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       LA MEMORIA DIMENTICATA

a cura di Teresa Maria Rauzino


 


Così a San Giovanni Rotondo fu repressa la rivolta filoborbonica

      

A San Giovanni Rotondo il 3 novembre 1860, esattamente 145 anni fa, la pace era stata ristabilita. O meglio: era stata ristabilita la pax garibaldina. Il fatto è che il 23 ottobre precedente una sommossa filoborbonica aveva provocato il linciaggio di ventiquattro cittadini considerati liberali, favorevoli all'annessione del Regno delle Due Sicilie da parte del Regno d'Italia sabaudo. Le truppe di Garibaldi, da oltre un mese insediatesi anche in Puglia, avevano posto fine alla rivolta il 26 ottobre. Dieci insorti furono fucilati il 7 novembre.

È un evento quasi sconosciuto.

Eppure le cosiddette insorgenze contro i portatori (veri o sedicenti) della libertà sono ancora oggi un ricorrente fenomeno con cui gli storici si devono confrontare. Di rivolte antisabaude nel Mezzogiorno ce ne furono molte; ci riferiamo a vere sommosse popolari, non al successivo fenomeno del brigantaggio. La più nota è quella di Bronte (Catania), dal 29 luglio al 6 agosto 1860: i contadini uccisero una quindicina di possidenti e minacciarono gli eredi dell'ammiraglio britannico Orazio Nelson (nel 1799 aveva ricevuto una tenuta da re di Napoli Ferdinando IV per i servigi resi stroncando la rivoluzione napoletana e facendo impiccare l'ammiraglio Caracciolo).

Garibaldi, più per tutelare gli interessi britannici che per ragioni di ordine pubblico, spedì a Bronte il generale Nino Bixio, che sedò i tumulti e fece fucilare cinque contadini.

L'evento siciliano è noto perché è stato raccontato da Giovanni Verga nella novella Bronte ( 1882) e dal cinema, in un film di Florestano Vancini del 1972, Bronte - Cronaca di un massacro, che i libri di storia non hanno raccontato. Ma fu una rivolta anomala: i contadini siciliani sventolavano i fazzoletti rossi garibaldini.

A San Giovanni invece i connotati filoborbonici furono più netti. E il tumulto fu molto simile a quelli scoppiati nei paesi vicini: San Marco in Lamis, Cagnano e Mattinata.

Il merito d'averne ricostruito la storia spetta soprattutto al cittadino sangiovannese Giulio Giovanni Siena, funzionario del Provveditorato agli Studi di Foggia, che ha pubblicato nel 1998 il libro Ventiquattro Martiri per il Risorgimento di S. Giovanni Rotondo (Edizioni Kronos; on line su www.padrepioesangiovannirotondo.it). Siena lo scorso anno ha svolto anche una relazione nel Chiostro del Palazzo di Città, organizzata dal Lions Club Host, Leo Club e patrocinata dal Comune. Il ricercatore vi delinea fatti, premesse e conseguenze, senza «dare addosso» al popolo, «ignaro esecutore dell'eccidio, vittima a sua volta del malgoverno borbonico».

Dunque, il 21 ottobre 1860 «le popolazioni delle province dell'Italia meridionale si pronunciarono massicciamente con un “ Sì” al seguente plebiscito: “Il popolo d'Italia vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale, e Suoi legittimi discendenti”». 

A San Giovanni fu l'occasione per far scoppiare una reazione in grande stile. Le premesse? Il 7 settembre 1860 Garibaldi era entrato trionfalmente a Napoli. Ricorda Siena: «La notizia generò pubbliche manifestazioni di giubilo... che trovavano il culmine nel canto del Te Deum nelle chiese matrici. A San Giovanni Rotondo questo non poté avvenire a causa dell'atteggiamento ostile dell'arciprete Ludovico Bramante il quale, in ottemperanza alle direttive dell'arcivescovo, ritirò l'adesione - già data - del Clero ai festeggiamenti proclamati dalle autorità civili. Ciò provocò sconcerto nella plebe che si aspettava una cerimonia religiosa e, a causa dell'influenza del Clero, cominciò a guardare con diffidenza le novità politiche liberali».

Secondo Siena, la rivolta fu fomentata dai proprietari terrieri e dagli ex soldati del disciolto esercito borbonico, «i quali, per un grave errore politico, erano stati prima inviati in congedo da Garibaldi e poi erano stati richiamati sotto le armi con un decreto del nuovo Ministro della Guerra». Molti disertarono, formando bande armate nelle campagne. Così la gente comune - presa tra i due fuochi delle promesse sabaude e borboniche - alla fine «si schierò apertamente contro il nuovo ordine di cose». La mattina del 21 stavano per aprire i seggi del plebiscito quando «da via Santa Caterina sbucò Francesco Cascavilla al grido di “Viva Francesco II”, a capo dei soldati sbandati e di molti popolani armati». Vi furono assalti, i primi assassini e saccheggi; furono imprigionati ventidue liberali.

Il 23 ottobre il governatore della Capitanata Gaetano del Giudice inviò una spedizione per sedare il tumulto. «La notizia del loro arrivo - scrive Siena - fu portata in paese da Emanuele Sabatelli... “Quanti ne vengono! Andiamo ad ammazzare tutti quelli che sono in carcere!”. Seguì il crepitio sostenuto dei colpi di fucile. E i parenti dei liberali ebbero certezza dell'avvenuta strage».

Arrivò per prima una compagnia di duecentosessanta garibaldini guidata da Vincenzo D'Errico, «fratello dei martiri Luigi ed Errico». Pochi. Finché il generale Liborio Romano, molfettese, arrivò con oltre mille uomini e due cannoni. I rivoltosi dovettero capitolare.

Le truppe entrarono in paese il 26 ottobre. Una volta ritornato l'ordine, un consiglio di guerra, insediatosi nella chiesa di San Giacomo, decretò la fucilazione di dieci insorti, eseguita il 7 novembre 1860 vicino la chiesa della Madonna di Loreto.

Altri tre ottennero l'ergastolo. Decine e decine di persone furono processate fino al 1866. Molti morirono in carcere. Alla fine di ottobre a San Giovanni Rotondo venne riallestito il seggio per le votazione del plebiscito: 850 «Sì» a Vittorio Emanuele II; nove «No».

Per chi sostiene tuttora l'illegittimità dell'annessione sabauda, la rivolta di San Giovanni è una conferma ulteriore della falsità del plebiscito unitario e del carattere di conquista che ebbe la guerra nel Sud.

Di quegli eventi resta la testimonianza di una lapide, posta nel 1894 sulla facciata di Palazzo San Francesco. Vi si leggono i nomi delle vittime e la scritta: «Qui cieco furore di plebe rinchiuse / e da fautori di borbonica tirannide istigato / senza cristiano consiglio in un'ora sola / il 23 ottobre 1860 con miseranda strage / 24 egregi uomini trucidò / che la postuma cittadina riconoscenza / martiri di libertà proclama / e l'Italia redenta ai posteri tramanda».

    

LE FORZE IN CAMPO
Furono le camicie rosse pugliesi a riconquistare il paese

I garibaldini che affrontarono i rivoltosi di San Giovanni Rotondo erano, in gran parte, altri pugliesi. Inquadrati nella «Brigata Peuceta», organizzata dal generale Liborio Romano, originario di Molfetta: aveva avuto l'incarico di costituire un corpo di volontari nelle province di Bari e di Capua, destinati a sedare i moti filoborbonici scoppiati sul Gargano e in Irpinia. Com'è noto, la spedizione dei Mille era iniziata il 5 e 6 maggio 1860 a Quarto (Genova) e s'era conclusa cinque mesi dopo con la sconfitta dell'esercito borbonico (Volturno, 1- 2 ottobre).

Il 26 ottobre Garibaldi, a Teano, consegnò il regno a Vittorio Emanuele II. Alla spedizione parteciparono dall'inizio molti pugliesi: tra questi, Francesco Raffaele Curzio (Acquaviva), Oreste Serafini (Gioia), Guglielmo Gallo e Francesco Mastropasqua (Molfetta), Angelo Lacerenza (Barletta), comandate del battaglione «Figli dell'Ofanto», Filippo Minutillo (Grumo), Camillo Boldone (Barletta), Francesco Chicco (Palo del Colle). Per altro molti garibaldini non seguirono Garibaldi verso Napoli ma occuparono le città maggiori del Sud. Liborio Romano giunse con 1.206 garibaldini a Bari il 5 settembre 1860. I militari dei Borboni se n'erano già andati. E il Municipio deliberò - a tempo di record - la trasformazione di corso Ferdinandeo in corso Vittorio Emanuele II, di piazza Conte di Bari in piazza Cavour e di piazza Borbonica in piazza Garibaldi.

    


         
       
        

©2006 Marco Brando; articolo pubblicato sul «Corriere della sera - Corriere del Mezzogiorno» del 2/11/2005.

      


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