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           MEDIOEVO ERETICALE

    a cura di Andrea Moneti


Francisco de Goya, Il sabba delle streghe, 1797-98 (Madrid, Museo Lázaro Galdiano).

    

Nel 1485 venne dato alle stampe in Germania un vero e proprio bestseller, che conobbe ben trentaquattro ristampe fino al 1699, destinato a restare per oltre tre secoli il pun­to di riferimento per chiunque avesse avuto voglia di approfondire la stregoneria: il Malleus Maleficarum (comunemente noto come il “Martello delle Streghe”), scritto da due teologi domenicani, Heinrich Krämer e Jakob Sprenger. Promosso da papa Innocenzo VIII e dall’imperatore Massimiliano I d’Austria, questo famoso manuale inquistoriale fu usato dai giudici cattolici e da quelli protestanti. Già prima della sua pubblicazione, Innocenzo VIII aveva promulgato una bolla, la Summis desiderantes affectibus, dove veniva espressa la preoccupazione pastorale per il dilagare delle pratiche magiche e della stregoneria. Nello stesso documento il pontefice scriveva che: «Con tristezza siamo ultimamente venuti a conoscenza che, in molte regioni del nord della Germania... varie persone, sia uomini che donne, si offrono ai diavoli incubi e succubi, uscendo dal sentiero della vera fede. Essi operano, per mezzo di incantesimi, formule magiche, scongiuri e quanto vi è di abomi­nevole e criminale nel campo dei sortilegi, per il male degli altri: producono aborto nelle donne; rendono sterili e fanno morire i feti degli animali, i prodotti della terra... Vogliono essi evitare che l'uomo procrei, che la donna concepisca, che i coniugi compiano il dovere sponsale. Non hanno paura di rinnegare, sacrilegamente, la fede consegnata loro per mezzo del santo Battesimo…».

Tutto questo, però, veniva da lontano. Da molto lontano. Si parlava di streghe e pratiche magiche fin dall’Alto medioevo, già nel Canon Episcopi scritto intorno tra il X e l’XI secolo da Reginaldo (o Reginone) di Prüm, abate di Treviri (in Germania). Ma la stregoneria, fino agli inizi del XIV secolo, in particolare sotto il pontificato di Giovanni XXII che esortò gli inquisitori a perseguitare stregoni e maghi come eretici, era sempre riuscita a sfuggire ad una classificazione precisa. Da questo momento in poi i processi per stregoneria si moltiplicarono e con loro, soprattutto nella seconda metà del secolo successivo, anche i testi che trattavano delle pratiche magiche, come il Fortalicium fidei, scritto nel 1459 dal francescano Alfonso de Spina, il Flagellum Haereticorum Fascinariorum, scritto dal domenicano Nicholas Jacquier nel 1458, e il famigerato Malleus Maleficarum del 1485. Dalla seconda metà del XIV secolo ormai era assodato che le streghe esistevano, che obbedivano al diavolo e che erano un grave e potenziale pericolo perché potevano adoperare le arti magiche per dominare il mondo naturale (le sue forze, i cicli stagionali, la flora e la fauna) e influenzare la stessa vita umana (malattie, pestilenze e così via).

La stregoneria e l’eresia vennero, quindi, collegate tra loro, fino a rappresentare due facce della stessa medaglia. Fino ad allora, nei primi secoli cristiani e per tutto l’Alto medioevo, l’atteggiamento da parte della Chiesa nei confronti delle streghe e della stregoneria era stato quello di un approccio pastorale, e non privo di scetticismo, interpretando il tutto come forme di un paganesimo e di animismo rurale pseudocristiani, sopravvissuti alla conversione cristiania della civiltà contadina in Occiden­te. Nel Basso Medioevo e nei secoli della Riforma le cose cambiarono di molto e in peggio. Tra l’XI e il XIII seco­lo l’attenzione ecclesiale si era dedicata quasi esclusivamente al fenomeno delle eresie pauperistiche e manichee, mantenendo ai margini il mondo della magia. Comunque, già nel Decretum di Graziano, del 1138, troviamo le pratiche del­la stregoneria accomunate e assimilate al potere diabolico. Iniziò così un lento processo di identificazione tra la lotta contro l’eresia e quella contro la superstizione e la magia, ispirate, in entrambi i casi, dall’avversario di sempre, il diavolo, con la sua capacità di ingannare e traviare chi non aderiva ai dettami della Chiesa, l’unico vero rifugio contro ogni tipo di tentazione.

 

Il mondo culturale delle streghe

Le varie forme di strego­neria e magia erano assai diffuse, già molto prima rispetto al periodo storico che andiamo ad analizzare. La gran parte di queste credenze, o superstizioni, popolari, come il malocchio, le fat­ture e la magia, infatti, appartenevano ad antichi bagagli culturali sedimentati nelle varie epoche storiche, come lo sciamanismo eurasiati­co, baccanali, numi e divinità rurali e arcaiche. Sopravvivevano antichi riti: fiumi, sorgenti, ponti, alberi, rupi e caverne erano ancora oggetto del culto pubblico, anche se camuffato da una patina cristiana (pensiamo a quante Madonne del leccio, dell’ulivo oppure ai crocicchi). Tra queste sicuramente un ruolo importante lo ricoprì il culto per Diana, l’Artemide dei Greci, la dea dei boschi e del mondo selvaggio, con i suoi santuari edificati in posti margi­nali e fuori dalle città, dove la tradizione romana riteneva che offrisse protezio­ne agli animali, schiavi e donne incinte. Il culto di questa divinità, tra le comunità rurali e contadine, non scomparve ma, anzi, perdurò per tutto il medioevo, naturalmente rivisto e adeguato alla dottrina cristiana. Ricordiamo, ad esempio, che in una Vita di San Cesario, vescovo di Arles nel VI secolo, si parla di “un demone che le persone semplici chiamano Diana”, mentre, nella contemporanea Historia Franco­rum di Gregorio di Tours, si racconta di un eremita cristiano che, fuori dalla città di Treviri, fece abbattere una statua di Diana venerata dai contadini locali. Questa divinità, spesso rappresentata accompagnata in processioni notturne delle anime di coloro che non hanno avuto sepoltura o che sono morti di morte violenta, rimase a lungo nelle tradizioni folcloristiche medievali.

Quando nel 906 Reginone, abate di Prum, scrisse il suo Canon Episcopi, fissò, nel testo, lo stereotipo che, per tutto il medioevo e oltre, venne impiegato per descrivere e trattare il fenomeno delle streghe. Dice, infatti: «certe donne depravate, rivolte a Satana, e sviate da illusioni e seduzioni diabo­liche, credono e affermano di caval­care la notte alcune bestie al segui­to di Diana, dea dei pagani (o di Ero­diade), e di una innumerevole molti­tudine di donne; di attraversare lar­ghi spazi grazie al silenzio della not­te profonda e di ubbidire a lei come loro signora e di essere chiamate certe notti al suo servizio. Volesse il Cielo che soltanto loro fossero pe­rite nella loro falsa credenza e non avessero trascinato parecchi altri nella perdizione dell’anima! Moltissi­mi, infatti, si sono lasciati illudere da questi inganni e credono che tutto ciò sia vero, e in tal modo si allon­tanano dalla vera fede e cadono nel­l’errore dei pagani, credendo che vi siano altri dei o divinità, oltre all’u­nico Dio. Perciò, nelle chiese a loro assegnate, i preti devono predicare con grande diligenza al popolo di Dio affinché si sappia che queste co­se sono completamente false e che tali fantasie sono evocate nella mente dei fedeli non dallo spirito divino ma dallo spirito malvagio. Infatti [...] durante le ore del sonno inganna la mente che tiene prigioniera, alter­nando visioni liete a visioni tristi, persone note a persone ignote, e conducendole attraverso cammini mai praticati; e benché la donna in­fedele esperimenti tutto ciò solo nello spirito, ella crede che avvenga non nella mente ma nel corpo».

A seconda delle aree geografiche e delle tradizioni popolari locali europee, il culto di Diana mutò nome e conobbe un’eterogenea onomastica, comunque frutto di un substrato culturale comune. Tra le popolazioni tedesche, ad esempio, questa misteriosa e ancestrale “signora della notte” si chiamava Holda, in altre zone Unholde, oppure Oriente, Berthe, Perchta, e così via. Ancora più complessa è la figura mitologica di Làmia (lamie è l’altro nome con cui venivano chiamate le streghe), un mostro, ibrido tra donna e animale, che, secondo un’antica leggenda, terrorizzava e mangiava i bambini. E lamie (al plurale) erano anche delle femmine-vampiro che prima seducevano gli uomini, soprattutto giovani, poi ne succhiavano il sangue. Frequente fu anche l’identificazione con Erodiade, la moglie di Erode che fece decapitare Giovanni Battista, condannata, nelle leggende popolari, a girare il mondo in compagnia del diavolo e degli spiriti maligni. Nel X secolo, il vescovo di Verona Raterio, narra nei Praeloquia dei molti che «considerano Erodiade, l’assas­sina di colui che battezzò Cristo, quasi una regina, anzi una dea; essi sostengono che le è stata consegna­ta la terza parte del mondo come ricompensa per l’uccisione del profeta, ma bisogna dire che sono i demoni che con tali prestigi ingannano, grazie alla loro dissolutezza, le povere donnicciuole e gli uomini più biasimevoli». In un altro testo, il poema Reinardus del XII secolo, viene descritta come moesta hera (mesta signora), costretta a rimanere seduta sulle querce o sui noccioli da mezzanotte al primo canto del gallo, e condannata, il resto del giorno, a fluttuare nell’aria, spinta conti­nuamente dal soffio proveniente dal­la testa mozzata di Giovanni Battista. Va comunque ricordato che, nelle tradizioni popolari, queste donne, figure a metà tra fa­te e demoni, che vagano durante la notte, spesso e volentieri non avevano valenze negative. Il vescovo di Parigi Guglielmo d’Alvernia, ad esempio, scrive che: «Ancora oggi vecchie malate di mente credono che questo demone, sotto sembianze femminili, frequenti di notte in compagnia di altre donne le case e le cantine: e la chiamerò Satia, da satietatis e domina Abundia, da abundantia, che dicono assicuri alla casa che ha visitato».

Gli stessi nomi con i quali vengono chiamate queste donne, soprattutto nei testi demonologici, tradiscono la loro origine da questo comune sostrato culturale. L’italiano “strega”, ad esempio, è legato con il termine latino strix, ovvero l’uccello o la donna-uccello, mentre il francese sorder dal latino sors (da cui sortilegio). L’inglese witch deriva da un termine più genera­le la cui etimologia deriva da “sapere”, e quindi, probabilmente, legato a quel mondo dei saperi misteriosi dei druidi. Analoga provenienza pare avere anche il termine tedesco per strega, Hexe. Fino al XIV secolo la Chiesa non prese troppo sul serio queste credenze. Ma, soprattutto a partire dalla metà del secolo, l’inquisizione cominciò a dedicare molta attenzione al fenomeno della stregoneria, soprattutto tentò di risolvere e semplificare questo groviglio di credenze e folclore riducendolo ad un disegno unitario, inventando una sorta di antireligione, in realtà inesistente, dedicata all’adorazione del demonio e a riunioni notturne a sfondo orgiastico e cannibalistico, alternativa alla cristianità.

 

Il rito di stregoneria per eccellenza: il sabba

Tra il Trecento e il Seicento inoltrato, non c’era classe sociale, dalla povera gente ai ricchi e ai nobili, dagli intellettuali ai teologi, che non credesse all’esistenza delle streghe. Tutti, o quasi, ritenevano che il potere delle streghe, chiamate nei modi più disparati lamie, malefiche, strie, maghe, basche, fattucchiere, arpie, megere, maliarde, diavolesse, invocatrici di demoni oppure cultrici di Satana, fosse grande e che potessero realmente provocare sventure e malefici di ogni sorta. Lo stereotipo più comune, sopravvissuto fino ai nostri giorni, è quello di donne in grado di saper volare e di trasportare altri in luoghi lontanissimi, coprendo le distanze in un batter di ciglia. Si credeva anche che avessero il dono della metamorfosi, di trasformare, cioè, le proprie sembianze in quelle di animali, in particolare i gatti, l’animale per eccellenza associato al diavolo. Altri erano convinti che potessero trasformarsi in lupi mannari che si aggiravano di notte in cerca di prede. Ovviamente per la maggior parte delle persone le streghe conoscevano le arti magiche e potevano realizzare filtri d’amore o di morte e malattia. Tra le convinzioni più radicate c’erano anche quelle che ritenevano che queste donne avessero un certo potere sugli elementi della natura e che, con semplici gesti, potessero generare tempeste, grandine e fulmini, oppure rendere sterili le bestie, infeconde le donne e impotenti gli uomini. Tra i loro poteri c’era anche quello di far cadere in loro balia i malcapitati con il solo sguardo oppure diffondere pestilenze per mezzo di unguenti spalmati sui muri.

Ma tra le cose peggiori si riteneva che avessero un’indole sanguinaria e che compissero sacrifici umani, accanendosi sugli innocenti, in particolare su donne incinte e su bambini, di cui si cibavano durante i loro ban­chetti o riunioni orrende, note anche come sabba, in cui veniva adorato il diavolo, il loro vero e unico padrone. La tradizione vuole che questi convegni di streghe avvenissero di solito di notte e in luoghi appartati, preferenzialmente nei boschi, per giungervi in volo su for­coni, pali o scope (alcuni sostenevano che non si trattava di un volo reale ma apparente, ottenuto mediante l’impiego di unguenti capaci di produrre una sorta di catatonia in grado di proiettare la strega in una dimensione invisibile dominata dal diavolo stesso). La descrizione del sabba la possiamo ricavare sia da testimonianze tratte da processi, sia da documenti dell’epoca come, ad esempio, la bolla Vox in Rama, di papa Gregorio IX (13 giugno 1233). Nella stragrande maggioranza delle narrazioni pervenuteci parlano di riti osceni e sacrifici al diavolo, in luoghi bui e appartato, normalmente nel fitto di un bosco, che si concludevano quasi sempre con orge sessuali. Era una sorta di rito religioso alla rovescia, una deformazione della celebrazione sacra, da cui mutuava vari elementi come, ad esempio, un’ostia realizzata con una fetta di rapa, in cui il vero protagonista era il diavolo. Le partecipanti a questo rito erano quasi sempre donne, anche se certe volte si parla di partecipazioni maschili (anche di frati e preti scomu­nicati) e per potervi partecipare, occorreva essere inizia­ta. Il Malleus Maleficarum ci descrive come avveniva quest’iniziazione: le donne che avevano deciso di aderire dovevano esprimere un voto di obbedienza durante la cerimonia del sabba, rinnegando la fede cri­stiana per consegnare al diavolo la propria anima e promettendo di portare al suo nuovo padrone il maggior numero possibile di nuovi adepti. Due brani, il primo tratto dalla bolla Vox in Rama e il secondo dal Compendium maleficarum, ci danno una descrizione viva di quello che, tra il Basso Medioevo e il Seicento inoltrato, si credeva accadesse durante un sabba.

«... Siedono a far banchetto e, quando s’alzano, dopo aver fini­to, ecco farsi avanti, da dietro un simulacro che si erge solita­mente nel luogo di queste riunioni, un gatto nero, grande come un cane di media taglia; esso avanza, camminando all'indietro e con la coda ritta. li nuovo adepto, sempre per primo, lo ba­cia sul didietro, poi fanno la medesima cosa il capo e gli altri, a turno, solo però se l’hanno meritato. A coloro che non sono ritenuti degni di questo onore, il maestro della cerimonia augura la pace. Tornando al proprio posto, rimangono in silen­zio per un poco, sempre rivolti verso il gatto. Poi il maestro dice: "Perdonaci!", e lo stesso ripete il secondo, ed il terzo aggiunge: "Signore, lo sappiamo"; un quarto conclude: "Dobbiamo ubbidire"... Quando, ogni anno, a Pasqua, ricevono il corpo del Signore dalle mani del sacerdote, lo tengono in bocca e poi lo gettano nell'immondizia, per recare offesa al Salvatore».

«... Presiede la riunione e siede su un trono, sotto spoglie terrificanti di capro o di cane. A lui si accostano, per rendergli ono­re, non sempre allo stesso modo: ora in ginocchio, in atto di supplica; ora di spalle; ora col capo all'indietro e le gambe leva­te, così che il mento sia rivolto al cielo. Gli offrono candele nere come la pece o ombelichi di bambini; in segno di omaggio gli baciano l’ano... In quelle riunioni notturne si radunano folle di persone di ambo i sessi, ma il numero delle donne è molto mag­giore di quello degli uomini...; le danze sono composte da giri da compiersi sempre verso sinistra...; ogni banchetto è benedetto dal diavolo con parole blasfeme, così che Belzebù viene indicato come il creatore, dato re e conservatore di tutte le cose. La stessa formula vale anche come ringraziamento dopo il pasto. Al termine del banchetto ogni demone prende per mano la adepta che ha in custodia... si voltano vicendevolmente le spalle e tenendosi per mano, componendo un cerchio, scuotono come folli il capo, danzano tenendo in mano le candele usate precedentemente per l'adorazione del demonio. In onore di costui cantano canzoni molto oscene, ritmate da timpani o zampogne..., mentre orgiasticamente si accoppiano».

Vengono così definiti i “topoi”, ovvero i caratteri tipici della stregoneria. Innanzitutto la sua dimensione notturna, una dimensione lontana e arcana rispetto alla cultura sociale e religiosa urbana. Era dalla città, infatti, che provenivano i predicatori e i giudici e la loro teologia e demonologia nulla, o poco, sapeva, né era interessata alla comprensione della cultura contadina e dei miti precristiani che non avevano mai cessato di esistere. Lo stesso sabba, il convegno demoniaco, non era che una trasposizione demonizzata dell’assemblea di villaggio, un organismo di tipo democratico del mondo rurale e comunitario precristiano. Anche le pratiche degli unguenti potevano ricondursi a questa magia naturalistica dovuta all’uso di sostanze stupefacenti di origine vegetale, come la cicuta, la belladonna, il giusquiamo, l’aconito, il verbasco, la valeriana, l’erba morella, la dulcamara, il salice, l’erba astrologa, il baccaro, la brionia, il cerfoglio, lo stramonio e alcuni tipi di funghi, per raggiungere quello stato di trance o di sogno, durante il quale la strega compieva i suoi voli. La Chiesa, come il potere civile e secolare delle città, non fece nulla per interpretare la cultura folklorica che venne, invece, fagocitata e cancellata in una generalizzazione demoniaca, che, con l’affermarsi della caccia alle streghe,  trasformò ogni manifestazione e rituale non cristiana in un’adorazione del demonio.

Satana marchia una strega (incisione del 1626, Milano).

 

Stregoneria e eresia

Repressi i movimenti ereticali, soprattutto quelli di tipo pauperistico ed evangelico, la Chiesa cominciò a rivolgere la sua attenzione verso il mondo della stregoneria, giungendo a equiparare queste due categorie di errori, o devianze dalla dottrina cattolica. Determinati i “tòpoi” delle streghe, ovvero i tratti caratteristici che l’immaginario medievale e la etteratura antistregonesca e demonologica dei secoli successivi costruì intorno a queste donne (depravazione morale, orge sessuali, cannibalismo, specie di bambini, la facoltà di lanciare incantesimi o sortilegi e la costante presenza di gatti, l’animale demoniaco per eccellenza, da cui anche il nome “gatina” a volte dato alle streghe), l’inquisizione e la cultura clericale, non solo cattolica ma anche protestante, potevano disporre di un modello di strega e quindi di una strategia di repressione, efficacemente sintetizzata nel Malleus maleficarum: «Chiunque può essere stregato e indotto alla stregoneria». In altre parole è come dire che tutti sono streghizzabili; chiunque può essere potenzialmente una strega o uno negromante. Solo tre sono le eccezioni ammesse: «coloro che hanno l’incarico di esercitare la giustizia o altro pubblico ufficio contro le streghe; coloro che si premuniscono con l’aspersione dell’acqua benedetta o sale consacrato con il candelabro nel giorno della purificazione o con un ramo di palma benedetto e altri esorcismi autorizzati e predisposti dalla Chiesa; coloro che hanno la protezione degli angeli …». Quindi solo i giudici e coloro che compivano esorcismi nelle forme autorizzate erano immuni.

In questo modo fu possibile riunire in unico contesto accusatorio sia i crimini contro la fede, cioè le eresie, e quelli contro la società civile, ovvero la magia e la superstizione, coinvolgendo sempre più il potere politico nella stessa missione di quella dell’Inquisizione, dato che eretico e strega erano divenuti lo stesso nemico comune. Così facendo non solo la Chiesa otteneva un appoggio pressoché incondizionato dal potere civile e secolare, cosa del resto già avviata durante i primi decenni del XIII secolo, quando riuscì a far riconoscere gli eretici come autori di un delitto di lesa maestà, ma anche poteva estendere il proprio controllo sulla popolazione rurale che era, ovviamente, più legata ai cicli naturali e al mondo superstizioso. Affermando e sostenendo un’equivalenza tra l’essere stre­ga l’esser eretico, era possibile presentare gli eretici come individui peri­colosi per la popolazione rurale stessa, poiché se era vero che gli eretici adoravano Satana e che producevano rituali magici contro l’uomo, i campi e il bestiame, diveniva più facile muovere il popolo a schierarsi contro di loro.

Fu così che nel 1258 Alessandro IV condannò apertamente chi praticava la magia e Giovanni XXII, nel 1320, incaricò gli inquisitori di Tolosa di intervenire contro chi faceva magie e stregonerie. Nel corso dello stesso anno l’inquisitore Bernard Gui, nella Practica inquisitionis haereticae pravitatis, scrisse che le pratiche di stregoneria erano da equipararsi all’eresia e nel 1376 Nicolas Eyme­rich, un altro famosissimo inquisitore, definì eretici tutti quelli che avevano rapporti con il diavolo partecipavano al sabba. Sempre a metà del XIV secolo Bartolo da Sassoferrato, giurista all’Università di Perugia e consi­gliere di Carlo IV, scrisse: «La strega della quale si tratta... deve essere condannata a morte e bruciata con il fuoco. Infatti ella confessa di aver rinunciato a Cristo ed al battesimo, per cui deve morire... Ella confessa, ancora, di aver adorato il diavolo, in ginocchio davanti a lui, per cui deve essere condannata...». La stregoneria, rimasta fino ad allora in una zona grigia, al confine tra superstizione ed eresia, perse lentamente i suoi connotati originali, quelli di una somma di credenze popolari, per trasformarsi in una colpa contro la fede, ovvero una forma di eresia, ma del tutto particolare, però, poiché oltre alle questioni concernenti la fede, si trattava anche di delitto contro le cose o le persone (fatture, unguenti, malocchio, pestilenze, ecc.). Per questo motivo i procedimenti giudiziari contro le streghe furono sia di tipo civile che religioso.

Il dibattito sul “processo alle streghe”, delitto contro l’uomo o contro la fede, occupò e interessò filosofi, teologi e giuristi e fu fonte di non pochi contrasti tra il potere giuridico ecclesiastico e inquisitoriale e quello civile ve­scovile e secolare. Questo crescente interesse per il “doppio crimine” delle streghe lo ritroviamo anche nel numero di pubblicazioni sul fenomeno della stregoneria: tra il 1320 e il 1420 circa 10 trattati, raddoppiati nei cinquant’anni successivi. Dibattito che venne risolto la scritta che reca nel suo frontespizio il Malleus: «Non credere nella stregoneria è la più grande delle eresie» (la posizione della Chiesa si era, dunque, totalmente ribaltata rispetto all’atteggiamento di scetticismo generale che teneva alcuni secoli prima, ai tempi del Canon Episcopi di Reginone di Prüm, al punto che era divenuta eresia da condannare con dure pene anche il solo non credere ai fenomeni demoniaci). Una pressante misoginia, presente in seno alla Chiesa sin dai primi secoli cristiani, portò all’equazione femmina-strega, e la donna divenne una creatura debole e facilmente ingannabile, e pre­da, per definizione, del diavolo. Iniziò così una vera e propria “caccia alle streghe”, con conseguenze tragiche e inimmaginabili che, tra la fine del Trecento e la fine del Seicento, portò alla morte e al sacrificio, inutile e orrendo, di decine di migliaia di donne, con stime che vanno, le più attendibili, da 70.000 vittime fino alla cifra spaventosa di ben 300.000 roghi. Eresia e stregoneria divennero un’unica cosa, tanto da parlare di stregoneria eretica.

 

Il processo alle streghe

Superati gli ostacoli teologici-giuridici, equiparata la stregoneria all’errore di eresia, la persecu­zione delle streghe poteva aver luogo, soprattutto anche per la credenza misogina e diffusa che la donna fosse più debole rispetto al­l’uomo verso il crimine della stregone­ria. Nei processi e nei manuali inquisitoriali, come il Malleus, l’azione processuale contro il crimine della stregoneria poteva aver luogo secondo tre modalità: con la denun­cia da parte di un accusa­tore che si era impegnato a fornire le pro­ve; con la denuncia non manifesta, ossia l’accusatore non era obbligato a dare le prove e non si impegnava a intervenire nel dibattimento, agendo solo “per zelo della fede o per timore di scomunica”; con la delazione occulta, ovvero l’azione d’ufficio del tribunale «a causa della diceria, in questo caso, il giudice vuole procedere d'ufficio contro costei senza la citazione generale... ma solamente perché tali voci sono giunte frequentemente alle sue orecchie».

Avviata la procedura processuale e il giuramento di rito, il giudice chiedeva al denunciante, in presenza di un notaio, se le accuse che aveva presentato erano per esperienza diretta o per sentito dire, dove, quando, quante volte, in che modo e in presenza di chi. Tra i testimoni erano ammessi anche coloro che erano notoriamente nemici giurati degli imputati. Gli interrogatori si rifacevano a trattatistiche teologiche e a procedure consolidate e, partendo da presunzioni di colpa e indizi consolidati, l’inquisitore ricercava quegli elementi che potessero consentirgli di in­dividuare la presenza di reati che rientravano negli schemi processuali già codificati della stregoneria. Si chiedeva all’accusato notizie sui suoi geni­tori, se erano stati condannati per eresia, arrivando a sostenere, sovvertendo ogni logica di diritto, che se l’accusatore affermava che i genitori dell’accusato erano morti sul rogo, e quest’ultimo invece sosteneva che ciò non era vero, si dovesse tenere veritiera la dichiarazione del denunciante respingendo come falsa quella dell’imputato. Si chiedeva se la madre dell’accusato avesse mai cam­biato dimora, considerato questo come un altro segno sospetto nella convinzione che le stre­ghe, quando venivano scoperte, cam­biassero villaggio per sfuggire ai loro persecutori. Dall’indagine sulla famiglia, il giudice passava a interrogare l’imputato sulle sue frequentazioni e amicizie, i pae­si visitati, se conosceva le pratiche magiche e, in tal caso, di sve­larne le ragioni, gli incontri, le cause e i nomi. Gli veniva chiesto anche se cre­deva all’esistenza delle streghe. Questa domanda era un tranel­lo poiché nel caso di una risposta affermativa, l’interrogatorio sondava sempre più in profondità la credulità dell’imputato; nel caso di una risposta negativa, negare l’esistenza delle streghe significava, in altre parole, accusare l’Inquisizione di muovere contro innocenti.

Dagli interrogatoria generalia l’inquisitore passava quindi agli interrogatoria particularia, stringendo l’imputato in una morsa con domande circostanziate e precise secondo modelli prefissati (che spiegano la conformità delle deposizioni nelle confessioni). L’inquisitore, infatti, durante il suo dibattito processuale, si limitava semplicemente a cercare una confer­ma dei suoi schemi preconcetti nelle confessioni degli imputati. Partendo da congettu­re, e non su fatti comprovati, si veniva a creare una dinamica circolare perversa, in cui le affermazioni e le credenze sostenute dagli imputati venivano trasformate dai giudici in eresie o chiare prove di appartenenza alla stregoneria. Da qui si allargava il campo delle accuse e dei maleficia e delle credenze che andavano ad arricchire i manuali e le convinzioni degli altri inquisitori. Qualsiasi prova poteva trasformarsi in un atto stregonesco, anche qualunque oggetto di uso quotidiano (naturalmente interpretato idoneo a produrre malefi­ci, unguenti, vasi, strumenti per il lavoro artigianale e libri. Per ovviare l’ostacolo procedurale, mutuato dal diritto ro­mano e detto, perciò, diritto di prova romano-ca­nonico, che imponeva che per condan­nare un imputato ci fosse bisogno di due testimoni oculari fide digni, o, in alternati­va, della confessione, cosa piuttosto improbabile in processi di questo tipo, che trattavano di evocazioni diaboliche, convegni notturni o adorazio­ni collettive del diavolo, si fece un uso indiscriminato della tortura per costringere gli imputati a confessare ciò che i giudici si aspettavano: la strega. E per rimediare alle norme che stabilivano che la tortura dovesse essere praticata nell’arco di un solo giorno, proibendone la ripetizione, nel suo manuale del 1376, l’inquisitore Nicholau Eymerich ammise la possibilità di continuarla in momenti successivi.

Prima dell’interrogatorio sotto tortura l’imputato veniva spogliato completamente, per evitare che potesse portare nella sala del supplizio qualche strumento stregonesco nascosto tra le vesti (allo stesso scopo, veniva completamente depilato). Prima di procedere il giudice formulava nuovamente la domanda se voleva con­fessare. Se la risposta era negativa si procedeva con la tortura. Tipicamente si iniziava con il supplizio della corda; si legava l’ac­cusato ad una corda e, mediante le “strappate”, si produceva la slogatura dei muscoli delle spalle per poi lasciarlo “pendere”, talvolta, anche per 10 ore di seguito. Se insisteva a non confessare, si poteva passare alla prova del fuoco, comminata, però, con prudenza poiché si riteneva che il diavolo, per sua natura, conoscesse bene questo elemento e potesse fornire alla strega la capacità di sop­portarne gli effetti. Se l’accusato cedeva e ammetteva le proprie colpe, veniva liberato e condotto in una sala attigua alla sala dei tormenti dove, dopo essere stato rimesso in sesto, gli si chiedeva di confermare quanto det­to sotto tortura. Se rinnegava tutto, si ricominciava, con il sospetto e l’accusa, da parte dei giudici, di trovarsi di fronte a una menzogna reiterata.

La resistenza ai tormenti spesso veniva interpretata come un intervento o aiuto diretto da parte del diavo­lo. Anche le lacrime delle sventurate che venivano sottoposte a tormento erano oggetto di indagine per interpretare se fossero vere oppure menzognere, indotte dal demonio per fingere dolore. Per stroncare la resistenza e disorientare gli imputati, tra un interrogatorio e l’altro, spesso, li si trattava con cura, dando loro parole di consolazione e buon cibo, confondendo, così, dolore e conforto. A questo punto, ammesse le proprie colpe, o quelle che si volevano confessate, si giungeva alla sentenza. Occorre dire, per onestà, che i roghi delle streghe non raggiunsero mai le cifre spaventose che alcuni studiosi hanno voluto ingigantire (c’è chi parla di due o tre milioni). Ma questo non riduce l’orrore che si prova di fronte a questa condotta inquisitoriale che perdurò per oltre tre secoli in tutta Europa, sia tra i cattolici che i protestanti, con modalità più o meno simili. Anzi, forse, ancora più accanita proprio nei paesi che abbracciarono la Riforma, impegnati a contrastare con ogni mezzo la superstizione, sia ecclesiastica, come l’adorazione dei santi, il rosario e le reliquie, sia popolare come gli incantesimi e gli amuleti  (lo stesso Lutero più di una volta ha sostenuto di aver ingaggiato veri e propri combattimenti con il diavolo). Non vi fu classe sociale, dai nobili al clero, dai poveri ai ceti mercantili, dalle campagne alle città, dai giuristi ai teologi, che non ebbe paura delle streghe e che, reagendo a questo terrore, si macchiò di questa giustizia sommaria e di questa isteria collettiva, che spesso esplodeva improvvisa.

      

    

©2005 Andrea Moneti

     


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