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             MEDIOEVO RUSSO

a cura di Aldo C. Marturano, pag. 32


 

   

   

Che cosa è il cibo? Per l’uomo è senza dubbio tutto quello che lo può saziare o comunque allentargli i morsi della fame. Non solo! Una semplice osservazione può bastare a farci capire che l’uomo non ha niente di definito in mente, di geneticamente istintivo, quando va alla ricerca di cibo per quanto riguarda la forma o l’aspetto e persino per quanto concerne il sapore!

La realtà e la storia ci hanno insegnato che, a parte tutti i pregiudizi impostici dalla cosiddetta “buona educazione” o suggeritici dall’ossessionante pubblicità odierna, in caso di fame “impellente”… si mangia di tutto! Racconta Gavriil Saric’ev nei suoi viaggi in Siberia (XVIII secolo) che i Tungusi mangiavano qualsiasi parte dell’animale ucciso, persino le impurità degli intestini che mescolano con sangue e grasso ottenendone una specie di sanguinaccio! E chi non conosce la famosa “pagliata” romana? E si potrebbe continuare fino al cannibalismo come quei passeggeri di un aereo salvatisi sulle Ande che mangiarono i cadaveri dei propri compagni morti pur di restare in vita in attesa dei soccorsi!

L’Assedio di Leningrado durante la II Guerra Mondiale

da Food and Nutrition, Customs and Culture, di P. Fieldhouse, London 1988

Nel settembre 1941 cominciarono gli attacchi aerei tedeschi sulla città di Leningrado (oggi San Pietroburgo) mentre le truppe di terra formavano attorno alla città una barricata quasi per segnare che era cominciato un assedio di 900 giorni. I Leningradesi intrappolati nel blocco dovevano sperimentare incredibili strettezze e privazioni compresa una drastica riduzione di forniture alimentari. Erano circa 2,8 milioni le persone intrappolate nella città e dovevano essere alimentate in qualche modo. All’inizio dell’assedio il deposito più grande di alimentari della città fu completamente distrutto e con questo gran parte delle forniture di carne, zucchero, burro e grano scomparve. C’era già stato un razionamento all’inizio dell’ano che era stato persino aggravato e così tutti cominciarono ad accumulare. Nel novembre le morti per inedia cominciarono a diventare la normalità. Gente disperata alla ricerca di cibo i alternativa a quello che mancava cominciarono a mangiare persino quegli animali che finora erano stati un tabù come gatti, cani e uccelli. La cellulosa della segatura o delle cortecce degli alberi si aggiunse alla farina per aumentarne la quantità…. La carta da parati fu staccata dalle pareti e anche la colla che si pensava fatta dalla fecola delle patate fu usata per cibarsi. Chi mangiò prima la carta, subito dopo consumò la colla solida, pensando che potesse essere un nutrimento. Man mano che l’assedio si allungava alcuni codici di comportamento cominciarono a sgretolarsi: Assassini per cibo o per un talloncino con cui comprarsi il cibo diventarono i casi di ogni giorno. Si sparse la voce che si usava carne umana per fare salsicce e le file per comprare da mangiare diventarono numerose e lunghissime. Alla polizia fu dato ordine di uccidere sul posto chiunque si comportasse da criminale. Qualcosa arrivava attraverso il lago Ladoga, ma fino alla primavera quando l’erba cominciò ad apparire non ci fu alcun sollievo per gli affamati. L’anno nuovo arrivò con minori problemi poiché il numero di persone sopravvissute era diventato molto piccolo e con qualche breccia nel blocco si riuscì ad alimentarle benché il bombardamento continuasse senza interruzione. Si stima che fra i 600 mila e il milione di persone morirono.

   

La seguente ricetta che risale al tempo di Luigi XV, re di Francia nel XVIII secolo, e che serviva a cuocere il cosiddetto “pane della carestia” era destinata ai poveretti i quali si dovevano accontentare nei tempi duri. «Si prenda un pugno o due di terra finissima,o, se si preferisce, di quella sabbia bianca e sottile che rallegra molte sponde marine del nostro continente; si raccolga a piacere lungo pascoli e prati, dell’erba trifogliata o tremolino; s’impasti con acqua e un po’ di farina, di quella nera, beninteso, di grano saraceno, si metta il tutto a cuocere sotto la cenere calda e, se possibile, dentro la bocca rovente di un forno».  

Che ne dite? Ne mangereste oggi? L’archeologia, logicamente!, ha trovato prove concrete di situazioni estreme come queste in tutto il mondo e in tutte le epoche. Ci accorgiamo così che l’uomo ha mangiato di tutto! Ha mangiato animali crudi come le cozze o mitili come si deduce dai mucchi enormi delle valve dei molluschi gettate via dopo il consumo trovati nel nord Europa, ha mangiato (e mangia) rane e rospi oltre a lumache e a larve di coleotteri, ragni e scorpioni. E non basta, poichè mangiare non è così semplice. La magia e la religione, le differenze di classe nella società in cui si vive ed altri motivi impongono il rifiuto o pongono ostacoli pesantissimi a nutrirsi di certi cibi, tanto da portare l’uomo alla morte per inedia pur di non contravvenire a quanto gli è stato insegnato ed inculcato sin da bimbo dai proprii genitori. Si pensi al divieto di mangiare carne di porco vigente in alcune società umane o il ribrezzo che si prova in altre a mangiar lumache o uova ammuffite o occhi di animali, se non proprio carne umana arrostita… Anzi! Troveremo momenti nella nostra storia in cui questi problemi hanno un riscontro evidentissimo!

Dunque talvolta è necessario mangiare soltanto sopravvivere e l’uomo è disposto ad accontentarsi di quello che è possibile “mettere sotto i denti”, pronto a vedere sulla propria tavola prodotti molto diversi dai soliti purché si estingua quel “maledetto” stimolo… ovunque e comunque! Ma è proprio sempre così? In realtà in parte ciò è vero, ma soltanto in parte!

Soprattutto, ed è quel che attira maggiormente la nostra curiosità, l’uomo si ciba da sempre, e prevalentemente, di piante! Vuol dire che le piante sono il cibo del più forte? E i simboli tradizionali della potenza impersonati dall’aquila, dal leone, dal falco, dal drago dove li mettiamo in questo confronto? Se la credenza popolare afferma che mangiando le carni di un animale, ne acquisiamo le proprietà fisiche e psichiche, dalle piante che cosa prendiamo? Cercheremo di dare una risposta anche a questo, sebbene, malgrado tutto, sicuramente le piante abbiano lasciato le loro tracce nell’antichità come il cibo umano preferito in assoluto! Questo è il nostro modo di vedere contro l’opinione di una grande storica del cibo Maguelonne Toussaint-Samat o di un non meno noto Marvin Harris di pari competenza storica!

Appartenenti alle più diverse specie, a seconda del clima e della reperibilità, addirittura alcune piante erano diventate talmente indispensabili, da doverle offrire come corredo funebre sotto forma di semi da ripiantare affinché il defunto potesse continuare a cibarsene nell’Aldilà! Il portar fiori alle tombe infine, non sono forse un residuo odierno di questo antico uso funerario? E lo scopo non è ancora quello che i morti continuino “a goderne” come quando erano in vita?

è chiaro che l’uomo ha imparato a sperimentare (e a selezionare) la coltivazione di sempre nuove specie affinché gli servissero da cibo sempre più appetitoso. E gli animali erbivori lo hanno aiutato! Osservati con molta attenzione quali nostri prossimi molto simili a noi, proprio con il loro comportamento ci hanno indicato se una pianta (o un altro animale, se è il caso) poteva essere ingerita senza pericolo. Alcuni di questi nostri inconsci “consiglieri” li abbiamo domati e selezionati affinché vivano vicino a noi come amici: il gatto, il cane, gli uccelli di voliera… Altri invece sono diventati nostri animali da macello, delle macchine viventi che trasformano le piante che noi non sappiamo assimilare in cibo più accettabile per il nostro palato nella loro carne. E guai se questi animali si azzardano a toccare le piante che noi mangiamo! I grossi erbivori li vediamo in tal caso come nostri concorrenti e talvolta non ci resta che abbatterli e mangiarceli… e da questo nasce la caccia forse più che dal bisogno di cibarsi di carne!

Né in seguito l’uomo si è fatto scrupolo, nei momenti di strettezza, di cibarsi della roba andata a male visto che altri animali riuscivano a mangiarla. Anzi, da questo cibo avariato l’uomo si è trasformato in cuoco sopraffino per renderlio appetibile. Ha inventato intrugli inverosimili che ha chiamato salse, condimenti, spezierie, oggi come ieri allo scopo di insaporire il solito pasto giornaliero e inventando il culto del cibo cotto. E qui fantasia e necessità hanno trovato spesso un giusto connubio e ne è nata la culinaria oltre all’industria della trasformazione alimentare così importante oggigiorno! E stiamo attenti! Le piante contengono pure molecole dannose per l’organismo umano. Queste molecole vengono chiamate comunemente veleni, ma in realtà nella stragrande maggioranza dei casi è la quantità ingerita che trasforma la sostanza che finora abbiamo consumato senza pericolo in veleno. Un esempio? Il prezzemolo! Se sparso o cotto in piccole quantità esalta o aggiunge dei sapori gradevolissimi al nostro cibo, ma provate a bere in una volta sola un infuso di mezzo chilo di questa preziosissima erba. Potreste esserne avvelenati quasi mortalmente!

La ricerca e la scelta di piante per farne cibo richiede una grandissima e antichissima esperienza che, per fortuna, abbiamo ormai accumulato a sufficienza nei millenni passati e sappiamo ormai distinguere la pianta giusta per noi, sempre rispettando la nostra tradizione culturale però! Guai poi a pensare che l’uomo mangi solo prodotti solidi o semisolidi e quindi le piante direttamente come esse si mostrano a noi, perché tutti noi sappiamo che i prodotti liquidi o le masse pastose sono da noi preferiti per mangiarne. Sotto questa forma le piante sono più facilmente ingeribili, specie quando si tratta di bambini o di vecchi sdentati, ma soprattutto perché i prodotti liquidi, spargendosi rapidamente sulle nostre papille gustative, ci catturano immediatamente col loro sapore! Stiamo naturalmente parlando di cibo e non di alimenti. Quest’ultima parola infatti significa tutt’altro, a rigor di termini, benché gli alimenti si identifichino spesso con la roba da mangiare!

Al cibo perciò, non sempre raccolto come prodotto pronto per il consumo immediato una volta estratto dalla natura circostante, possiamo migliorarne aspetto e sapore con qualche manipolazione mirata e la moderna archeologia ci offre la possibilità di conoscere i diversi modi in cui ciò avvenne nel passato. Ed ecco che nei reperti distinguiamo agevolmente i cibi crudi da quelli cotti, spezzettati o in poltiglie e mescolati con vari altri ingredienti.

Un altro passo avanti è stato compiuto quando l’uomo ha capito che certi prodotti si trovavano in maggior quantità in certi luoghi e non in altri, in certi periodi dell’anno e non sempre. Allora si è ingegnato, con la fatica personale e con l’esperimento ripetuto, a riprodurre circostanze e condizioni necessarie e sufficienti affinché quella pianta si rendesse di nuovo disponibile per il consumo nello stesso luogo e fosse così appropriabile (origine delle coltivazioni e dell’allevamento) per trasformarla in cibo.

Abbiamo detto l’uomo, ma in realtà dovremmo essere più precisi poiché l’invenzione della produzione del cibo è dovuta quasi totalmente alla donna, per la quale questa ricerca, questa sperimentazione alla preparazione dei prodotti per renderli più mangiabili o per conservarli erano tutte faccende importantissime, quando era incinta o aveva dei bimbi da allevare o dei vecchi da assistere. Benché oggi tutto questo ci sembra lontanissimo nel tempo ed ormai superato dai servizi moderni da quando compriamo da mangiare nel supermercato o manteniamo in vita un malato con le fleboclisi, in realtà la ricerca del cibo non è assolutamente cessata. Anzi! A livello planetario, è diventata più rozza e più spietata per coloro che hanno fame, e sono milioni!, al di là dei confini del nostro mondo dorato e sterilizzato. Di tanto in tanto queste masse affamate ci saltano negli occhi inquadrati dalla cruda TV che indugia in zone dove vivono popoli distrutti dalla guerra, dalla carestia, dai terremoti, dal “sottosviluppo” e dai nostri supermercati che… comprano il meglio per noi e lasciano il peggio agli altri! In realtà poi ci accorgiamo che non è il cibo che manca, ma che esso è concentrato nei luoghi sbagliati.

Fatte queste doverose (e spaventose) considerazioni dobbiamo però volgere il nostro interesse al Medioevo e, allora, la prima domanda è: Che cosa sappiamo della produzione di cibo in quell’epoca? Dobbiamo anche chiederci: Esiste un Medioevo Russo simile a quello occidentale europeo nell’ambito del quale indagare sul cibo e sui suoi diversi aspetti culturali e religiosi?

Gli storiografi sovietici avevano già evitato questo termine, Medioevo, e lo avevano inglobato nella più generale storia del modo di produzione delle merci e delle derrate col termine di Feudalesimo. Senza volere entrare in discussioni oziose su questioni storiografiche, noi abbiamo preferito chiamare il periodo che ci interessa Medioevo Russo e basta! Aggiungiamo soltanto che questa parte della storia europea ha dei cicli propri che andrebbero indagati meglio.

Partiamo allora dalla data tramandataci dalle Cronache Russe detta la Chiamata di Rjurik dalla Svezia, poco dopo la prima metà del IX secolo. Questa è l’inizio convenzionale della storia russa. Di qui ogni ciclo storico parte e poi si chiude per suo conto, a seconda della regione della Pianura Russa contemplata, fino all’ultimo ciclo che finisce nel XV sec. nella Russia Moscovita. Più in generale inoltre si può dire che la storia medievale russa si conclude definitivamente con l’estinzione della famiglia discendente da quel Rjurik nominato sopra e cioè con l’uccisione del figlio di Giovanni IV di Mosca detto il Terribile. Per quanto ci riguarda poi, ci muoveremo fra i sec. X e XIII e talvolta fin nel XIV.

Abbiamo detto che gli smierdy sono produttori diretti di cibo e li abbiamo visti nel loro villaggio organizzarsi per mettersi al lavoro nei campi. Guardiamo ora il capo della grande famiglia, il ciur, e osserviamo che costui impersona non solo la guida vera e reale della colonizzazione intrapresa, ma è anche l’autorità massima della società del mir e talvolta può disporre della vita dei membri. Per queste ragioni da tempo non esegue più con le proprie mani il lavoro materiale, ma ha acquisito il diritto di essere servito dai componenti più giovani e di dedicarsi perciò alla conservazione e all’insegnamento delle tradizioni ai membri giovani.

Il ciur, come custode sacro del patrimonio terriero dal quale dipende la vita di tutto il gruppo famigliare, ha anche il diritto “economico” di non frammentare la proprietà del mir e lo esercita attraverso l’imposizione di varie proibizioni e concessioni. Ad esempio, non lascia che i ragazzi si sposino in età troppo tarda impedendo loro in questo modo di costituire un nuovo gruppo famigliare “concorrente”. Governa il numero di figli da mantenere quando (sempre tenendo presente la mortalità perinatale altissima) impedisce che questi aumentino di numero e portino troppe “bocche da sfamare” nell’economia del gruppo e quindi cede i bimbi appena puberi alla vendita in schiavitù (li manda lontano in servitù) alleggerendo il carico del gruppo: pratiche comuni ancora oggi in molte parti del mondo, benché condannate come illegali…

Forse a questo stadio il ciur, è vero!, ci sembra un dispotico padre-padrone, ma nel mir è il modello di giustizia e di equità che ogni componente imita nella propria vita quotidiana. Il ciur non è ancora visto come lo sfruttatore del lavoro altrui (concettualmente infatti ancora non lo è), ma come l’unica persona super partes di tutta la comunità. D’altra parte tutti quelli che lo circondano sono carne della sua carne, compresi i figli adottivi e le loro mogli e i loro figli e… persino gli eventuali famigli o schiavi conviventi!

è possibile che la poca mobilità e la necessità di buoni rapporti di vicinato con le altre comunità separate a poco a poco fanno eccellere un capo-villaggio più diplomatico su tutti gli altri e costui (e quindi anche chi da questo sarà designato a succedergli o al quale saranno trasmesse delle competenze) assume una nuova preminenza che già prelude una posizione di dominanza.

Perché è importante soffermarci su queste questioni? La risposta è semplice. Prima di tutto stiamo parlando di cibo e il ciur deve fare in modo che quanto si produce basti a nutrire il gruppo. In secondo luogo, la stratificazione in classi della società primitiva slava, quando sarà ormai evidente, porterà alla differenziazione delle abitudini di vita e gradualmente anche a quella dei cibi da consumare ogni giorno e il ciur con la sua autorità indiscussa dovrà tenerne conto, sempre salvaguardando le tradizioni!

Nel caso slavo orientale c’è un vantaggio in più per il ricercatore ed è quello, a nostro avviso, che l’élite al potere, a causa della superiorità della cultura portata dai migranti slavi nella Pianura Russa, si sentì autorizzata a propagandare (e questo fino ai tempi dell’URSS) questa cultura come l’unica vera da imitare rispetto a quelle degli altri popoli che si andavano man mano incontrando. Come? Soprattutto imponendo le abitudini alimentari, come fecero gli Spagnoli nel XVI sec. nel Nuovo Mondo! Con l’introduzione del Cristianesimo infine, per l’isolamento quasi voluto della Rus’ di Kiev, la cultura dell’élite etichettata come pura e slavo-russa consacrerà sempre più caparbiamente la sua supposta origine contadina nella cucina e nei costumi, al contrario dell’ibrida nobiltà polacca che accoglierà con più entusiasmo cibi e modi di cuocere dell’Occidente europeo senza troppi impedimenti.

Tuttavia nella nostra ricerca abbiamo riconosciuto due culture ben distinte: una cittadina che tenterà di avvicinarsi quanto più possibile a quelle occidentali dello stesso periodo, ed una campagnola, chiusa in sé stessa per timore di essere inghiottita da quella dominante e soffocante della città. Sarà questa parte della Rus’, con le proprie tradizioni e i propri costumi, che si opporrà a qualsiasi ingerenza esterna e che creerà i tanti movimenti “eretici” nel seguito della storia russa… partendo proprio dalla questione cibo!

Se così è, qualcosa nei piani dell’élite al potere non andò come si voleva, giacché si ebbero due tipi di consumo alimentare opposti, uno per la classe dominante e uno per quella dominata…

Un segno di distinzione subito riconoscibile, come lo fu per tutta l’Europa del tempo (e dura fino ai nostri giorni nel mito della bistecca quanto più grande e più grossa si può!), era il mangiar la carne dei grossi erbivori da parte dell’élite al potere e vantarla come pietanza di classe, migliore di qualsiasi altra perché dava forza e prestanza.

Fermiamoci un momento su questo punto.

Come noi sappiamo, dal nord e da tutta la Pianura Russa un articolo di esportazione molto comune erano (ed è ancora oggi) le pellicce pregiate dei vari animali foresticoli di piccola e media taglia accalappiati con le trappole i quali, una volta spellati, potevano essere lasciati frollati e poi mangiati. E invece ciò non avvenne… Per di più il contadino allevava il porco e quindi anche questo animale poteva essere consumato come cibo. E chi avrebbe mai ucciso il porco per mangiarlo senza il permesso degli dèi? C’era il cavallino. E chi avrebbe preferito macellare il volenteroso aiutante nel lavoro dei campi d’ogni giorno? Insomma nel linguaggio comune dello smierd “mangiar carne” significava uccidere animali a lui utili ed amici. Al contrario, siccome la guerra e la caccia erano riservate al re, al signore o al padrone, appartenere alla classe dominante significava cacciare e mangiar carne, conquistando gli animali con le armi allo stesso modo come si faceva contro gli uomini per assoggettarli!

Lasciamo allora la carne ai nobili e volgiamoci alle granaglie.

Ed ecco le prime informazioni raccolte da un viaggiatore musulmano (Ibn Rusté!) del X secolo su quali fossero prevalentemente i cereali consumati dagli Slavi Orientali: «Gran parte dei loro seminati sono di miglio. Al raccolto i semi raccolti con cucchiaioni di legno vengono sollevati verso il cielo ed essi dicono: O signore, che finora ci hai fornito il cibo, daccene ancora in abbondanza!».

Il miglio, nella sua varietà Panicum proso, era un cereale molto diffuso in zona slava e molto apprezzato se si chiedeva alla divinità di darne sempre di più! Il miglio (proso/просо in russo) in realtà poi è uno dei cereali più diffusi dell’antichità e non ci fa neppure meraviglia che Ibn Rusté lo abbia notato qui. A parte ciò, ha chicchi piccolissimi anche se numerosi per ogni spiga, ha bisogno di terreno asciutto e di un clima secco di tipo continentale, e questo rientra, benché con fatica!, nelle condizioni standard che noi troviamo in molte zone della Pianura Russa, se si mantengono le coltivazioni ad una certa distanza dai fiumi e dalle paludi. Per nostra fortuna, per il fatto che Ibn Rusté sembra accennare ad una città dei Croati dove si trova molto miglio, c’è una probabilità che egli si riferisca proprio al bassopiano della Podolia o della Volynia, sede originaria dei Croati, ma non è sicuro.

Il miglio solitamente era il primo cereale che si piantava dopo il taglia-e-brucia descritto da noi quando abbiamo parlato delle operazioni di preparazione del terreno di nuova colonizzazione. Prima perché matura in breve tempo e poi perché resiste bene alle notti fredde, proprie del periodo in cui abbiamo visto vagare la nutà slava alla ricerca di terra nuova. Tuttavia, come nota bene M. Deńbinska, i reperti archeologici hanno mostrato che il miglio era coltivato dagli Slavi in molte varietà in relazione al suolo e al clima locale. Il che vuol dire che la coltivazione di questo cereale era irrinunciabile e tradizionale perché… il miglio era il grano degli Slavi! Più o meno come sarebbero oggi per un italiano che vivesse all’estero gli spaghetti ai quali non saprebbe rinunciare!

Che cosa si poteva preparare col miglio? Certamente, come le altre granaglie (krupà/крупа), si consumava sotto forma di densa minestra (kascia/каша) oppure, impastandolo e poi cuocendolo in modo blando, sotto forma di pane (zhito), come si fa ancora oggi.

Polenta di Miglio con piselli

(ridotta da Food and Drink in Medieval Poland di Maria Deńbinska, Univ. of Pennsylvania Press 1999)

Ingredienti: Miglio triturato, piselli secchi, lardo di porco (o di altro animale), cipolle, aglio, aceto di mele, erbe aromatiche.

Preparazione: Si è avuta l’accortezza di mettere a mollo i piselli almeno per una notte intera e solo l’indomani si metteranno a cuocere in acqua salata. A parte si prepara la polenta di miglio che occorre rimestare continuamente mentre cuoce in acqua, aggiungendo acqua se necessario. In un tegame intanto si fa sfriggere il lardo con la cipolla finché entrambi non diventano di color bruno. A questo punto i piselli, ormai cotti e morbidi, vengono scolati e aggiunti alla polenta e così si fa anche per il lardo sfritto e per la cipolla. Si mescola il tutto e si serve con aggiunta di erbe aromatiche sparse sulla polenta.

Tempo di preparazione: ca. 40 min.

   

è proprio la polenta di miglio che troviamo immortalata nel famoso proverbio russo Sc’ci i kascia piscia nascia (Щи и кашa – пиша наша) ossia, tradotto, lo sc’ci (una zuppa di cui parleremo in seguito) e la minestra è quello che noi mangiamo! Questa minestra-polenta aveva però un inconveniente, non poteva essere portata agevolmente in giro a coloro che lavoravano nei campi perché non era solida e doveva essere gustata solo in casa! Naturalmente si poteva lasciarla a seccare o la si poteva fare più densa aumentandone il contenuto in miglio e allora, si diceva, tanto più densa è la kascia, tanto più ricca è la famiglia che la mangia! Notiamo che la kascia è già di per sé un cibo distintivo di classe: Non la si può dividere come un piatto di carne arrosto nelle varie parti più o meno buone fra i commensali a seconda dell’importanza! La kascia la si può solo distribuire in modo uguale a tutti! Inconsciamente quindi anche lo smierd difendeva la sua identità di classe!

Se una minestra non era agevolmente trasportabile, il pane (zhito/жито in antico-russo) invece lo era e perciò restava il cibo principe. Non c’era una sola ricetta per farlo, ma, siccome il pane rappresentava il cibo della “vita” (questa è la radice della parola zhito!), lo smierd sapeva bene che il sapore sarebbe stato diverso a seconda del villaggio o della casa da dove proveniva, a causa degli ingredienti particolari. Anzi, si diceva che… parli la lingua del posto dove hai mangiato il pane. Anche il famoso miglio poteva essere o aggiunto alla ricetta del pane oppure usato come cereale di base, dopo averlo triturato in farina grossolana, e in tal caso il pan di miglio accoppiato con la cipolla o altre radici esculente era messo in saccoccia per consumarlo al momento desiderato. Naturalmente, siccome il pane era cotto una volta per tutta la settimana, in certi giorni era ormai così duro che bisognava inzupparlo nell’acqua prima di mangiarlo!

Un ingrediente che non si aggiungeva al pane poiché non in tutte le regioni era disponibile in abbondanza (e a buon mercato) era il sale! Di questa sostanza di alto prezzo se ne dava un po’ in un sacchettino che lo smierd portava con sé come parte del suo pojòk (поек o porzione per il pranzo giornaliero) nei campi!

Ricetta per il zhito/жито con uno o più cereali, a seconda della disponibilità:

(da Food and Nutrition, Customs and Culture, di P. Fieldhouse, London 1988)

Tradizionalmente si preparava così il pane tondokaravài – in Bielorussia per il hlebosolje o per il brakosocetanie (comunicazione privata della sig.ra Anna Joudrik, Sorocì 1998).

Procurarsi alcune manciate di segala (ca. 500 g) e/o di frumento integrale (700 g) o miglio integrale (450 g). Un grosso mortaio di legno con pestello anche di legno viene riempito nel fondo di acqua leggermente salata e calda. Le cariossidi dei cereali devono essere dapprima leggermente abbrustolite sul pavimento della pec’ka affinché le glumelle si rompano e diventino facilmente asportabili. Tirati fuori i chicchi dalla pec’ka, questi vengono agitati nel setaccio in modo che l’aria asporti via le glumelle secche e lasci sulle maglie i grani nudi che vengono lasciate a sè per la notte!

Nel mortaio si pone una parte (ca. una metà) dei chicchi e si pigiano ben bene con il pestello. Le ultime glume si staccheranno e verranno a galla della poltiglia. Se si vuole queste si possono separare altrimenti si lasciano nella massa. A parte si saranno preparati dei piselli secchi che vanno anche pestati e inumiditi. Una parte dei chicchi che sono stati messi da parte ancora secchi la sera prima vengono invece tritati più finemente fino a farne farina.

Ai chicchi che avevamo pestato nel mortaio si aggiunge della pasta acida (o pasta madre) e si lascia stare il tutto ben coperto per una notte. L’indomani le diverse poltiglie vengono poi mescolate ed impastate a mano insieme affinché ne risulti una massa abbastanza compatta, sempre con acqua tiepida. Si aggiunge un po’ di miele e di sale ed altre spezie. 

Fatte delle piccole masse, queste vengono coperte con le foglie di quercia che daranno una bella crosta brunastra e lucida al pane quando sarà cotto. I pani, non ancora infornati, vengono messi sul tetto della pec’ka per qualche ora, mentre si alimenta la pec’ka perché si riscaldi bene all’interno e abbia molta cenere. Finalmente i pani sono posti sotto la cenere e lasciati cuocere dai venti ai novanta minuti (a seconda della miscela di granaglie usata) finché non si “sente” premendo che si è formata una bella crosta. Il zhito non va consumato caldo appena estratto dal forno, ma bisogna lasciarlo rassettare per qualche ora…

Oltre ai pani grandi (karavài) se ne fanno anche di più piccoli, magari impastandovi in ciascuno diverse erbe aromatiche o frutta. Sono i cosiddetti kalacì, esclusivamente di frumento, che anticamente si usavano nei pranzi di nozze da offrire come cibo agli uccelli della foresta che venivano a visitare i nuovi sposi, lanciandoli dopo la cerimonia sul tetto della casa nuziale.

Non dimenticare mai di cuocere qualche piccolo pane per lo spirito della casa: il Domovòi!

Note: 1. Naturalmente il miglio rende male da solo nel fare il zhito in grossi pezzi perché ha pochissimo amido e quindi non tiene la massa molto compatta e non cresce bene alla lievitazione.

2. Nel caso di grani di frumento più ricchi di glutine, la pasta acida (o pasta madre) agisce meglio facendo compattare la poltiglia e si ottiene il pane russo come quello che conosciamo ancor oggi (hljeb), nel caso di miscela con altri cereali invece la compattazione è più debole e il pane appare come il moderno Pumpernickel tedesco.

   

Qualcuno dei nostri lettori si chiederà come mai non abbiamo ancora nominato il frumento (pscenìza/пшеница). Quello che comunemente chiamiamo grano, cereale che oggi più o meno consumiamo in grandissime quantità nel mondo occidentale, rappresenta il retaggio di un’agricoltura nata più o meno seimila anni fa nella valle del Danubio, ma sicuramente di origine orientale e ancor più antica e già selezionato nella Mesopotamia (ossia l’Iraq di oggi), nell’Egitto dei Faraoni o nella Civiltà di Mohenjo-Daro (Pakistan). Dai rilievi archeologici condotti nei kurgany e nei sopki, se ne sono trovate tracce vicino al miglio (vedi D. A. Avdusin), insieme con la segala e con l’orzo. Da questo si può dedurre che il frumento era coltivato, sì!, presso gli Slavi, ma con minor frequenza perché meno resistente alle condizioni climatiche troppo fredde e alla natura del terreno a disposizione. Oltre a ciò il frumento era considerato un cereale riservato “all’élite al potere”, per la cura richiesta nella sua coltivazione e per la maggiore dimensione dei suoi chicchi. Così era in quasi tutta l’Europa del Medioevo e quindi anche qui nella Pianura Russa! I bojari, ossia i proprietari terrieri della Rus’ di Kiev (sec. X-XIII), se lo facevano coltivare dai loro contadini fornendo loro i costosissimi semi e naturalmente ne controllavano bene la resa perché il raccolto rimaneva sempre e solo per il proprio consumo esclusivo. Anzi! Raccomandavano di seminarlo solo quando era pronta la cerjòmuha/черемуха (ciliegia selvatica) sull’albero e cioè a primavera inoltrata affinché i chicchi risultassero i migliori!

Per quanto riguarda invece la segala (rozh’/рожь), essa era ancora poco diffusa (i resti archeologici trovati sono mediamente in quantità significativamente minore) in quello stesso periodo (probabilmente a causa della pericolosità di essere infettata dalla Claviceps purpurea, un fungo che contiene l’ergotina, alcaloide inebriante a basse, ma velenoso ad alte, dosi), ma comunque ben conosciuta e consumata. Soltanto al tempo e con le nuove tecniche introdotte dai Cavalieri Teutonici durante le crociate di conquista del Baltico nel XIII sec. la segala cominciò ad esser coltivata intensivamente e più razionalmente anche nelle Terre Russe dell’estremo nord tanto da diventare, con il sistema distributivo messo in atto dall’Hansa germanica, il cereale più richiesto a partire dalla regione settentrionale intorno a Novgorod che ne faceva traffico intenso.

Dice un vecchio proverbio russo distinguendo i due cereali, frumento e segala: Màtusc’ka rozh’ kormit vseh splosc’, a pscenic’ka – po vyboru! (Матушка рожь кормит всех сплошь , а пшеничка по выбору!) e cioè: Mamma-segala nutre bene tutti, mentre è il frumento che sceglie chi nutrire! E così per distinzione di classe mentre il sacro pane detto karavài fu fatto quasi sempre con la segala, i kalacì, ossia i panini dolci usati normalmente dalla classe alta, erano fatti col frumento! Chiaro no?

Più diffuso invece risulta l’orzo (jac’men’/ячмень), detto anche il frumento dei poveri perché considerato più ordinario (per la dimensione minore dei chicchi!) ed era chiamato in gergo zhitar’ ossia buono anche per far pane! L’orzo è il più nordico dei cereali e meno di tutti gli altri, si diceva, teme Nonno Gelo e i suoi figli! è importante però che lo si semini quando c’è il plenilunio perché soltanto la luna lo aiuta a crescere bene…

C’era persino l’avena (ovjòs/овес), molto più appetibile per il suo sapore più dolce e, benché se ne desse ai cavalli, era consumata volentieri dall’uomo come si fa ancora oggi.

Noi abbiamo però finora parlato dei cereali già ridotti ormai a semplici chicchi, liberati del loro involucro duro e indigeribile esterno (la crusca o otruby/oтрубы) e pronti per il consumo. In realtà dobbiamo tener presente che questi chicchi erano stati la parte più preziosa del carico portato dalla nutà giunta nella Pianura Russa. Perciò quei chicchi “speciali” dovevano essere protetti prima di altri dal marcire o dai parassiti meglio e con più cura! Questi problemi di conservazione erano già stati risolti secoli prima dal punto di vista tecnico poiché i chicchi venivano rinchiusi in un olla di terracotta o di vimini e terracotta, abbastanza robusta e sigillata accuratamente. In questo modo il piccolo volume d’aria che ancora rimaneva nell’interno lasciava che i chicchi più in alto cominciassero a germogliare e ciò facendo consumassero tutto l’ossigeno a disposizione. Si generava così anidride carbonica che impediva sia un’ulteriore germinazione sia la vita ad eventuali altri insetti, a spore e muffe aerobiche. Il chicco naturalmente conservava la sua umidità e non seccava, ma sospendeva comunque le sue attività vitali tenendosi a lungo integro e pronto per la prossima semina. Questi chicchi erano stati selezionati dalle spighe più robuste e più grosse e quindi il loro valore tecnologico era particolarmente importante. Questa olla sigillata, quando la comunità si stabiliva in un certo posto, era sostituita da una fossa scavata nel terreno all’interno del granaio comune, ugualmente impermeabilizzata con dell’argilla, chiamata protiven’/противень. Sia di queste olle che delle fosse sono stati ritrovati numerosi ed indiscutibili reperti archeologici. Non sono state invece trovate molte pentole di terracotta che potremmo con sicurezza attribuire al corredo del vasellame da cucina di una massaia medievale! Tuttavia è indubbio che i cereali, rispetto ad altri prodotti, devono essere cotti, abbastanza a lungo o per breve tempo, giacché non si può mangiarli crudi, almeno con la nostra dentatura e per il nostro apparato digestivo!

Vediamo allora di capire come le massaie, che ora possiamo immaginare sistemate nella nuova izbà, si adoperavano per cucinare. Ad esempio, se una kascia doveva essere preparata, questa era cotta nella pec’ka! Addirittura abbiamo raccolto la tradizione che nella pec’ka veniva introdotta al principio dell’anno un pentolone di coccio dove la minestra cuoceva continuamente e la massaia non faceva altro che aggiungere acqua e nuovi ingredienti man mano che questi venivano raccolti col passar delle stagioni! E qui già notiamo un’insolita particolarità: La cucina slavo-orientale non prevedendo un riscaldamento dal fondo della pentola, ma un calore costante e avvolgente da tutti i lati dava alla kascia così preparata una consistenza diversa da quella che noi oggi otterremmo con la nostra cucina a gas o a piastre riscaldate e sempre a vista della preparatrice (o del preparatore) che deve rimescolare con un mestolo. Per questi motivi le pietanze della tavola dello smierd erano prevalentemente degli stufati!

Ma a qual ora del giorno si incontravano i membri della famiglia per mangiare tutti insieme? Sicuramente alla mattina veniva dato ad ognuno il proprio pojok/поек da portare con sé sui campi perché non c’era l’abitudine di una colazione mattutina (zavtrak/завтрак) come sappiamo dalle esortazioni della Chiesa ai parrocchiani: Non preparate da bere e da mangiare di primo mattino! E’ possibile, come pensa la N. L. Pusc’kareva, che solo le donne, alzandosi per prime la mattina, mangiassero quel che era rimasto della sera prima. Ad ogni buon conto soltanto alla tarda metà d’ogni giorno, quando il sole guarda verso sud (questa è l’etimologia della parola uzhin/ужин che oggi indica… la cena in russo!), si mangiava tutti insieme, rammentando che in quei tempi si tornava a casa prima che la luce si esaurisse. Il sopraggiungere della notte portava gli esseri notturni pericolosi a vagare presso i crocicchi per far perdere la via di casa e quindi vagare dopo il tramonto non era consigliabile!

è difficile però immaginare una tavola al centro dell’izbà intorno alla quale si sedevano tutti i commensali perché l’arredamento antico (prima del Cristianesimo) non prevedeva un mobile del genere. Tutt’al più c’era un tavolino-sgabello usato per le occasioni speciali… Di solito il cibo veniva servito dalla padrona di casa in scodelle di legno e non ci si metteva a mangiare con posate e a bere in bicchieri di vetro come avviene oggi. La zuppa veniva tirata fuori dalla pec’ka e la nostra massaia la serviva al commensale che si accomodava sulla mensola che correva intorno alla parete (lavka/лавка). Si mangiava raccogliendo il cibo col cucchiaio di legno dalla scodella poggiata sulle proprie ginocchia. Questo avveniva d’inverno o quando era troppo freddo, altrimenti d’estate era più comodo mangiar fuori sul retro dell’izbà, magari arrostendo sullo spiedo qualche volatile.

C’erano, tuttavia, le grandi occasioni dei matrimoni, dei funerali, delle cene sacre in cui diverse famiglie da diverse regioni si incontravano per star insieme per scambiarsi notizie e far nuove conoscenze o prendere accordi per nuovi sposalizi e nuovi legami personali. Periodicamente infatti si organizzavano degli incontri chiamati guljanie/гульяние (ossia bisboccia, convito, godimento collettivo nel mangiare e nel bere), specialmente nella stagione buona, fra villaggi e case delle proprie vicinanze allo scopo di rinsaldare l’appartenenza alla stessa stirpe, ma anche per azzerare le eventuali differenze economiche che si erano create durante l’anno con uno scambio di doni! Ne descriveremo più in là. Qui però ci spieghiamo meglio sull’ultimo punto. E’ quasi naturale che durante l’anno si accumulassero derrate o prodotti in più rispetto a quelli effettivamente consumati dalla famiglia (o dal gruppo), magari per eccesso di precauzioni o chissà per qual altro motivo. Si sfruttava allora l’occasione di questi incontri rituali per eliminare i surplus, tutto in grande allegria in una specie di potlatch degli Indiani americani del nordovest! Logicamente, salvo gli anni di carestia! In questi simposi, come possiamo immaginare, veniva fuori tutta l’inventiva delle cuoche, mogli degli smierdy, per mettere a punto pietanze succulente con le derrate a disposizione.

 

        

            

Dal libro di Aldo C. Marturano: VITA DI SMIERD, Cibo e Magia nel Medioevo Russo (in collaborazione con William Lamberti, presidente dell'associazione dei Ristoratori italiani di Mosca, e con la MGU - Università di Mosca - Progetto SOKOL),, in corso di stampa.

    

©2007 Aldo C. Marturano

  


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