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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino


 



La storia della comunità ellenica è caratterizzata dalle sue migrazioni nell’Italia del Sud. L’esodo più consistente avvenne dopo la conquista turca della penisola balcanica. Spinto alla rivolta dall’oppressione fiscale e dall’intolleranza religiosa ad un’eroica lotta per l'indipendenza, il popolo greco combatté contro gli Ottomani fino al secondo ventennio dell’Ottocento. Furono anni difficili: numerosi giovani espatriarono in cerca di libertà e di lavoro nel Regno delle Due Sicilie.

Il professor Giuseppe Clemente, presidente del Centro di ricerca e documentazione per la storia della Capitanata e membro della Società di storia patria per la Puglia, una ventina di anni fa ha pubblicato un saggio, I Greci in Capitanata dalla fine del 1700 al 1830. Vi apprendiamo interessanti notizie sulla comunità ellenica della nostra provincia. Emergono le seguenti famiglie: Candilli, Abbrasi e Papassimo a Foggia; Giannotti a Cerignola; Giallocosta e Coinnizi a Lucera; Giovannicosta a Manfredonia; Prinari a San Severo; Iachini a Torremaggiore, Baicussi a Serracapriola. Esse incisero positivamente sull’economia locale e parteciparono alle vicende storiche di quegli anni. A Foggia, nei primi giorni del luglio 1820, quando ebbero inizio i moti carbonari, tra i rivoltosi che assalirono il palazzo dell'Intendenza vi erano dei greci residenti in Capitanata, affiliati alla Carboneria. Essi ebbero una parte di rilievo durante il Nonimestre (il periodo costituzionale durato a Napoli solo nove mesi, dal 13 luglio 1820 al 24 marzo 1821).

Dopo i moti del 1820-21, la presenza dei greci divenne scomoda per Ferdinando I, un Borbone che seguiva la politica di Metternich, contrario all'indipendenza ellenica rivendicata dai patrioti affiliati nell’Eteria. Le disposizioni di polizia che regolavano l'ingresso degli stranieri nel suo Regno divennero sempre più rigide. Il consigliere provinciale Fania, che sostituiva il Sottintendente di San Severo, comunicò all'Intendente di Capitanata «di aver incaricato nel modo più energico i giudici regi e i deputati sanitari posti sul litorale di questo Distretto di sorvegliare attentamente su de' legni che contro li statuti sanitari volessero abusivamente avvicinarsi al lido, impedendo per tal modo lo disbarco che volesse mai tentare quel centinaio di profughi greci che erano imbarcati a bordo di un brigantino russo».

I litorali del Gargano furono strettamente sorvegliati per impedire lo sbarco dei clandestini. Ma tutte queste precauzioni non ne impedirono l'ingresso. Nel luglio del 1820, il ministro di polizia Intonti decise di mettere ordine nella confusa materia dei profughi greci. Pretese di conoscere quanti fossero, chi fossero, da dove provenissero e che mestiere esercitassero. Consapevole della difficoltà a conoscere il numero esatto dei greci che vivevano nella nostra provincia nella più assoluta clandestinità, cercò di avere precise notizie almeno su coloro che legalmente vi dimoravano. Così l'8 maggio 1824 chiese a Biase Zurlo, Intendente di Capitanata, un dettagliato rapporto sui cittadini «che, provenienti da Grecia nel corso della rivoluzione allignata in quel luogo, sonosi recati in codesta provincia per stabilirsi in talune di codeste comuni». Intonti stimava che fossero tre o quattromila i greci giunti clandestinamente in Capitanata. La polizia locale non aveva mai dato alcuna informazione in merito, ma egli voleva sapere se si trovasse «istituita su di loro una vigilanza onde conoscere la condotta e l'influenza e se sieno tutti venuti con carte regolari e qual motivo addussero alla loro traslocazione».

Ma dallo «Stato nominativo degli individui greci dimoranti in Capitanata», che Zurlo gli trasmise il 29 giugno 1824, il loro numero risultò di gran lunga inferiore a quello ipotizzato. Erano, infatti, in tutto 87 i cittadini greci ufficialmente residenti in Capitanata (mancano però i dati relativi al distretto di Bovino). Gli immigrati “regolari” erano così suddivisi: 41 nel Distretto di Foggia (20 a Foggia, 9 a Cerignola, 8 a Lucera e 4 a Manfredonia) e 46 nel Distretto di San Severo (16 a San Severo, 7 a Carpino, 6 a Serracapriola, 4 a Sannicandro, Vico e Torremaggiore, 3 a Ischitella e 2 a Peschici). Provenivano dall'Epiro, in maggior numero da Giannina, una cittadina che fu tra le prime a ribellarsi al dominio turco, ma c'erano anche profughi provenienti da Calarite, Siracos, Parga e Catarita Alta. Un immigrato veniva da Paxo, dall'isola di Corfù. Tra di essi vi erano caffettieri, tabanari, negozianti, giovani di fondaco e qualche studente. Pochi gli anziani, restii a lasciare la terra ellenica.

Il luogo ove stabilirsi veniva scelto in base alle concrete possibilità di aiuto offerte da conoscenti o da parenti che già vi dimoravano. Si formarono così, nei vari centri della Capitanata, dei nuclei familiari, veri e propri clan aventi un duplice scopo: favorire l'entrata nel regno dei propri connazionali ed aiutarli a trovare una sistemazione. Alcune famiglie, giunte in Capitanata tra la fine del XVIII e i primi anni del XIX secolo, durante il decennio francese avevano investito i loro capitali nell'acquisto di beni immobili: una parte di questi averi servì per aiutare i connazionali. Tra i profughi greci si stabilì una vera e propria mutua assistenza. I più facoltosi si recavano personalmente in Grecia per aiutare i giovani profughi a raggiungere la Puglia. Questi, una volta sistemati nel nuovo ambiente, mantenevano vivi i contatti con la loro patria, di cui seguivano con ansia le sorti. Quando finalmente nel 1830 la Grecia raggiunse l'indipendenza, molti greci ritornarono in patria, ma numerosi furono coloro che decisero di  stabilirsi per sempre in Capitanata.

 

Il diritto d’asilo e la divisione dei beni rivendicati dagli esuli greci di San Severo

Nicola Prinari, un ricco commerciante greco residente a San Severo fin dal 1803, era il capo carisma­tico dei greci di Capitanata, nonché convinto carbonaro. Aveva il compito di mantenere i legami tra i carbonari di San Severo e Domenicantonio di Claudio, Gran Maestro della vendita di Lesina.

Quando nel 1823 Giovanni e Gregorio Boccio, nativi di Giannina in Epiro, e provenienti da Ancona con passaporto falso, furono fermati dalla polizia e fu decretata la lo­ro espulsione, Nicola Prinari si fece latore di una supplica in cui i due fratelli chiedevano di poter restare a San Severo per esercitare il loro mestiere di orafi, non potendo più farlo nella loro patria devastata dalla guerra. Reclamavano l’applicazione dei diritti umani: «Non può negarsi un asilo a de' sciagu­rati che, dopo aver intesa distrutta la loro patria, vogliono stabilirsi altrove colle pro­prie famiglie, recando seco le arti per vivere. Nell'epoca calamitosa del Regno di Na­poli molti onesti ed illustri cittadini si ricoverarono ne' regni contigui. Furono accolti ed ebbero asilo e protezione. Tutto ciò avviene fra le nazioni civilizzate. La Terra si appartiene a tutti gli uomini pacifici e tranquilli». La supplica fu respinta. Il 5 luglio 1823 i fratel­li Boccio vennero espulsi. Nel termine di quattro giorni, accompagnati da Nicola Prinari, dovettero recarsi a Barletta e imbarcarsi per Corfù.

Il 22 ottobre 1923, sempre a San Severo, fu arrestato il greco Cristoforo de Lilla, di professione caffettiere, il cui locale era luogo di riunione dei carbonari. Incluso nell'elenco «dei facinorosi sicari che per le som­me loro reità gravitavano ad insopportabile peso degli innocenti e pacifici abitanti di San Severo», de Lilla fu immediatamente espulso dal Regno delle Due Sicilie. Nel suo caffè, nei giorni precedenti i moti del luglio 1820, Vincenzo Cavalli aveva illustrato ai carbonari in che modo, dopo il successo della rivoluzione, sarebbe avvenuta la divisione dei beni.

  
           

©2005 Teresa Maria Rauzino

    


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