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             MEDIOEVO RUSSO

a cura di Aldo C. Marturano, pag. 29


Vladimiro Monomaco

   

      

Quando ci siamo accinti a scrivere del ruolo della donna nella società russa delle origini abbiamo avuto grandissime difficoltà proprio per l’insufficienza delle fonti e così abbiamo dovuti fare confronti su confronti per riuscire a disegnare un quadro che fosse abbastanza convincente e rispondente alla verità storica (!!).

Infatti, se partiamo dai reperti archeologici, questi ci indicano molte cose su come le donne del tempo si ornavano e si vestivano, ma perché… si riferiscono a quelle dell’élite al potere! Così, per quanto la società potesse essere ancora poco differenziata dal punto di vista delle classi sociali, non riusciamo ad attribuire gli stessi oggetti della consorte di un principe a quella dello smjerd. Ci sono fortunatamente le byline però che in parte ci aiutano e così, aggiungendo i resti delle usanze ancora in vigore nella civiltà e nel folclore russi di oggi, sebbene restiamo incerti su alcuni punti e lo sottolineeremo di volta in volta, abbiamo recuperato il quadro che segue.

Cominciamo col dire che nei villaggi russi dominava il matrimonio esogamico e cioè la scelta della sposa al di fuori della grande famiglia locale. Inoltre il numero di spose per marito non era nemmeno prescritto o limitato: Il maschio che poteva, ne aveva anche più di una! Tutto ciò avveniva, non tanto per una questione biologica per lo più ignota alla scienza del tempo, quanto perché con ogni matrimonio si potevano stabilire solide “alleanze” fra clan e clan, fra villaggio e villaggio, allo scopo di rinsaldare o rafforzare i legami tribali e l’appartenenza all’identica stirpe che era un aspetto molto importante e che si rispecchiava persino nella venerazione religioso-magica del nume Rod che impersonava la sacra tribù originaria. La donna come riproduttrice della specie, mescolando il suo sangue con quello di un’altra comunità, legava indissolubilmente la sua grande famiglia con quella nuova, non appena avesse partorito un po’ di figli. Questo allontanamento definitivo (benché fosse concesso in casi particolari che la donna rivisitasse i “suoi”, otpravit’sja vosvojasi) della donna dal proprio ambiente spiega anche perché nelle cerimonie prematrimoniali che si sono conservate fino ad oggi la promessa sposa deve rimanere chiusa in casa per qualche giorno in gramaglie perché il matrimonio per lei è pari alla morte in questo clan e alla rinascita nell’altro del marito.

Naturalmente prima del matrimonio si sono già verificati altri eventi che hanno preparato la scelta di cedere questa giovane a colui che sarà il suo futuro marito.

In realtà possiamo immaginare che una figlia, una volta cresciuta e giunta al menarca (che probabilmente si notava intorno ai 9-10 anni!), non rappresenta una forza lavoro in più come nel caso di un figlio poiché, quale sposa feconda, non farà altro che aumentare le bocche da sfamare… Ricordiamolo! L’economia dello smjerd è basata sullo sfruttamento di un certo appezzamento di terreno in comune col resto del villaggio e quindi un aumento di domanda di cibo preannuncia una diminuzione proporzionale delle razioni già stabilite fino a quel momento. Insomma, la ragazza, ora che è sessualmente matura, deve essere “data via” al più presto! Naturalmente la più grande della figlie si sposa per prima e chi la prenderà dovrà pagare un prezzo che copra il costo di crescita che la grande famiglia ha sostenuto fino a questo momento: il cosiddetto “veno” in russo (corrispondente all’analogo venum degli antichi latini o al qalim dei nomadi del Centro Asia!). Solo in caso di infertilità la donna tornerà a casa sua e il veno sarà rimborsato o sarà data in cambio la sorella minore della ripudiata, se è ancora disponibile!

Quando si conoscono i due promessi o quando s’incontrano? Di regola solo al momento dello sposalizio! Fino ad allora i loro futuri legami sono un affare che viene trattato dai genitori delle rispettive famiglie attraverso l’intermediazione di due pronubi (lo svat e la svaha) che sono stati incaricati di trovare il “giusto” sposo per lei e di proporre la “giusta” sposa a lui. Il sentimento, l’amore come l’intendiamo noi oggi, trova poco posto in tutto questo discorso e non può stare a fondamento del nuovo nucleo famigliare. L’amore e il sesso fantasioso e divertente è roba che si può provare soltanto in occasioni diverse dal matrimonio!

Tuttavia c’erano anche altri riti matrimoniali delle genti russe che ci sono stati tramandati sebbene considerati più primitivi dalle Cronache: Il matrimonio per ratto dei “selvaggi” Drevljani (gli antenati dei Polesciuki!) delle Paludi del Pripjat, ad esempio…

Una volta sposatasi la donna entra nella nuova grande famiglia e notiamo subito che raramente si costituiscono famiglie nuove. Una ragione c’è: Se ciò avvenisse, significherebbe ricostruire tutta una nuova piccola comunità che forse non troverebbe terra e neppure riceverebbe alcun aiuto da quelle di provenienza.

Da sposa, ora la donna deve fare il suo dovere di mettere al mondo i figli e di educarli in buona salute fino alla maggiore età.

La donna ha vissuto nella vecchia e continuerà a vivere anche ora in promiscuità nella nuova grande famiglia. Lo spazio esiguo a disposizione nell’izbà e i costumi del tempo permettevano infatti molte relazioni fra i sessi che oggi condanneremmo per semplici ragioni culturali o religiose. Al suocero ad esempio competeva il diritto di dormire con la nuora, se il marito era via per lungo tempo, oppure con la propria figlia se era necessario per avere altra prole. Dunque poligamia, incesto etc. non erano concetti o problemi psicologici e legali di quei tempi! Chiaramente la prostituzione era praticamente assente…

Addirittura durante l’anno c’erano sempre molte occasioni di feste orgiastiche in cui i giovani provavano la loro potenza e la loro disposizione ad amare e a far sesso con le ragazze. Non sempre queste pratiche sfociavano nell’unione dei due partners e quando la donna risultava incinta, il figlio veniva “adottato” da tutta la famiglia, senza discussioni. Era lo stesso atteggiamento se uno dei genitori di un bimbo moriva… Qui è doveroso sottolineare come questa protezione dell’infanzia e degli adulti fosse una delle grandi garanzie di assistenza che la zadruga offriva senza pregiudizio a tutti i suoi componenti… attraverso la donna!

Una specie di infermeria dove il malato veniva curato meglio e lontano dagli altri componenti della famiglia era la famosa banja russa. Questa era una costruzione a parte fuori dell’izbà di solito costruita su un trespolo sollevato dal terreno e al cui interno si accedeva con una scaletta. Qui c’era un forno (gorniza) dove si arroventavano i sassi di fiume. Il bagno era fatto nel sudore che si generava nell’aria ad alta temperatura nel piccolo ambiente. Se l’aria era troppo secca, con un lungo mestolo si spruzzava dell’acqua sui sassi e il gioco era fatto! Nella banja semplicemente ci si rinvigoriva o ci si curava o si partoriva…

Tuttavia non era permessa alcuna attività nella banja dopo mezzanotte! In questo piccolo ambiente infatti abitava il cosiddetto bannik, un essere magico immaginato come un orribile vecchietto proprio perché sicuramente costui era uno degli spiriti maligni che, accumulati nel corpo era venuto fuori col sudore, liberando il corpo dal male, dopo esser stato battuto con un ramo e si era ora stabilito nella banja.

C’era un tipo di gadanie curioso che le ragazze facevano di notte presso la banja che sfruttava i poteri del piccolo mostro maligno. Una per una le giovani aprivano la porta della banja, si alzavano le vesti sul di dietro e ponevano il proprio deretano nudo rivolto verso l’interno, mentre il resto del corpo rimaneva al di fuori. Ognuna di loro aspettava poi di sentire il tocco della mano del bannik che annunciava che tipo di fidanzato avrebbero incontrato!

Alla stessa stregua, non appena la donna incinta sentiva le prime doglie, bisognava subito preparare la banja per farla partorire. Lì dentro il bimbo veniva pulito e fasciato, ma non bisognava perderlo mai di vista poiché c’era il pericolo che il bannik gli facesse qualche brutto scherzo, come probabilmente era accaduto al principe Vseslav di Polozk nell’XI sec. che era nato con una grossa voglia sulla fronte ed era stato costretto ad indossare un cappello per tutta la vita per nasconderla!

Per inciso diciamo che nell’izbà calda era previsto un posto speciale per il neonato. Infatti un travone trasversale al centro del soffitto da una parete all’altra, chiamato matiza (piccola madre!), serviva per appendere e dondolare la culla di solito regalata dai vicini e tutta dipinta di verde. Questo sistema impediva che il bimbo mentre dormiva potesse essere molestato da animaletti o insetti pericolosi!

Certamente c’erano sempre delle nuove nascite ogni anno e, sebbene l’evento fosse sempre una gioia per tutti, rimaneva il problema di dover allevare il nuovo nato per portarlo alla maggiore età che qui, si raggiungeva in pratica verso gli otto-nove anni. C’era un rito importante per il piccolo essere umano maschio ed era quello molto solenne del primo taglio dei capelli (postrìg) che dava l’accesso alla maggiore età. Il postrig gli permetteva di avere la sua voce in capitolo e il suo posto nell’assemblea del villaggio e, soprattutto, di ricevere la sua parte di campo da lavorare per sostentare sé stesso e gli altri della famiglia! I capelli, accuratamente raccolti dalla madre commossa, erano però immediatamente bruciati affinché nessuno spirito malefico potesse usarli per fare qualche incantesimo contro il nuovo membro della comunità.

Il primo taglio dei capelli per la donna invece era all’epoca del matrimonio dove le lunghissime trecce, finora raccolte sul capo, adesso venivano sciolte e recise per essere regalate o vendute.

Ripetiamo invece che il problema numero uno restava il numero di bocche da sfamare. Per questo l’antica società medievale aveva previsto delle soluzioni sia affidando (dietro pagamento!) il bimbo in più prima del postrig a chi lo richiedesse in un’altra comunità sia addirittura vendendolo come schiavo in terre lontane. Non era questo un costume prettamente slavo o slavo-orientale, era semplicemente un comportamento diffuso abbastanza in tutta l’Europa (e mai scomparso neppure ai giorni nostri, benché mascherato dietro altre etichette, malgrado le leggi protettive dell’infanzia!). D’altronde non era forse più giusto che il bimbo abbandonando la famiglia evitasse maggiori stenti a lui stesso e a tutti i suoi? Perlomeno passando in un’altra comunità avrebbe potuto star meglio e costruirsi una vita diversa. Insomma dobbiamo immaginarci un amor filiale molto diverso da quello di oggi senza inutili pregiudizi scandalizzati.

Perché allora non limitare il numero delle nascite ricorrendo al vecchio metodo di allungare il periodo di allattamento? Purtroppo il tasso di morte perinatale era molto alto e quindi molte gravidanze erano necessarie affinché almeno un certo numero di neonati sopravvivessero e sostituissero con le loro vite quelle degli individui deceduti. Ma se poi questi figli rimanevano in vita tutti? Insomma, una donna doveva essere fertile, ma non troppo!

Ciò detto, possiamo immaginare questa madre occupata soprattutto a curare e crescere figli. Questi frutti del suo seno d’altronde, a parte il suo orgoglio di averli creati nel suo grembo, secondo il modo di vedere del tempo le garantivano la posizione sociale all’interno della comunità e le assegnavano in “modo naturale” la gestione e l’economia della casa.

Quali erano i compiti femminili di casa? Certamente il primo e più importante era la preparazione, la conservazione e la trasformazione delle derrate alimentari!

Qui lamentiamo la mancanza di reperti archeologici sufficienti che ci diano un’idea più precisa degli arnesi e del vasellame da cucina usato nei secoli X-XIII d.C., ma presumendo che questo armamentario (utvar’) non sia cambiato molto nelle sue funzioni, e neppure nel suo aspetto e pochissimo nel materiale usato per fabbricarlo, possiamo ricostruire la figura della nostra massaia alle prese con un grosso pentolone di coccio (gorsciòk) avente tre gambe proprie, sempre di coccio, oppure poggiato sul un treppiedi di ferro nel quale prepara la kascia come avveniva ancora qualche decina di anni fa in Ucraina o in Bielorussia. Un grosso mestolo certamente è a sua disposizione più altri cucchiaioni e cucchiai più piccoli, rigorosamente tutti di legno.

C’è anche una padella (skovorodà) di coccio senza manico dove sciogliere il grasso o lo strutto di porco e dove poi si può friggere. Non manca certamente un arnese molto importante per lavorare attraverso la bocca della pec’ka: una specie di forchettone-pala di legno (latòk) che serve ad introdurre e a tirar fuori le pentole e le padelle o per mettere il pane e le focacce a cuocere per poi estrarle fuori pronte, proprio come la pala di un moderno pizzaiolo nostrano!

C’è persino una bella madia per poterci lavorare la farina mescolata con l’acqua salata per le varie paste che servivano di base, ad esempio, alle blyny (frittelle caratteristiche russe) oltre che per dolci e dolcetti. Secchi e tinozze se ne sono invece trovati molti, specialmente negli scavi di Novgorod eseguiti nella seconda metà del XX sec., e molti di questi recipienti avevano delle misure costanti che ci indicano non solo l’attenzione con la quale questi oggetti erano fabbricati, ma anche l’esistenza di una standardizzazione e, nel caso specifico, di una produzione in serie. Bicchieri scavati nel legno o barattoli di scorza intrecciata, cestini e scodelle, anche questi facevano parte della batteria da cucina della nostra cuoca. Un coltello o una piccola accetta con relativa pietra da affilare non mancava…

Abbiamo notizia dell’uso del pane in un modo particolare ossia… come piatto! In realtà l’uso è di per sé antico, ma se è ben provato per la tavola del re polacco Ladislao Jagellone nel XIV sec., non sappiamo con sicurezza se ciò fosse un costume abituale nell’izbà russa o a tavola del signore. D’altronde il vocabolo russo tarelka per piatto di coccio è parola tedesca (da Teller) importata dall’ovest, per cui sicuramente il piatto come lo immaginiamo oggi fu introdotto molto più tardi (XVI sec.), ma ciò non ci conforta per confermare l’uso del pane quale piatto per mangiarvi dentro.

La nostra massaia ad ogni modo non si limitava a preparare il cibo partendo dalla materia prima già pronta o dalle derrate che suo marito produceva nei campi o cacciava nella foresta, ma aveva anche il compito di cercare in giro le spezie, di coltivare nell’orto gli aromi e le insalate, la frutta fresca e le radici succulente per arricchire e variare la dieta giornaliera. Di una pianta ormai riconosciuta commestibile niente veniva gettato via,  come invece avviene oggi dove molti rifiuti urbani sono parti di piante che invece una volta erano tranquillamente consumate con gusto.

A proposito della ricerca di erbe, ricordiamo che ne avevamo già accennato. Qui vogliamo ribadire che questa attività rimase propria della contadina russa e che costei poi con lodevole preveggenza aveva l’accortezza di classificare e di conservare per quanto possibile tutta questa riserva di piante “selvagge”, ma commestibili, che in caso di bisogno avrebbero potuto sostituire quelle che tradizionalmente si coltivavano nei campi. La lista non è lunghissima e tuttavia non la riprodurremo qui, ricordando invece che questi “surrogati” quando c’era una carestia (e queste erano purtroppo frequenti) diventavano il cibo più importante.

Durante la buona stagione possiamo dunque vedere la nostra donna vagare per la foresta a raccogliere le bacche e i frutti selvatici che poi si preoccupava di pulire, tagliare in pezzi più piccoli e far seccare sulla pec’ka per poterli gustare anche d’inverno. Raccoglieva naturalmente i funghi che, seccati, venivano infilati come in una lunghissima collana e appesi nell’angolo bello dell’izbà o alla matiza. Sappiamo che si usava anche l’Amanita Muscaria, velenosa in grandi e psicotropa in piccole dosi, ma questa era un’altra faccenda…

Come conservava il cibo la nostra madre di famiglia, oltre a seccare i prodotti vegetali? Già il freddo intenso durante il lungo inverno era un mezzo conservante efficace se alcune derrate erano immagazzinate nell’izbà fredda. Un altro metodo, diciamo così spontaneo, era quello di lasciare alcune radici e piante succulente ipogee come carota, rapa (talvolta anche cipolla e aglio) e simili nella terra fredda sotto la neve dove si erano sviluppate per estrarle al momento del consumo. Il freddo però era anche sfruttato con l’uso della cantina scavata sotto l’izbà!

Un conservante principe restava tuttavia il sale e la salamoia era la soluzione ideale per conservare moltissimi alimenti.

Teniamo presente che l’acqua dei pozzi nel nord della Pianura Russa, a causa di giacimenti sotterranei di salgemma, è quasi sempre salata. L’estrazione del sale avveniva in vari modi, sia dalle fonti salate di cui abbiamo notizia esistere sulle rive meridionali del lago Ilmen sia dagli acquitrini bielorussi e delle paludi del Pripjat, ma anche in posti vicini alla foce dei grandi fiumi che sboccavano nel Mar Nero: Il Dnepr, il Bug, il Dnestr e persino nel Mar d’Azov. In tutti questi luoghi c’era un’antichissima tradizione risalente ai greci del Ponto Eusino di estrazione del sal marino per concentrazione in soluzione acquosa tramite bollitura o evaporazione ed essiccazione nel sole. Alla fine il sale non appariva come il nostro sale da cucina raffinato, quasi puro Cloruro di Sodio cristallino, ma era spesso una mescolanza di Cloruro e Nitrato di Sodio, come quello estratto nelle paludi che però era il migliore poiché agiva sia come conservante sia come “arrossante” nel caso della carne.

Probabilmente la donna sapeva estrarre piccole quantità di sale attraverso le sue esperienze anche dall’acqua dei pozzi senza ricorrere a specialisti e ne teneva gran conto, giacché il sale era un prodotto costoso! Il rito del benvenuto all’ospite nella casa russa (hlebosolje) ne denuncia l’importanza poiché viene offerto pane e sale…

Col sale venivano fatte varie conserve in salamoia, specialmente dei prodotti vegetali, e non solo delle verdure, ma anche dei frutti dolci che acquistavano così un sapore tutto particolare!

Un alimento che andava conservato col sale perché abbondante, ma soggetto a rapido deterioramento, era il pesce. La pesca era un’occupazione prettamente maschile tuttavia ed era offensivo e inimmaginabile che una donna potesse andare a pesca…

I fiumi e i laghi della Pianura Russa, lo ripetiamo, erano (e in parte lo sono ancora) frequentati da pesci di grossa mole come il Salmone o lo Storione, pesci di cui gli individui di grande età (5-6 anni) raggiungevano proporzioni quasi gigantesche. Questi pesci catturati, venivano liberati delle interiora, ben lavati e posti in tranci o a volta interi sotto sale per lungo tempo. Il sale penetrava nelle carni dell’animale privandole dell’acqua e impediva che queste marcissero. I pezzi così preparati poi potevano essere tenuti in riserva nell’izbà fredda per l’inverno. Altri pesci più piccoli invece venivano posti in una salamoia molto densa. Si potevano anche seccare al vento e al sole, se erano stati catturati d’estate…

Anche il Mar Baltico forniva pesce e specialmente quello più famoso: l’Aringa. Le Aringhe sono distinte in quelle del Mare del Nord che sono più grandi di quelle del Baltico, appunto più piccole e più sottili, ma, a detta degli intenditori, queste ultime sono più saporite. La distinzione fra le due specie è chiaramente espressa dai popoli rivieraschi nelle proprie lingue e così i russi parlano di salaka se è l’Aringa baltica e di sel’dka se invece è quella atlantica. Ad onor del vero aggiungiamo che l’atlantica in particolare ebbe gran diffusione quando l’Hansa tedesca cominciò a commerciarne in  grande quantità nel XIII sec. e quindi prima di quest’epoca era poco conosciuta nei villaggi dell’entroterra russo.

Con sale e con la salamoia si conservavano le carni dei piccoli animali catturati per la loro pelliccia o dei porci di allevamento e questa operazione di solito veniva eseguita alla fine dell’anno alla chiusura della raccolta delle pelli.

Del maiale, quando veniva macellato, le parti grasse con tutta la pelle venivano salate e conservate appese da qualche parte nella cantina e si sono addirittura conservate fino ad oggi, naturalmente mescolati con elementi concettuali cristiani, alcune formule che dovevano preservare queste derrate dai vermi o dagli insetti e, grazie alla ricerca fatta fra gli archivi più impensabili dalla signora A. V. Kapylòva, ne rileggiamo una.

Scongiuro contro le vespe (o contro il Mangialardo, Dermestes lardarius) che possono rovinare il lardo

Vespa, (dea-)madre di tutte le vespe, tu non sei mia madre e i tuoi figli sono le tue vespine e i miei sono i miei bambini e voi (o vespe!) non mi siete figli (ossia parenti). Porto con me l’erba santa, la secco nella fredda foresta d’abeti, la brucio nella radura verde. O vespette, volate verso quel fumo. O (dea-)vespa, vola verso la foresta. La parola è: serratura, la lingua è: chiave (cioè, uscite e chiuderò la casa e non ritornerete mai più)!

La carne però poteva anche essere conservata sotto terra, nella cantina sotto l’izbà (podval/pogreb/podklet) dopo averla pulita e dissanguata e avvolta in stracci puliti, all’inizio dell’inverno, naturalmente!

Come si prepara la carne salata (soljanina)

(da una ricetta di E. Molokhovec, 1861, rielaborata da ACM)

Fatto in pezzi abbastanza grossi l’animale appena macellato, lo si terge accuratamente dal sangue mentre la carne è ancora calda poiché il sangue guasterebbe rapidamente la carne stessa. Togliere le ossa più grosse e poi strofinare con una miscela salina tutte le superfici in vista. Il sale deve essere seccato nella pec’ka affinché assorba meglio acqua e si attacchi bene alla carne. La miscela salina è fatta con sale marino, salnitro, e con le spezie a disposizione. Si faccia questa operazione di strofinamento col sale con forza e con pazienza. Dopodiché si lascia raffreddare la carne così preparata e la si sistema in piccoli tini di legno di quercia previamente puliti e disinfettati con cenere umida. I pezzi più grossi si porranno nel centro e quelli più piccoli tutt’intorno. Il fondo del barile sarà stato già preparato con sale e spezie prima di introdurre la carne. Comprimere ora il tutto senza troppa forza pigiando con un pestello in modo da non lasciare spazi vuoti. Spargete ancora sale e spezie della miscela sopra detta e riempite fino all’orlo ogni tino. Chiudete con apposito coperchio di legno e sigillate con argilla molto densa che lascerete asciugare e seccare nell’izbà calda per due o tre giorni. Ogni giorno avrete l’accortezza di rivoltare ogni tino. Finalmente i tini vanno posti nella ghiacciaia e lasciati lì per almeno tre settimane, avendo cura di capovolgerli ogni settimana.

Queste dunque erano tutte incombenze femminili che non finivano però qui.

La donna aveva il compito di curare le ferite, i malati, assistere i vecchi inabili e perfino di curare gli animali malati del bestiame di casa. Il malato d’altronde era visto non come colui il cui corpo è stato colpito da un agente patogeno preciso, ma come se uno spirito maligno fosse penetrato dentro di lui. La cura quindi non era soltanto farmacologica o chirurgica, ma anche magica perché bisognava scacciare la forza impura che abitava nel corpo e qui la donna, avendo una lunga esperienza ereditata da sua madre che l’aveva appresa prima di lei, faceva la parte della cosiddetta znaharka, ossia la sapiente. Agiva sia usando pozioni, infusi e impiastri di erbe e sostanze varie che lei soltanto conosceva sia con scongiuri e preghiere particolari indirizzate agli dèi (in tempi cristiani, ai santi) che presumibilmente potevano aiutare a scacciare lo spirito maligno. Queste pratiche gli davano però talvolta una funzione alquanto ambigua poiché l’insuccesso della cura o la morte del malato la portavano subito nel mondo delle streghe malefiche e cominciava ad acquistare la fame di poter distruggere la vita delle persone intorno a lei. Quindi ci voleva una grande accortezza ad evitare accuse di tal fatta, stando attenta a non dare troppe speranze a chi a lei si affidava per una cura estrema. Acquistare però la nomea di znaharka era un onore molto difficile da conseguire e raramente accadeva per donne giovani. Le nonne invece che avevano ormai passato i 40 anni sembravano agli occhi della gente quasi delle persone immortali e il loro agire era accettato di buon grado e considerato inappellabile. Si pensava che se una morte o una non guarigione seguiva ad un trattamento al quale la znaharka aveva sottoposto qualcuno, la responsabilità ricadeva su colui che non aver ottemperato puntigliosamente a tutti gli obblighi che la znaharka aveva prescritto con precisione: Un solo errore rituale e la cura risultava non più valida e giusta!

Il fatto che la donna avesse dei cicli mensili simili a quelli della luna portava questo astro ad essere un nume femminile (Lunà) benché abbiamo notizia che la luna fosse prevalentemente un dio maschile (Mesjac). Protettrice della donna di casa era invece Mokoscià o Mokosc’ il cui nome suggerisce, per la somiglianza con l’aggettivo mokryi, ossia bagnato,  la sua origine come protettrice delle acque. In realtà però il nome è legato per etimo alla tessitura e perciò Mokoscià era importante per questa sua facoltà e le donne di casa stavano attente a non provocare la sua ira e a tenersela buona con offerte continue ogni giorno di fiori ed erbe particolari pestate e cotte in suo onore. Addirittura si diceva che Mokoscià apparisse nelle izbe e filasse di notte sul telaio mentre tutti dormivano, se era stata appagata dalla venerazione della padrona di casa! Il ricercatore paleografo V. A. Ciudinov ha ritrovato il nome di questa dea su moltissimi sassi morenici (valuny) che si trovano sparsi nella Pianura Russa deducendone una venerazione molto più diffusa di quello che si può pensare. Secondo Ciudinov, Mokoscià è la Dea Maggiore del pantheon slavo e presiede alla consacrazione dei bambini al dio Rod dopo il postrig. Secondo lo stesso ricercatore, non solo a Perun, ma anche a Mokoscià era abbinata la Quercia come albero sacro.

Aggiungiamo che Mokoscià è l’unica dea femminile del pantheon vladimiriano e la sua venerazione era fatta in modo esclusivo e segreto dalle donne per cui, molto probabilmente, era proprio questa dea che presiedeva ai gadanie dell’inizio dell’anno e ai quali gli uomini non erano assolutamente ammessi. A lei era dedicato il quinto giorno della settimana in cui la donna interrompeva il suo lavoro casalingo più importante: la tessitura dei panni! Non fermarsi al venerdì sarebbe stato un sacrilegio tanto grande che avrebbe offeso Mokoscià la quale, durante notte, era capace di imbrogliare talmente la trama del telaio da dover ricominciare la tessitura daccapo!

In suo onore alla sera del giovedì la padrona di casa preparava un grosso pane con una coppetta piena di sale su un tavolino nell’angolo bello dell’izbà e attendeva che la dea venisse a mangiarne. Con il Cristianesimo Mokoscià fu relegata fra gli spiriti impuri e diabolici e la sua festa fu sostituita da quella della santa Parasceva, celebrata logicamente anch’essa di venerdì con la preparazione della Tavola di Parasceva, ma vi fu aggiunto al pane e al sale anche del miele!

Alla donna di casa toccava anche tenere in ordine l’orto e la coltivazione del lino e della canapa…

Queste due piante erano considerate femminili e in particolare intorno al lino – Linum usitatissimum  (ed anche, ma meno documentata, la canapa - Cannabis sativa) si sono raccolte moltissime leggende russe in quanto questa pianta era vista quasi come un figlio (o una figlia) che andava trattata con delicatezza e attenzione da sua madre, la moglie dello smjerd. C’era un giorno particolare della primavera in cui il lino andava seminato, né prima né dopo! Così come c’era un giorno in cui esso doveva poi essere raccolto, prima che la prima pioggia dell’autunno cadesse. Il lino era usato esclusivamente dalla donna per tessere la propria biancheria e quella dei suoi per tutti i momenti della vita. Le bimbe già verso i 6-7 anni cominciavano a curare le piante di lino insieme alla loro mamma!! Occorreva seminare con cura in modo che ogni seme desse una piante vigorosa e sana ed i semi andavano distanziati perché una pianta non soffocasse l’altra nella fila e tutte fossero vigorose. Finalmente la pianta cominciava a crescere, ma, strano a dirsi, veniva spesso infastidita dalle piante concorrenti e così, un giorno più libero di altri un gruppo di donne e di bambini si recavano sulla “striscia seminata a lino” per sradicare, senza disturbare le radici della carissima pianta, tutte le “erbacce”. Non era così facile poiché le “erbacce” erano molto simili al lino stesso ed occorreva esperienza… Un altro nemico del lino erano le afidi o pulci (bloha) che appena comparivano occorreva immediatamente distruggere. Come? Con la cenere della pec’ka!

Verso la fine della crescita, quando s’avvicinava l’estate, le donne tremavano se durante la notte sentivano tuonare: La pioggia poteva far imputridire il lino! Al contrario quando il sole era troppo intenso, il lino poteva diventare troppo secco!

Finalmente il lino era pronto per essere estirpato e messo in mazzi! Si preparava una treggia tirata da un cavallino dove i mazzi molto alti e pesanti erano adagiati con cura e trasportati fino all’izbà fredda. Dopo qualche giorno gli steli seccati erano battuti e lasciavano cadere così i loro semi. Questi erano importanti perché si dovevano scegliere i migliori per la prossima semina. Gli altri semi invece si usavano sia per ricavarne l’olio sia per farne tisane e cataplasmi oppure, perché no?, da mettere sul pane per variarne il sapore.

Gli steli immersi nell’acqua restavano a macerare per isolare le fibre dal gambo legnoso. Bisognava anche stare attenti che le fibre non marcissero e quindi tutto andava fatto in acqua corrente, possibilmente in un angolo del fiume o del canale vicino. Quando le fibre erano ormai visibilmente separate dal gambo interno, si tiravano fuori dall’acqua e gli steli erano battuti con energia ancora una volta uno per uno su assi di legno.

Si scelgono le fibre migliori e queste, dopo averle filate con fuso e conocchia, si tessono sul telaio di casa. Da questi panni si confezioneranno le varie camicione e gonne che poi la giovane donna metterà da parte in una cassapanca apposita per portarle via con sé quando si sposerà…

La stessa cosa si faceva con la canapa che aveva più o meno lo stesso ciclo annuale del lino. In più le larghe foglie di questa pianta potevano esser mangiate in insalata o nelle zuppe, con un leggerissimo effetto narcotico!

Abbiamo detto che i semi di lino servono ad insaporire il pane, ma anche quelli di canapa. E sì! Il pane è il cibo vitale, l’abbiamo già accennato, e dunque anche impastare e cuocere questo alimento era un lavoro esclusivo e importantissimo assegnato alle donne! Addirittura era normale che alcune donne si mettevano insieme a fare il pane per tutta la settimana per le izbe vicine in una sola pec’ka

Per fare il pane occorreva saper anche preparare la pasta acida per lievitare. Siccome questa pasta serve anche per fare la braga (la birra slava) e l’idromele (mjod), questa preparazione deve essere eseguita con attenzione. Si parte meglio da farina o di segale o di frumento, si fa un impasto molto morbido che poi, messo dentro una scodella, si ricopre con una retina in modo da impedire che gli insetti vi penetrino. Ecco! Occorre ora lasciarlo al sole per qualche giorno e quando lo si vedrà diventare più liquido e fare delle bolle in superficie vorrà dire che la pasta acida è pronta. Non è però sempre così poiché a volte la pasta diventa talmente amara che bisogna gettarla via. Come mai? Evidentemente la donna deve aver commesso qualcosa di brutto e offensivo e uno spirito maligno glie l’ha guastata.

C’era anche un metodo più antico molto più primitivo per fare la pasta acida: Ai vecchi e ai ragazzi erano consegnati dei chicchi di orzo o di miglio e questi dovevano masticarli e farne un bolo che poi sputavano in una scodella. Questo bolo veniva poi messo al caldo dove fermentava e così era pronta… Questo è il metodo originario che ancor oggi usano molti altri popoli, se non hanno il lievito di birra da comperare al supermercato!

La braga e il mjod erano le bevande molto popolari dell’antica Rus’ ed erano perciò preparate quasi con affetto affinché non venisse fuori una poltiglia imbevibile per il proprio uomo e quindi da gettar via. Di solito sia nell’una che nell’altra bevanda la fermentazione poteva essere o interrotta prima o portata avanti ulteriormente per avere una gradazione alcolica maggiore. Nei conventi del resto d’Europa dove pure si preparavano queste bevande prevaleva la birra più alcolica e il mjod più forte, per cui non abbiamo esitazione a pensare che anche qui nel nordest della Pianura Russa si preferì questo tipo “più forte” delle due bevande fermentate…  

Ricetta per preparare l’idromele (mjod)

da M. Deńbinska, riadattata da ACM  

Portare una certa quantità di acqua all’ebollizione e versarla bollente su una miscela di spezie (erbe aromatiche come finocchio, chiodi di garofano etc.) posta sul fondo di un barilotto (possibilmente di legno di quercia). Chiudere e lasciar raffreddare. Riaprire e filtrare il liquido. Mescolare tre parti d’acqua con una parte di miele mentre il liquido è ancora tiepido e limpido e cercare poi un ragazzo appena pubere (questa è una precauzione magica!) che per cinque ore deve agitarla e rimestarla piano finché il miele non si è ben sciolto. Il barilotto scoperchiato è lasciato a sé per quaranta giorni e quaranta notti lasciandolo fermentare dopo avervi aggiunto la pasta acida per far il pane (o il lievito di birra). In questo caso il liquido non va posto al freddo, ma al caldo per lasciare agire i Saccharomycetes sp. (i fermenti). Il liquido schiumerà man mano che si forma alcol e anidride carbonica. Liberare dalla schiuma e filtrare e la bevanda è pronta. Questa bevanda può esser fatta invecchiare anche ulteriormente per mesi o per qualche anno e il sapore sarà sempre una nuova e gradita sorpresa.

Naturalmente bisognerà preparare il mjod per berlo fresco anche d’estate!

Si poteva far la birra anche dal pane raffermo, invece che dall’orzo, e questa birra particolare era la più amata da gustare mescolata con foglie di menta quando si usciva dalla banja. Era chiamata kvas e il suo etimo probabilmente risale al norreno (la lingua dei variaghi) hvas ossia acido.

La donna aveva a disposizione tutta una serie di arnesi che si sono riprodotti fino a qualche decina di anni fa senza significativi cambiamenti nella forma e nell’uso, come abbiamo detto sopra. Per la tessitura, ad esempio, usava un telaio, fusi e conocchie, arcolai. Per far farina i mulini “da tavola” di pietra. Per lavare i vestiti poi usava matterelli speciali per battere la stoffa sui sassi lisci del fiume. Tutti questi arnesi rimanevano sempre a disposizione distribuiti nei vari angoli dell’izbà.

Quando era possibile, lo spazio dell’izbà veniva diviso in modo che si ricavasse persino un angolo dove trovasse posto il letto dei padroni di casa, vicino alla pec’ka.

Un ospite della donna permanente e molto riverito, perché temuto, era lo spirito della casa: il Domovòi! Questo essere poco benevolo e molto permaloso, abitava (talvolta insieme alla sua donna) sotto il fondo della pec’ka, dove, oltre ai ceppi di legno, era ricavato una spazio per lui e la sera era costume lasciare qualcosa da mangiare per questo nume tutelare davanti alla pec’ka. Guai a non salutarlo quando si partiva per un lungo viaggio!

Vi càpita di non trovare più un oggetto che avevate messo in un certo posto, di scivolare, o di inciampare su un asse sconnesso e altri piccoli guai di casa? Ebbene ciò è dovuto al Domovòi che voi avete offeso magari senza saperlo!

Un altro commensale dell’izbà è il gatto. Senza di lui come fare a liberarsi dai topi frugivori? Per questo motivo nelle saghe russe quando s’inaugura la nuova izbà si lascia che sia il gatto il primo essere vivente ad entrare. Il suo posto preferito, quando non vaga nell’izbà fredda o nel giardino, è sul cosiddetto tetto della pec’ka

A parte le occupazioni “domestiche” però la donna conservava gli stessi diritti dell’uomo quanto alle decisioni politiche poiché sappiamo che partecipava alla vece con pieno diritto di voto. Siccome la donna giungeva più frequentemente dell’uomo ad età venerande, ciò la portava a diventare non solo una persona di riferimento per la comunità quanto a conoscenza e saggezza (la già nominata znaharka), e non era neppure escluso che riuscisse a diventare una capo-clan come un ciur!

La donna troppo sapiente però faceva paura perché con le sue arti di scacciare via gli spiriti maligni per mezzo di formule scaramantiche e pozioni poteva talvolta dare il sospetto che riuscisse ad avvelenare le persone a lei invise e identificarsi così con una strega (ved’ma) vera e propria o nel caso più deteriore persino con la strega cattiva della foresta (babà jagà) capace di trasformarsi in esseri diversi e demoniaci.

Un triste obbligo della donna, specialmente per quelle dell’élite al potere, rimase invece per molto tempo quello di morire ed essere bruciata accanto a suo marito, poiché non aveva il diritto di sopravvivergli! La prima di cui abbiamo notizia che interruppe questo macabro rito, fu proprio Olga di Kiev che avendo un bimbo piccolino ancora da accudire, riuscì a farsene dispensare, ma dovette prendere su di sé il compito di vendicare la morte del marito Igor ucciso dai Drevljani…

Un’abitudine abbastanza razionale, sebbene crudele in un certo senso, che coinvolgeva però entrambi i sessi, era quella del ritiro nella foresta delle vedove sconsolate o degli anziani ormai economicamente inutili alla comunità. Costoro sceglievano spontaneamente, ancor prima di morire, di ritirarsi nella foresta “al di là del fiume” e di loro non si sapeva più nulla. Si pensava che in quell’ambiente magico essi non morissero, ma si trasformassero in animali o in alberi e perciò una riverenza particolare era sempre dovuta agli esseri silvicoli perché alla fine… erano dei parenti!

                     

     

Estratto ed adattato dal libro: RASDRABLIENIE, STORIA DELLA RUS’ A PEZZI, di Aldo C. Marturano, 2005.

    

     

©2006 Aldo C. Marturano.

    


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