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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino



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Archivio del Centro Studi di Storia e Cultura di Turi (BA): resti di una neviera

L’approvvigionamento della neve, ed il conseguente utilizzo delle neviere per la conservazione di questo prezioso bene, in passato ha rappresentato per l’uomo un’esigenza di assoluta importanza.

Sin dall’antichità la neve era largamente utilizzata. Testimonianze architettoniche di questi manufatti sono riscontrabili presso i vari siti archeologici, mentre per quelle storicamente più recenti l’utilizzo si è protratto sino ai primi anni del ‘900.

In Capitanata, le prime notizie documentali sulle neviere, sulla vendita della neve e sulla regolamentazione legislativa si hanno a partire dalla fine del 1600 per la città di Foggia, e dai primi anni del 1800 per gli altri centri. In particolare, dallo studio sono emerse notizie interessanti sulla presenza di neviere disposte soprattutto nell’arco del Subappennino Dauno e del Gargano, i cui centri erano i maggiori fornitori del prodotto, ma non è stato neanche trascurato lo studio sulla presenza e sulla tipologia delle neviere situate in pianura, in particolare nell’alto e basso Tavoliere; un’ampia trattazione che in definitiva ha riguardato tutti i centri della Capitanata.

Se dal punto di vista documentale la ricerca è stata abbastanza esaustiva, del manufatto architettonico di epoca più recente, purtroppo, ci sono pervenute pochissime testimonianze perché, nel tempo, molte neviere sono state destinate ad altri usi o interrate, pertanto, di alcune si è persa ogni traccia.

Ciò che si può affermare è che ogni centro, piccolo o grande che fosse, poteva vantarne il possesso.

Alla luce di tutto ciò, il presente studio ha lo scopo di riportare alla memoria di tutti una parte di storia, ormai dimenticata anche dagli anziani e sconosciuta alle nuove generazioni.

Schema di ghiacciaia  Archivio del Centro Studi di Storia e Cultura di Turi (BA): resti di neviera  Archivio del Centro Studi di Storia e Cultura di Turi (BA): finestra di neviera  Neviera Ripabottoni  Neviera Ripabottoni

    

Da sempre l’uomo ha avuto l’esigenza di trovare refrigerio, specie durante la stagione estiva, attraverso l’assunzione di cibi e bevande fredde.

Oggi la tecnologia consente la produzione del ghiaccio artificiale in ogni casa, con frigoriferi, congelatori ecc., ma non sempre è stato così.

In passato l’uomo, per poter godere del privilegio di avere bevande e cibi freddi durante i mesi torridi, si ingegnò utilizzando ciò che la natura gli metteva a disposizione: la neve.

Questo prodotto, formato da microscopici cristalli di varie forme più o meno regolari, di acqua solidificata, spesso uniti in falde o fiocchi, si forma quando la temperatura dell’aria è inferiore a 0° C.

Essa, in passato, era merce preziosa ed un’abbondante nevicata era considerata una benedizione.

Con ogni mezzo l’uomo cercò di utilizzare questo prezioso genere anche quando madre natura non lo forniva, ossia durante la stagione estiva.

Nei paesi a clima temperato, l’utilizzo della neve era consuetudine sia per l’uso alimentare sia per quello medico: serviva per preparare sorbetti e bevande, per conservare i cibi, come riserva di acqua potabile per i periodi di siccità, ma era usata anche per curare febbri, ascessi, contusioni, ecc.

La neve veniva raccolta in luoghi esposti a nord, freschi ed umidi, quali sotterranei, grotte, scantinati e fosse oppure in costruzioni apposite, chiamate neviere [1].

Esse assunsero forme e tipologie diverse in funzione della zona geografica in cui si trovavano ed a seconda delle necessità locali.

In talune zone dell’Appennino, le neviere erano delle semplici buche nel terreno, pressoché circolari, con diametro di 5-10 m. e profonde altrettanto, con pareti di rivestimento in pietra in cui veniva conservato il ghiaccio [2].

In altre zone, specie nell’arco alpino ma anche in molte zone appenniniche, erano delle vere e proprie costruzioni in muratura, con il tetto a due e a quattro falde, senza finestre e con la sola porta di accesso.

Quando la profondità della neviera lo consentiva, si formavano più strati di neve intervallati da strati di frasche e foglie secche, che avevano funzione isolante. Questo sistema consentiva di mantenere freddo lo strato più profondo, anche quando si estraeva la neve dagli strati più superficiali.

Per il trasporto della neve nei luoghi di utilizzo erano adottati vari sistemi: talvolta sul dorso di muli, altre volte, quando le vie lo consentivano, in carretti o slitte.

Sul monte Faito, verso la fine del secolo scorso, si costruì una funivia con vagoncini per trasportare il ghiaccio dalle neviere montane agli abitanti di Castellammare.

Lungo l’arco alpino, ogni malga aveva la propria neviera: serviva per conservare meglio il latte, in attesa dell’accumulo di una quantità sufficiente per l’avvio della lavorazione del formaggio [3].

Nelle zone vulcaniche le neviere consistevano in un cilindro, scavato nel terreno, con una sola apertura per il carico di neve fresca e per il prelievo del ghiaccio; per garantire un sufficiente isolamento termico la costruzione era ricoperta da un grosso cumulo di terreno. Esse avevano l’ingresso rivolto verso Nord, per ridurre l’irraggiamento solare diretto verso l’interno. Anche la porta d’ingresso era schermata da una fitta copertura di frasche [4].

In Sicilia fino agli inizi del ‘900, nei mesi invernali più rigidi quando la neve cadeva copiosa, molti contadini di Piana salivano sulla Pizzuta a lavorare nelle neviere di proprietà del comune di Palermo, poste all’inizio del versante occidentale della montagna. La neve, raccolta in buche scavate ad imbuto, era compressa su vari livelli in corrispondenza dei quali veniva inserito uno strato di paglia [5].

A Catania era molto diffuso il commercio della neve dell’Etna; pertanto, le neviere si trovavano nelle cavità naturali della montagna. La neve veniva trasportata in città e nei paesi limitrofi con carretti coibentati in maniera rudimentale; infatti, per evitarne lo scioglimento i venditori cospargevano il fondo del carro con uno strato di carbonella ricoperto a sua volta di felci; al di sopra di queste ultime si disponeva la neve avvolta in un telo di canapa protetto superiormente da un altro strato di felci [6].

In Val Mugone, le neviere erano profonde circa 57 metri ed avevano l’ingresso con uno scivolo inclinato che portava direttamente alla cavità, alla cui base era depositata un’enorme quantità di ghiaccio [7].

Nell’Appennino Umbro-Marchigiano, le neviere erano delle strette depressioni esposte a nord, spesso a ridosso di pareti rocciose ed impervie. A Secinaro, vicino alla maestosa catena del Sirente, i nevaroli sin dal ‘500 erano soliti risalire il monte, fino alla neviera, dove si calavano con scale e corde per tagliare i blocchi di ghiaccio e riportarli a valle in gerle di vimini, avvolte in foglie secche isolanti, sul dorso di asini e muli [8].

Nell’Altopiano delle Murge le neviere erano distribuite soprattutto presso le masserie e nei declivi dei campi; avevano la forma di un parallelogramma con volta a botte ed un piano di calpestio formato da terriccio ricoprente le lastre adagiate sulla volta per neutralizzare il calore in maniera uniforme. Esse avevano, inoltre, una o due aperture laterali murate o chiuse con porte di legno che servivano per prelevare il ghiaccio mentre la neve veniva infilata dalla bocca posta alla sommità della volta. Sul fondo, all’interno, si deponevano dei fasci di sarmenti il cui scopo era quello di evitare che le neve venisse a contatto con il suolo e potesse sciogliersi o inquinarsi. La neve appena caduta veniva raccolta e, ancora fresca, veniva trasportata sui vaiardi [9] perché i traini erano ingombranti e non potevano entrare negli erbaggi senza provocare danni; oppure, si formavano grosse palle di neve e si lasciavano rotolare dall’alto verso il fondo della valle dove erano collocate le neviere. Solo la neve raccolta lontano dalle neviere era trasportata sui traini.

La neve raccolta veniva immessa nella neviera dall’apertura sulla volta mentre le porte laterali restavano chiuse sino al prelievo del ghiaccio. I fasci di sarmenti isolavano la neve dal fondo su cui si lasciava cadere un tubo che serviva per pompare l’acqua che lentamente si accumulava.

La neve veniva compressa affinché la neviera potesse contenerne grandi quantità.

Il commercio del prodotto era destinato soprattutto all’esportazione, fuori dall’Alta Murgia, verso i paesi costieri. Altamura, Minervivo, Santeramo, Locorotondo ed altri comuni erano i maggiori esportatori di neve [10].

Per meglio regolamentare i traffici commerciali della neve furono varate delle leggi apposite che regolavano, attraverso una serie di norme e consuetudini, la fornitura e la vendita del prodotto.

Fu quindi istituita la gabella della neve: un unico appaltatore aveva l’esclusiva della vendita della neve, egli però era obbligato a fornirla alle città a prescindere dalle condizioni climatiche.

Il prodotto, consolidato in ghiaccio, era tagliato in blocchi e trasportato dagli appaltatori verso i comuni per essere destinato alla vendita al minuto.

In Capitanata, le neviere solitamente venivano costruite dagli appaltatori, i quali stipulavano i contratti di appalto, con privativa [11]. Le modalità erano stabilite anno per anno sia dai comuni stessi sia dall’Intendenza di Capitanata.

La neve venduta era di due tipi: quella bianca, per uso alimentare e medico, e quella grezza o nera destinata ad altri usi.

Il prezzo variava a seconda della provenienza e non poteva essere superiore a tre grana per rotolo; a volte il prezzo di vendita era comprensivo della gabella che l’appaltatore doveva versare al comune. Spesso la gabella era comprensiva di una somma che l’appaltatore doveva versare alla chiesa Matrice del comune interessato per la festa dei SS. Patroni o per il viatico, come succedeva per il comune di Foggia. Tra le curiosità, dalla ricerca emerge che ancora oggi nel capoluogo della Capitanata esiste una via intitolata a S. Maria della Neve [12], protettrice di questo prodotto.

Tra le altre condizioni, inoltre, nei contratti si stabiliva la durata dell’appalto che poteva essere di un solo anno ma poteva protrarsi per un periodo più lungo e durare anche vari anni.

Le gare si bandivano attraverso l’affissione di manifesti. In base alle offerte presentate si procedeva alle subaste, l’aggiudicazione definitiva avveniva ad estinzione di candela in grado di sesta o di decima [13].

Gli appaltatori dovevano sempre essere garantiti, solidalmente, da una persona del posto di indubbia moralità. Tra le condizioni dell’appalto si stabiliva che la neve doveva essere fornita solo dagli appaltatori aggiudicatari e venduta dai dettaglianti scelti dal Comune, ma di concerto con gli appaltatori stessi. In caso di mancanza della neve l’appaltatore era soggetto al pagamento di una multa ed in caso di recidiva anche all’arresto personale.

Del manufatto architettonico, un tempo esistente nel nostro territorio, si hanno poche notizie certe; secondo alcune testimonianze orali, le neviere montane, per struttura e morfologia, erano diverse da quelle delle zone pianeggianti. Le prime erano scavate sia nella roccia sia nel terreno, le seconde erano scavate solo nel terreno; quelle collinari presentavano la stessa morfologia delle neviere montane.

A tale riguardo, Alfonso la Cava, a proposito delle neviere di Monte Sant’Angelo, piccolo centro del Gargano, parlando del clima garganico asserisce che il paese aveva un clima intensamente rigido nei mesi invernali, in cui la neve cadeva abbondante; gli sbalzi di temperatura, con frequenti temporali, specie quelli causati dal libeccio, erano improvvisi e di forte intensità.

Ma il paese era anche soggetto a periodi di intensa siccità, tanto che nel 1920 il Comune fece costruire delle grandi botti per il trasporto dell’acqua dalle navi cisterne in paese.

Ai periodi di siccità si contrapponevano le intense nevicate.

Le neviere di Monte Sant'Angelo si trovavano intorno al castello, e furono fatte interrare nel 1937 dall’avvocato Matteo Gatta per effettuare il rimboschimento dell’area.

La neve era raccolta in grossi blocchi provvisti di un foro centrale nel quale gli operai ponevano un bastone lungo e robusto che poggiava sulla spalla del portatore; in seguito, furono utilizzate le ceste di vimini che i contadini mettevano sulla testa o sulle spalle; la neve veniva deposta all’interno delle ceste, tra la paglia [14].

Poi, dalle zone di raccolta, la neve veniva trasportata con i Traini per mezzo di persone addette al compito, che solitamente erano scelte dallo stesso appaltatore del luogo in cui era stato aggiudicato l’appalto per l’anno della fornitura.

Le neviere delle zone pianeggianti erano grotte coniche a doppia fodera, profonde circa 12 o 15 metri; questi impianti produttivi oggi sono difficilmente riconoscibili, sia perché destinati ad altri usi, sia perché degradati a tal punto da poter individuare solo le cavità a cielo aperto [15].

Le neviere di Vico del Gargano erano per tipologia formate da una fossa di grandi dimensioni scavata nel terreno, a volte solo in parte nella roccia, solitamente erano situate nella zona più fresca ed ombrosa dove la neve si accumulava in grande quantità. I proprietari delle neviere erano soliti assumere una squadra formata da dieci o quindici operai che, muniti di pale, dopo aver eliminato lo strato superficiale di neve, la caricavano sui Traini e la trasportavano nei depositi per la conservazione.

La neviera era stata pulita in precedenza e, sul fondo, era stato depositato uno strato di paglia.

Al suo interno operavano gli Insaccaneve che calzavano sopra le scarpe e pantaloni dei sacchi di canapa legati all’altezza delle cosce per evitare di sporcare il prodotto durante il lavoro.

Questi erano muniti di appositi attrezzi di legno detti Paravisi aventi una forma rettangolare, con uno spessore di circa 40 cm., una larghezza di 30 cm. ed una lunghezza di 50 cm., molto pesanti con un manico alto circa un metro infisso al centro, cominciavano a comprimere la neve depositata; dopo il primo strato alto circa 40 o 50 cm., nella parte laterale delle pareti veniva deposta la paglia per isolare il prodotto dalla terra. Poi, la neve era coperta da uno strato di paglia avente una qualità diversa dalla prima, essa era detta Cama, e derivava direttamente dalla frantumazione della spiga del grano; mentre la paglia vera e propria era ricavata dallo stelo della spiga.

In questo modo, sotto il controllo del proprietario, dopo aver messo di lato la paglia per gli altri strati successivi si riempiva la neviera fino al raggiungimento del bordo superiore. Qui l’ultimo strato di paglia era più abbondante. Infine, si ponevano molti sacchi di canapa, uno strato di terra, delle tavole pesanti che premevano sulla neve sottostante coperte da ampi teloni si sovrapponevano le ramaglie di ginestre che fungevano da camera d’aria: il tutto era ricoperto da altre tavole.

Per evitare lo scioglimento del prodotto durante il trasporto si era soliti deporre la neve in sacchi di canapa contenenti paglia pulita, si caricavano sugli asini o sui carretti e si procedeva alla consegna per la vendita al minuto [16].


NOTE

1 http://212.77.69.144/sportello/mestieri/neviera.htm

2 http://www.parks.it/grandi.itinerari/altavia/altavia23-24/altavia23-24.html

3 http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

4 http://www.geocities.com/Yosemite/Forest/5244/CAM/Roccamonfina.html

5 http://trevico.terrashare.com/cultura.html

6 http://www.asicilia.it/cultura/storie/21.htm

7 http://www.comune.gioiadeimarsi.aq.il/gioia_pna_geologia.htm

8 http://sirente.net/it/paesi/secinaro/neviera.htm

9 Specie di portantine in legno a quattro mani.

10 P. CASTORO, Le neviere, in Villaggio Globale, anno 1, n. 2, giugno 1998, a cura del Centro Studi Torre di Nebbia. Sulle neviere di Locorotondo ed Altamura si veda pure: G. GUARELLA, Niviere e vendita della neve nelle carte del passato, in Umanesimo della pietra, 1988, pp. 117 e ss.

11 Contratto con cui l’appaltatore si assicurava il monopolio sulla vendita del prodotto.

12 G. SPIRITO, La Storia di Foggia attraverso la toponomastica, Bastogi, Foggia 1998, p. 196. La strada prende il nome da un’antica chiesa sotto il titolo di Sant’Elena, ubicata nell’attuale Piazza Giordano; nel 1078, l’eremita Carlo Ferrucci, rettore della chiesa e dell’abbazia di Sant’Elena, voleva installare una lampada ad olio sotto il quadro che raffigurava Sant’Elena. Nel conficcare il chiodo al muro l’intonaco si scrostò ed apparve l’occhio di un affresco più antico, raffigurante la Madonna con Bambino con le mani incrociate, era il 5 agosto ed in quella data si festeggiava la ricorrenza della Madonna della Neve. Così, la chiesa da allora fu intitolata alla Madonna della Croce, ma fu anche detta della Madonna della Neve. La chiesa fu demolita nel 1930,  per far spazio all’attuale Palazzo degli Uffici Statali.

13 Per sesta si intenda il sesto giorno di asta e per decima il decimo giorno.

14 G. TANCREDI, Folclore Garganico, rist. anast. del 1938, a cura del Centro Studi Garganici per la Banca Popolare di Apricena, pp. 367 e 368. L’indicazione è stata cortesemente fornita dalla prof.ssa Teresa Maria Rauzino.

15 Cfr. L’antica civiltà…  sito internet cit.

16 Cfr. N. M. BASSO, L’industria del freddo fra ‘800 e ‘900, Parte descrittiva, in Il Gargano Nuovo, anno IX, nn. 1 e 2 gennaio-febbraio 1983, p. 3.

    

 

©2004 Lucia Lopriore. Queste pagine sono tratte dal volume di L. Lopriore, Le neviere in Capitanata : affitti, appalti e legislazione, Edizioni del Rosone, Foggia 2003.

   


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