte stalle furono con­vertite in alloggi, pronti ad accogliere l’arrivo di nuovi abitanti.

Nel gennaio del 1761, passeggiando per le vie di Napoli, il principe Imperiale incontrò dei profughi albanesi. Questi esuli erano emigrati in Italia, abbandonando a Scutari tutti i loro beni: in centosettanta, in una notte del mese di gennaio del 1757 si erano imbarcati su di una “marsiliana” nel porto di Aravia, piccolo villaggio poco distante da Antivari, e risalendo verso nord, dopo giorni di dura navigazione, avevano raggiunto il porto di Ancona. Nella città marchigiana erano stati tenuti in quarantena nel “lazzaretto”. Dopo varie peripezie nello Stato Pontificio, si erano trasferiti nel Regno di Napoli. Ed è qui che stipularono presso il notaio Martucci un capitolato con Placido Imperiale, in cui erano fissati le franchigie promesse nel bando.

Il capitolato prevedeva dei precisi doveri nei confronti del feudatario: se le famiglie albanesi avessero deciso di abbandonare la fattoria dovevano restituire al principe “animali, franchigie  di affitto di case, di affitto di territori, di pascolo, e di qualunque altra cosa”. Fino all’ultimo centesimo.

Nel 1761 diciotto famiglie albanesi si trasferirono a Poggio Imperiale, seguite da altre diciassette, complessivamente 35 famiglie, per un totale di 174 persone. Altri albanesi si stanziarono fra il 1762 e il 1769, portandosi con sé due sacerdoti di rito greco. Ma la sorte non arrise ai pionieri. Nel 1762 ci fu una gelata, nel 1764 una terribile carestia. Questo anno fu definito “l’anno della fame”. Quasi tutti gli albanesi andarono via, prendendo la via di Roma. Rimasero nel nuovo villaggio solo tre famiglie, in totale 17 albanesi. Altre famiglie vi giunsero nel periodi 1762/1764, dalla Capitanata, ma anche da Barletta, da Avellino, da Catanzaro e Cosenza e soprattutto dalla provincia di Benevento, precisamente da Reino e da San Marco dei Cavoti. Nel 1786 la popolazione contava 444 abitanti, nel 1815 ne contò 778.

    

LA NASCITA DEL COMUNE DI POGGIO IMPERIALE

Il 21 maggio 1806 re Giuseppe Bonaparte abolì ogni dazio e privilegio dello Stato sul Tavoliere, concedendo le terre “ai possessori in atto”. Non esistevano, almeno dal punto di vista legislativo più differenze tra i vari ceti e tutti i cittadini potevano aspirare ai pubblici impieghi. «Commissario ripartitore»,  incaricato per la sistemazione dei demani per i Comuni della Capitanata e del Molise, fu Biase Zurlo (1775-1835) [3], «il quale tenne conto della necessità di dar vita al nascente paese di Poggio Imperiale, per cui, partendo dal presupposto che i suoi abitanti, di poco inferiori a quelli di Lesina, dovevano essere considerati in tutto e per tutto cittadini del centro lagunare, operò una equa divisione dei terreni.

Nel 1811, data in cui ebbe luogo la ripartizione dei suoli, a Poggio Imperiale furono assegnate le seguenti zone: La Comune (detta localmente Mezzanella); la Fara; Coppa Montorio; Vallone dell’Elice;  Mezzana Feudale; San Nazario; Santo Spirito; Cimaglia;  per un totale di circa 5.237 ettari. Questi terreni furono posti in vendita ma «non pochi contadini si asten­nero dal partecipare alle quotizzazioni, data l’esosità dei canoni imposti dai Comuni». Beneficiaria delle «quotizzazioni» del demanio fu soprattutto i cosiddetti «galantuomini». Si venne a formare così una nuova classe di latifondisti che per anni detenne il potere economico e politico.

La separazione di Poggio Imperiale dal Comune di Lesina fu “pilotata” dagli Intendenti di Capitanata, sollecitati dal Ministro degli Interni che si avvicendarono in quegli anni. Ma fu con ritorno dei Borbone al potere, che esso divenne comune autonomo.  Il 18 gennaio 1816, cinquantacinque anni dopo che il principe Imperiale stipulò la convenzione con gli albanesi, nei locali della Palazzina baronale si riunì il primo Decurionato. Dal verbale d’insediamento, trascritto  da Giovanni Saitto, citiamo la dichiarazione dei nuovi amministratori diretta al Sottintendente: «Scelti a rappresentare il Corpo municipa­le, faremo di tutto per corrispondere gelosamente a quella fiducia che è stata in noi riposta. Ma quali inesperti fanciulli, che cominciando con incerto e malsicuro passo a segnar la terra, han bisogno della mano benefica che li conduce perché non inciampino, così noi privi di esperienza e di lumi suffi­cienti nella intrapresa carriera delle funzioni addossateci, pericoleremo certamente, se la vostra autorità non ci guida colla saviezza dei suoi consigli, la vostra fermezza d’animo non ci protegge e ci garentisce nel possesso dei nostri diritti dall’occhio maligno dei vicini. Questa grazia imploriamo e bramiamo meritarci. Felici noi se sapremo ottenerla, vi tributiamo gli omag­gi del più alto rispetto e vi salutiamo con distintissima stima» [4].

Dopo la seduta inaugurale, nella quale i decurioni espressero «i dovuti rendimenti di grazie a Sua Maestà per aver dichiarata la loro popolazione indipendente da quella di Lesina, nonché aver chiamato Poggio Imperiale a far parte dei Comuni del Regno”, i nuovi Amministratori ed il delegato dell’Intendente, seguiti da tutta la comunità, si recarono nella chiesa di San Placido e, innalzate all’Altissimo fervide preghiere per la salute del Re e per la pro­sperità del nuovo Comune, conclusero le celebrazioni con l’intonazione di un Te Deum di ringraziamento.

Il giorno dopo, il 19 gennaio, ci fu l’elezione del Sindaco e delle varie cariche istituzionali. Il Decurionato di Poggio Imperiale entrò nel pieno esercizio delle sue fun­zioni il 10 aprile 1816. Questa data è indicata da Matteo Fraccacreta come «epoca memoranda della prima municipalità di questa nuova Università».

Ma le “terne” dei primi eletti, come si evince dai documenti “riservati” pubblicati da Chiaromonte, sono sempre soggette alla discrezionalità dei Sottintendenti, che scelgono uomini a loro graditi, suscitando spesso proteste per incompatibilità dei politici designati. Poggio Imperiale si barcamena su poveri budget di “Stati discussi” al limite della sussistenza, che i vari Sindaci cercano di rispettare, non sempre compresi dalla cittadinanza e dai loro avversari politici sempre pronti a inviare esposti anonimi, ma anche debitamente firmati “a chi di dovere”.  Gli organi superiori, dopo accurate indagini per accertare la veridicità degli addebiti, svolgono spesso opera di paciere, minacciando i contendenti di adire a provvedimenti disciplinari, tesi a smorzare i bollenti spiriti dei riottosi beghisti.

Poggio Imperiale sale alla ribalta delle cronache nazionali nel 1860, durante le giornate del Plebiscito che sancì l’annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Regno D’Italia. Su 272 votanti, soltanto 72 votarono a favore  dell’Unità: 206 cittadini votarono contro. Unico paese del distretto di San Severo, Poggio Imperiale non accettò il Plebiscito. In seguito,  accetterà il nuovo governo, ma non dimenticherà i Borbone. Non dimenticherà coloro che nel 1816, separandolo da Lesina, lo avevano reso indipendente, elevandolo a comune autonomo. 

L’ultimo scorcio del XIX secolo, nonostante le beghe politiche e l’elevata mortalità per malaria, presenta  un quadro economico positivo. L’industria del marmo, il fabbisogno di mano d’opera in agricoltura e le tante attività artigianali, costituirono dei fattori che, oltre ad accrescere il numero di abitanti, giovarono al benessere dei terranovesi di fine Ottocento. L’alacre attività agricola del territorio del nuovo comune è testimoniata dalla presenza di 37 fosse granarie, alcune appartenenti a Placido Imperiale e ai suoi eredi, altre a cittadini benestanti, i cosiddetti “massari di campo” [5].

Nel Novecento la vita politico-amministrativa di Poggio Imperiale divenne sempre più vivace. Nel 1906 ci fu un’aspra lotta per ottenere la carica di Sindaco. Sorsero due fazioni: Bianchi e Rossi, ognuna facente capo ad una famiglia facoltosa, i Chirò per i primi, i Nista per i secondi.

Secondo il De Palma, «dichiarata aperta la lotta, con il paese suddiviso in due schieramenti, la guerriglia arrivò ai guasti delle parentele e delle amicizie; ricorsi alla Magistratura; risse e ferimenti su pretesti che affogavano nel ridicolo. Militava nello stato maggiore del campo rosso il parroco, il quale non perdeva occasione per evidenziare il suo ruolo; discriminava a suo talento; spesso immischiava la religione di Cristo nei suoi non cristiani proponimenti e spesse volte dal pulpito si spandeva per aggravare la discordia. Giunse a determinare lo scompiglio finanche nelle due congregazioni religiose allora esistenti e, inoltre, per confermare la sua fede politica, fece tinteggiare di rosso la facciata esterna della Chiesa Matrice nonché quella del campanile».

Il 2 giugno 1946 anche i cittadini di Poggio Imperiale vennero chiamati alle urne per esprimere il loro voto sulla forma istituzionale da dare allo Stato italiano. Ancora una volta, il dato elettorale della comunità si discostò dalla tendenza nazionale: vinse la monarchia, con 1062 voti contro i 632 della Repubblica.

     
   

    

NOTE

1 Lo testimoniò un illuminista suo contemporaneo, il Targioni, in Saggi fisici, politici ed economici, Napoli 1786, p. 154 e ss.  

2 Scriveva Galiani: «Io conto fra le molte cause di danno il sistema della Dogana di Foggia. sistema che al volgo sembra sacro e prezioso perché rende quattrocentomila ducati al re; al saggio sembra assurdo appunto perché vede raccogliere solo quattrocentomila ducati da un ‘estensione di suolo che ne potrebbe dare due milioni; abitarsi da centomila persone una provincia che ne potrebbe alimentare e far ricche e felici, trecentomila; preferirsi le terre incolte alle colte; l’alimento delle bestie a quello dell ‘uomo; la vita errante alla fissa, le pagliaie alle case; le ingiurie delle stagioni al coperto delle stalle e tenersi infine un genere di industria campestre».

3 Biase Zurlo era nativo di Baranello, in provincia di Campobasso. Laureatosi in legge, era divenuto  governatore di diversi comuni del Molise. NeI 1802 venne invitato in Puglia in qualità di Commissario di guerra. Ricoprì successivamente diversi incarichi e precisamente: Consigliere d’intendenza, Direttore delle contribuzioni dirette, Commissario ripartitore (1809), Intendente di Capitanata (1822) e, infine, Consultore di Stato a Napoli. Poggio Imperiale apprezzò il suo operato, dedicandogli alla memoria una via del paese.

4 G. SAITTO, Poggio Imperiale. Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia 1997, p. 74.  

5 La pianta topografica del Piano delle Fosse di Poggio Imperiale, custodita nell’Ufficio tecnico erariale di Foggia, indica questi posizionamenti all’interno del piccolo centro. Ventisette fosse erano ubicate nella Piazza Imperiale, cinque all’inizio di via de Cicco, cinque all’inizio di via Palazzina e Via Focarete. Avevano dimensioni che variavano da quattro-dieci metri di profondità e da tre-sette metri d’ampiezza. Per insilare il grano nelle fosse era necessario seccarlo bene all’aria ed al sole. Le fosse dovevano essere ispezionate periodicamente: se si notava un principio di fermentazione, era necessario estrarre tutto il grano, distenderlo di nuovo sui teloni, spalarlo ripetutamente per farlo asciugare ed essiccare perfettamente. Scendere in una fossa di grano appena aperta significava incorrere in una asfissia mortale, se non si interveniva immediatamente a salvare l’incauto “sfossatore”. Per far fuoriuscire l’anidride carbonica che vi si era formata all’interno, le fosse venivano ossigenate per molte ore, prima di procedere alle operazioni di svuotamento. Per maggiore sicurezza gli sfossatori, prima di scendere nelle fosse, veniva calata giù, appesa a un filo, una lucerna accesa. Se si spegneva significava che l’interno della fossa c’era anidride carbonica, se restava accesa significava che la fosse era ben ossigenata: si poteva quindi scendere senza pericolo (cfr Chiaromonte cit.).

    

BIBLIOGRAFIA

G. SAITTO, Poggio Imperiale, Storia, usi e costumi di un paese della Capitanata, Edizioni del Rosone, Foggia 1997.

A. CHIAROMONTE, La Capitanata tra Ottocento e Novecento, Edizioni del Poggio, 2002.

          
               

©2006 Teresa Maria Rauzino. Le foto sono tratte dal sito ufficiale del Comune di Poggio Imperiale: www.comune.poggioimperiale.fg.it/

    


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