Sei in: Mondi medievali ® Medioevo ereticale


           MEDIOEVO ERETICALE

    a cura di Andrea Moneti


Ario in una raffigurazione di età moderna

    

Fin dai primi secoli, il Cristianesimo ha presentato un assetto ideologico e dottrinale non sempre unitario e sono nati e si sono diffusi vari movimenti eterodossi, anche di primaria importanza. Sono anche gli anni dei Vangeli Apocrifi (dal greco Apokryphos che vuol dire “sconosciuto” o “segreto”, ma che, a partire dal III secolo, con l’avvio di un controllo sempre più stringente da parte delle gerarchie ecclesiastiche, conservò solo l’accezione negativa di “non autentico”), composizioni individuali scritte, probabilmente, per chi cristiano era già o per introdurre nuovi sviluppi di pensiero. Fino al III secolo, per oltre 250 anni, il cristianesimo era stato, semplificando all’estremo, una “setta orientale”, anche se molto diffusa a Roma e nell’Impero (e, non a caso, i primi vescovi, anche di importanti città come Milano, erano quasi sempre di origine orientale).

Nel giro di qualche decennio, però, la sede episcopale di Roma cominciò ad assumere un ruolo predominante, fino a diventare una vera e propria istituzione, capace di penetrare in ogni settore della vita pubblica e privata nella realtà sociale dell’Impero. La dottrina si fece sempre più dogmatica e la sua organizzazione rigida e gerarchica. Tra il III e il IV secolo la religione cristiana aveva ormai perso molto del suo aspetto originale, spontaneo e immediato. La Chiesa - ma non solo quella di Roma, anche le principali chiese cristiane orientali – cominciò, quindi, a delineare la scelta delle opere conformi ai dogmi e che corrispondevano alla tradizione cattolica, limitando la diffusione di quei testi che potevano risultare fuorvianti. Per questo motivo vennero compilati elenchi di testi giudicati conformi alla dottrina, quindi canonici (tali, cioè, da poter essere compresi nel “Canone” ecclesiastico). Ormai clericale, si apprestava a diventare quell’assoluto punto di riferimento che pervase la mentalità e la cultura occidentale nei quasi duemila anni successivi: un predominio culturale che fornì alle parole “eresia” e “ortodossia” un nuovo e ben diverso significato.

In questo paragrafo ci limitiamo, comunque, solo a fare una breve e sintetica introduzione delle eresie principali. Per dare un’idea del magma religioso dei primi secoli cristiani ricordiamo che Isidoro di Siviglia, uno dei Padri della Chiesa, presenta un elenco di circa settanta eresie. Va sottolineato, inoltre, che le prime grandi eresie cristiane, almeno fino al IV secolo, si sono sviluppate soprattutto in Oriente, economicamente e culturalmente più vivo, con ripercussioni, ovviamente, anche in Occidente, dove, comunque, la Chiesa di Roma è sempre riuscita a imporre i suoi dogmi.

Denominatore comune di queste eresie orientali è lo sforzo di spiegare razionalmente ciò che non poteva essere accettato se non come dogma per occuparsi, soprattutto, di temi metafisici, come la Trinità, la divinità del Verbo e quella dello Spirito Santo, le due nature di Gesù Cristo, umana e divina, la creazione del mondo, l’origine del male, e così via. Si tratta, essenzialmente, di eresie cristologiche, sorte, cioè, dalla necessità di giustificare la compresenza di una natura umana e divina in Cristo. La soluzione che venne adottata – dopo non poche diatribe filosofiche, in cui intervennero persino alcuni imperatori - nei concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381) fu quella del dogma trinitario, in cui Padre, Figlio e Spirito Santo, presi sia individualmente che nella loro unità, erano un unico Dio. In questi due concili la Chiesa occidentale, rifacendosi al passato glorioso di Roma e alla convinzione che Gesù avesse affidato a Pietro l’incarico di fondare la sua ekklesia, giunto a Roma assieme a Paolo per dare vita alla nuova comunità, tentò, inoltre, di imporre la sua superiorità rispetto alle comunità cristiane orientali, creando le premesse non solo per i contrasti che poi risultarono insanabili tra cattolici e ortodossi, ma anche per lo sviluppo di interpretazioni religiose che esprimevano anche una chiara opposizione degli orientali all’ingerenza della Chiesa di Roma, che si stava sempre più rafforzando.

Nel tentativo di fornire una banale semplificazione, si potrebbe generalizzare affermando che i greci si sono sempre mostrati attratti verso i problemi metafisici e le speculazioni, mentre i latini hanno concentrato, con maggior vigore, la loro attenzione sulla condizione umana, su temi come il libero arbitrio, la fede, la grazia, le opere e la predestinazione.

Una grossa ed indiscutibile influenza su gran parte di questi movimenti, o correnti, l’ebbe lo Gnosticismo, corrente di pensiero che, tra il I e il III secolo,  conobbe una vasta diffusione sia nel mondo greco che in quello romano. In realtà questo non fu un’eresia vera e propria, poiché derivava da precedenti esperienze filosofiche ellenistiche, come il neopitagorismo e il neoplatonismo, e da correnti misteriche e astrologiche orientali, come lo zoroastrismo, con il probabile concorso anche di elementi ebraici ed ermetici.

   

La Gnosi

Le origini dello Gnosticismo sono oscure, comunque le sue prime manifestazioni risalgono già al I secolo d.C., nell’area del Giordano,  dopo la morte del Battista, introdotto da un certo Simone di Gitta, identificato poi con il Simon Mago degli Atti degli Apostoli (8, 9-24). Il termine derivava dal greco gnosis che aveva come significato quello di “conoscenza”. Gli Gnostici ritenevano, infatti, che la salvezza dell’uomo derivasse dalla “conoscenza” (o rivelazione) di Dio, cognizione riservata a pochi eletti tramite forme iniziatiche di apprendimento.

Partendo dalla contrapposizione tra bene e male e seguendo una speculazione di derivazione platonica, gli gnostici sostenevano che era possibile raggiungere distinti gradi di perfezione fino alla rivelazione finale dell’Essere divino. Questo processo prende avvio dalla considerazione che Dio (“l’Essere Infinito”, o “Abisso”) aveva emanato una serie di entità incorporee ed eterne (eoni), comunque esseri inferiori, per formare tutti insieme il Pleroma (o pienezza del divino). Ma una di queste emanazioni eoniche, Sophia (la Saggezza), per una sorta di incidente cosmico, era sprofondata nel mondo materiale (una degenerazione del Pleroma), che è ordinato da un “demiurgo”, o Ialdabaoth, (una sorta di divinità inferiore), dimenticando il suo universo celeste per dare origine al nostro mondo, così pieno di brutture e di mali. Ma Sophia, a insaputa del demiurgo, aveva infuso in alcuni uomini (detti pneumatici o spirituali) la scintilla dell’essere divino (Logos), persa, però, nella materialità del corpo. Solo mediante la gnosi, liberandosi dalla materia e dall’asservimento carnale, può risvegliarsi e permettere all’anima di raggiungere il mondo spirituale superiore a quello del Demiurgo e quindi la totale coscienza della sua natura divina.

Secondo la corrente gnostico-cristiana, quella, cioè, che realizzava un sincretismo tra lo gnosticismo ellenico-orientale e il Cristianesimo, ovviamente la più avversata dai Padri della Chiesa, come Ireneo, Giustino e Tertulliano, per permettere alla ristretta cerchia degli iniziati di salvarsi e risalire al “Pleroma” dopo la morte, Dio aveva inviato l’eone Cristo, la cui incarnazione e morte erano soltanto simboliche. Quindi, per la salvezza non erano fondamentali né la fede né le buone opere, ma un progressivo abbandono degli aspetti materiali e corporei. Anche la Chiesa non aveva più importanza poiché la rivelazione era un fatto e un’esperienza puramente individuale. Sembra, inoltre, che la ritualità di questa corrente gnostica, con derivazioni cristiane, ammettesse la pratica della confessione, anche se probabilmente compiuta soltanto durante l’iniziazione, quella del battesimo, e una specie d’eucarestia.

   

Il Manicheismo

Anche per il Manicheismo vale lo stesso discorso fatto per lo Gnosticismo. Non si può parlare di una vera e propria eresia poiché si tratta di una religione autonoma, fondata in Iran e nella regione mesopotamica nel III secolo dal predicatore Mani (216-276 d.C.), che in aramaico significava “l’illustre”. È indubbio, però, che abbia esercitato non poche influenze sul Cristianesimo primitivo, in particolare nel Medio Oriente. Da un punto di vista puramente dottrinale il Manicheismo è una sorta di gnosticismo dualistico, estremamente complesso, che, fondendo elementi derivanti dallo gnosticismo giudeo-cristiano e dallo zoroastrismo iranico, e di altre religioni, compreso il Buddismo (lo stesso Mani, che si dichiarava essere l’apostolo del vero Dio, affermava di aver avuto come precursori Gesù, Budda e Zoroastro), pone su uno stesso piano dualistico i due principi costerni, non inferiori l’uno all’altro e in eterna lotta, del Male (le Tenebre, il Diavolo) e del Bene (la Luce, Dio). Dio, che chiamava anche Padre di grandezza (megethos), incarnava lo spirito, la luce, la pace, buono per eccellenza; l’altro, detto anche Principe delle tenebre, dominava la materia, e, quindi, era il signore del caos, della guerra e della discordia perenne.

La cosmogonia manichea, quindi, si fondava sulla contrapposizione perenne tra il Regno del Bene, comandato da Dio, che si manifestava attraverso quattro entità (tetraposopon), Tempo, Luce, Forza, e Bontà, e cinque eoni (Intelligenza, Ragione, Pensiero, Riflessione e Volontà), e il Regno del Male, comandato dal Principe delle Tenebre, che si manifestava sotto forma di un’incarnazione, Satana, un mostro metà pesce, metà uccello, con quattro zampe e testa di leone. A seguito di una catastrofe primordiale, il regno delle Tenebre aveva invaso quello del Bene. Il Padre di grandezza decise, quindi, di emanare la Madre della vita e questa, a sua volta, creò l’Uomo primordiale (protanthropos) per contrapporsi al Principe delle tenebre. Ma ne venne sopraffatto. Sconfitto, il Primo Uomo supplicò il Padre, che creò una seconda emanazione, lo Spirito di Vita, che discese nel regno delle tenebre salvandolo dal suo degrado. Quindi creò una terza emanazione, il Messaggero e, dalla lotta con i figli delle tenebre nacquero due bambini, Adamo ed Eva, figli dell’odio e della lussuria, che mantenevano intrappolata la luce. E da allora in poi ogni concepimento realizzava un imprigionamento della luce nella materia.

Venne, quindi, mandato il Salvatore, o il Gesù celeste, (Mani respingeva, infatti, la natura umana di Gesù), che fece assaggiare ad Adamo i frutti dell’albero della vita, risvegliando in lui la coscienza della sua origine divina. E da quel momento in poi, attraverso lo Spirito di Vita, l’uomo poteva redimersi liberandosi dalla materia (per Mani il mondo materiale era una prigione della luce) e dal corpo, considerato una sostanza diabolica, per raggiungere, nuovamente, la luce, cioè il Regno del Bene. Per questo motivo i manichei sostenevano un rigoroso ascetismo sia sessuale che alimentare, arrivando a rifiutare sia il matrimonio che il concepimento, poiché ogni nascita dava origine ad un imprigionamento della luce nella materia, sia l’alimentazione di alcuni cibi. Mani sosteneva, comunque, che la Grande guerra tra i due principi del Bene e del Male si sarebbe conclusa con la fine del mondo, quando la luce avrebbe trionfato definitivamente sulla materia, relegando per sempre le tenebre nel loro regno. Inoltre divideva i propri seguaci tra i “perfetti”, gli asceti che costituivano la vera e propria Chiesa manichea, e gli “imperfetti”, ovvero i semplici uditori e catecumeni. I “perfetti” non potevano avere alcuna proprietà, mangiare carne o bere vino, tanto meno avere rapporti sessuali e svolgere qualsiasi attività lavorativa. Era loro vietato, inoltre, praticare la magia o altre religioni. Attraverso la metempsicosi, la trasmigrazione delle anime, gli “uditori” potevano sperare di rinascere in un’altra vita “perfetti”.

Nonostante le violente persecuzioni degli imperatori sia persiani che romani (Valentiniano nel 372, Teodosio nel 382, Giustino e Giustiniano nel VI secolo condannarono la setta), il Manicheismo ebbe una vasta diffusione, dalla Persia alla regione cinese dello Xinjiang, dall’India al Tibet, fino al Turkmenistan; si diffuse anche in Siria, Egitto e Nord Africa. Lo stesso Sant’Agostino (353-430) era stato un aderente della setta per oltre nove anni prima di convertirsi al Cristianesimo e combatterlo duramente. Il Manicheismo conobbe il suo apice verso la fine del IV secolo, ma nei secoli successivi, prima  sotto l’attacco sistematico da parte del Cristianesimo e poi dell’Islamismo, iniziò il suo lento ma costante declino. Tuttavia, nonostante non sia stata dimostrata una diretta connessione, il Manicheismo influenzò le eresie dualiste dei secoli successivi, come quelle dei Pauliciani, dei Bogomili e dei Catari, che, come vedremo successivamente, tanta importanza ebbe tra i secoli XI e XIII.

     

Docetismo

È un’eresia cristologica che apparve già alla fine dell’età apostolica e che si diffuse nei primi anni del II secolo, influenzando molti ambienti gnostici. Non si hanno nomi di capostipiti di questo movimento di pensiero, il cui nome deriva dal verbo greco dokéin, apparire o mostrare. Alla base c’era l’opinione che Dio si fosse effettivamente mostrato con corpo umano, ma che, tuttavia, questo fosse fittizio e transitorio. Per i docetisti l’umanità di Cristo era, quindi, solo apparente, così come le sue sofferenze durante la passione. Secondo i docetisti, ispirati a idee manichee e gnostiche, non potevano, infatti, esistere in Cristo simultaneamente presente sia il Bene, l’anima, che il Male, rappresentato dalla carne (affermavano, infatti, che se Gesù era Dio e dato che Dio non può soffrire, allora anche Gesù non poteva soffrire e la sua sofferenza e la sua croce erano solo apparenti). Rifiutando la realtà della carne di Cristo, negavano che sia potuto nascere dalla Vergine Maria, né morire e resuscitare. Negavano, inoltre, la presenza del corpo di Cristo nell’eucarestia.

Questa forma di pensiero, dai contorni non ben delineati, apparve più volte durante la storia del cristianesimo: la ritroviamo tra gli gnostici, i manichei, i pricillianisti, i catari e, persino, tra gli anabattisti, durante il periodo della Riforma.

 

Lo scisma donatista

Sotto l’imperatore romano Diocleziano (284-313), a partire dal 303 d.C., quando ordinò di consegnare i libri cristiani affinché fossero bruciati e di demolire i locali di culto, la chiesa cristiana subì un periodo di dure persecuzioni che terminò con la conversione di Costantino e l’emana­zione dell’Editto di Milano del 313. Coloro che consegnarono le Sacre Scritture alle autorità romane vennero chiamati tra­ditores, da tradere termine latino che stava a significare appunto “coloro che consegnano”. Uno di questi fu un certo Felice che, nel 311, consacrò Ceciliano vescovo di Cartagine, diacono del precedente vescovo, anch’egli un traditor. Questo gesto sollevò l’indignazione di gran parte di quei cristiani che non avevano rinnegato la loro fede e, per dissenso contro questa nomina, un gruppo di 70 vescovi si ribellò, capeggiato dal vescovo di Numidia, Donato (270-335 c.a.) di Casae Nigrae (Case Nere), uomo di notevole eloquenza e assai stimato, arrivando a rifiutare l’autorità episcopale di Ceciliano. Protagonisti di una critica intransigente nei confronti di quei vescovi che non avevano resistito alle persecuzioni di Diocleziano ed avevano consegnato ai magistrati romani i libri sacri, nominarono, a loro volta, vescovo di Cartagine Maggiorino, un prete locale, che, però, morì di lì a pochi mesi. Nel 315 venne eletto vescovo Donato stesso, dando vita al movimento Donatista che prese, appunto, il nome dal vescovo di Numidia.

Gli aderenti a questo movimento credevano che, a causa dei traditores, l’intero sistema sacramentale della chiesa si fosse corrotto e che fosse necessario sostituire i traditores con persone che nonostante la persecuzione, erano rimaste fedeli e coerenti nella fede cristiana. In altre parole era come dichiarare che i sacramenti non avevano efficacia di per sé, ma dipendessero dalla dignità di chi li amministrava (tema più volte ripreso anche nei successivi movimenti riformisti del XI – XII secolo). La protesta arrivò a sostenere che la legittimità della stessa gerarchia ecclesiastica potesse essere messa in dubbio qualora la moralità dei suoi componenti veniva meno. Inoltre, venne avvalorata la tesi che fosse necessario dar luogo ad un nuovo battesimo per tutti coloro che erano stati battezzati dai vescovi apostati.

Tanto i Donatisti quanto i cattolici si rifacevano agli insegnamenti di Cipriano, vescovo di Cartagine nel III secolo, che nella sua opera del 251, De catholicae ecclesiae unitate, aveva cercato di stabilire alcune norme ecclesiali, in particolare:

ü      che non c’è mai e in nessun caso una possibile giustificazione per uno scisma: l’unità della Chiesa non può mai, con alcun pretesto, venire meno e, pertanto, “separarsi” dalla chiesa significa perdere ogni possibilità di salvezza

ü      che i vescovi caduti (lapsi) o scismatici non possono amministrare i sacramenti, né ordinare presbiteri o vescovi: perciò, chi è stato ordinato da loro deve essere considerato illegittimo, e chi è stato da loro battezzato deve ripetere il battesimo

Cipriano, però, non era stato piuttosto chiaro su cosa dovesse succedere a un vescovo se aveva mostrato debolezza durante le persecuzioni ma, successivamente si fosse pentito. Infatti, con una certa contraddizione, afferma che:

ü      con il cedimento, il vescovo ha apostatato e, quindi, peccato, perdendo di fatto la propria autorità: di conseguenza non può più curare la comunità dei credenti e amministrare i sacramenti

ü      se, però, il vescovo si pente della propria apostasia, può essere perdonato da Dio e riacquistare, così, le sue prerogative ecclesiastiche

I donatisti adottarono solo la prima posizione, sottolineando lo scandalo dell’apostasia, mentre i cattolici anche la seconda. Inevitabilmente, questa scelta e le tematiche sostenute provocarono dissidi e attriti di non poco conto con la gerarchia romana, che perdurarono per tutto il IV secolo. Lo stesso Agostino, nel 388, fece ritorno in Africa per contrastare il movimento che, nel frattempo, si era diffuso nella popolazione. Già nel 313, allo scoppio della polemica, l’imperatore Costantino prese posizione a favore di Ceciliano, che sostenne in due lettere inviate al suo proconsole Anulino. Ma l’opposizione dei Donatisti a questa decisione fu talmente insistente che costrinse Costantino a convocare un concilio a Roma, nell’ottobre dello stesso 313 nel Palazzo del Laterano, per dirimere la questione cartaginese (I concilio Lateranense). Il concilio, presieduto dal papa Milziade, condannò le posizioni di Donato e confermò come vescovo Ceciliano. Questo, però, non impedì a sostenitori di Donato di scatenare la protesta che assunse toni sempre più accesi e scismatici. Costantino convocò un nuovo concilio ad Arles in Francia, nel 314, in cui vennero riconfermate le decisioni del concilio precedente e in più venne condannata la consuetudine donatista di ribattezzare i fedeli. Non venendo a capo della situazione, Costantino, tra il 317 e il 321, scatenò una repressione imperiale tentando di sopprimere con la forza il movimento donatista e i suoi principali rappresentanti.

Nella diatriba religiosa entrarono in campo anche i conflitti sociali: i Donatisti, infatti, avevano il sostegno soprattutto dalla popolazione di origine berbera, mentre i cattolici raccoglievano i loro consensi presso i colo­ni romani. Come reazione ci furono fenomeni, non isolati, di rivolta sociale e violenze perpetrate nei confronti dei padroni terrieri da parte di bande armate di operai agricoli e dei Circoncellioni (strati della popolazione disoccupata). Facendo leva anche su sentimenti nazionalistici punici (gli abitanti, cioè, grosso modo la zona che oggi corrisponde alla Tunisia e alla Libia), e sfruttando l’ostilità e il malcontento verso Roma, nacque una Chiesa scismatica africana, detta anche “Chiesa dei santi” o “dei martiri” per i numerosi fanatici protagonisti di gesti clamorosi e alla ricerca del martirio (ci furono, addirittura, casi di Donatisti che arrivarono ad organizzare dei grandi suicidi in massa, buttandosi da burroni o roghi collettivi).

Il nuovo imperatore Costanzo II, nel 347, inviò due delegati per pacificare l'Africa e fare pressioni per persuadere alcuni autorevoli rappresentanti donatisti a tornare in seno alla Chiesa cattolica. Questa azione venne interpretata come un vero e proprio affronto, ma i disordini che ne seguirono servirono come pretesto per una dura repressione imperiale: lo stesso Donato venne mandato in esilio, dove morì nel 355. Suo successore fu Parmeniano, che, nel 362, durante il regno dell’imperatore Giuliano, fu fautore di nuovi disordini. Questa situazione si protrasse fino alla fine del IV secolo, quando intervenne nella disputa teologica (e non solo) lo stesso Agostino (354-430), vescovo di Ippona, protagonista e trionfatore della famosa disputa di Cartagine, tra cattolici e donatisti, del 411 (erano presenti 286 vescovi cattolici africani, contro 279 donatisti).

Rifacendosi alla parabola di Gesù del grano e della zizzania (Matteo 13:24-31), Agostino riuscì a risolvere la situazione sottolineando che la Chie­sa non era una società di soli santi, ma un “corpo misto” (corpus permixtum) di santi e peccatori. Agostino sostenne che la santità della chiesa non era quella dei suoi membri, poiché comunque corrotti dal peccato originale, ma quella di Cristo. Affermò anche che, ovviamente, sia lo scisma che la traditio (la conse­gna, cioè, delle Sacre Scritture, od ogni altra forma di cedimento della fede) erano entrambe forme di peccato, ma che per Cipriano, lo scisma fosse di gran lunga quello più grave. Ed essendo, quindi, la Chiesa un corpo misto, il peccato diviene un aspetto inesorabile della sua vita quotidiana, che non può essere preso a pretesto come una valida giustificazione per uno scisma (il che equivaleva ad affermare che non si esce dalla Chiesa con il peccato, ma solo mediante l’apostasia dalla fede e che, inoltre, il sacramento è valido indipendentemente dallo stato di grazia del ministro sacerdotale).

Durante la disputa richiese apertamente l’intervento dello stato contro i donatisti, lontani dallo spirito di misericordia che regna nel Vangelo (questa fu la prima volta nella storia del Cristianesimo in cui venne chiesto esplicitamente che il potere politico intervenisse a difesa di quello religioso per reprimere un’eresia). L’imperatore Onorio, nel 412, emanò un decreto in cui dichiarò fuorilegge i donatisti, confiscò le proprietà dei vescovi che aderivano e li mandò in esilio, dando, così, un colpo mortale al movimento (che venne definitivamente soffocato durante l’invasione dei Vandali del 429 e, quindi, quella degli Arabi).

 

L’arianesimo

L’arianesimo è, senza dubbio, l’eresia a tematica cristologica che ha riscosso maggiore successo nei primi secoli cristiani. Prende il nome da Ario (256 ca. - 336), presbitero di Alessandria, il più famoso eresiarca del IV secolo, che, a sua volta, si rifece al pensiero teologico adozionista introdotto e sviluppato, nel secolo precedente, da Luciano di Antiochia, suo maestro, e da Dionigi di Alessandria. Per la formulazione della sua teoria Ario si rifece anche ad alcuni scritti di Origene, sempre nel III secolo. Il punto focale della riflessione di Ario, a differenza dei cattolici, era la negazione della divinità di Cristo, infinita e onnipotente come quella di Dio, per sostenere, invece, una subordinazione divina del Figlio rispetto al Padre. Secondo Ario, infatti, il Padre era eterno, non originata e creatore di tutta la realtà, mentre il Figlio, sebbene fosse il primo nato fra tutte le creature e prima di tutti i tempi, e che fosse la più perfetta delle Sue creature, proprio perché generato e creato dal Padre stesso, ne era dissimile ed inferiore (una delle frasi più famose e citate di Ario era che “ci fu un tempo in cui il Figlio non c'era”). Il Logos (il Verbo), o il Figlio, quindi, pur essendo di gran lunga superiore a qualsiasi uomo, non era vero Dio, né eterno, né onnipotente, bensì creato e, pur partecipando alla grazia divina, la sua natura è soltanto somigliante a quella del Padre (homoiousios, in greco simile nella sostanza).

La prima manifestazione ufficiale dell’arianesimo avvenne nel 321 durante un sinodo, di circa cento vescovi egiziani e libici, convocato dal vescovo di Alessandria, Alessandro, che condannò come eretico il pensiero di Ario e lo scomunicò. Ario si rifugiò in Palestina e si rivolse al vescovo Eusebio di Nicomedia, uomo di prestigio, con un certo ascendente sullo stesso Imperatore Costantino, e suo vecchio compagno alla scuola di Luciano di Antiochia, che lo accolse a braccia aperte. E fu proprio Eusebio che permise lo sviluppo dell’arianesimo nella sua diocesi fino a divenirne il maggiore interprete.

Costantino, forse persuaso da Eusebio, di cui aveva una grande stima, cercò di condurre le parti ad una mediare, convinto che si trattasse di una semplice disputa terminologica cristologia. Ma, viste le dimensioni che questa controversia stava assumendo, nel 325, convocò il I Concilio Ecumenico a Nicea (il primo della storia del Cristianesimo) per dirimere la questione tra cattolici ortodossi e ariani. Alla presenza di 220 vescovi (secondo altri autori 318), per la maggior parte appartenenti alle chiese orientali, Ario e Eusebio fecero il loro intervento affermando apertamente che la natura divina di Cristo non era la stessa di quella di Dio. Ne scaturirono estenuanti discussioni e controversie, fino ad arrivare al cosiddetto Credo Niceno, dove venne ribadito che la natura di Cristo era consustanziale a quella del Padre, cioè della stessa sostanza, “generato e non creato” (è questa la precisazione fondamentale che permette una distinzione radicale dal pensiero di Ario, per il quale il Figlio era la prima e la più importante creatura del Padre, mentre il Concilio di Nicea giunse ad affermare che Dio può generare Dio e che, necessariamente, il Dio generato non può non avere le caratteristiche imprescindibili della natura divina). Rafforzando il testo originale proposto da Eusebio di Cesarea, il Concilio di Nicea definì la natura di Cristo homooùsios (in greco, consustanziale o della stessa sostanza), proclamando, inoltre, il dogma della Trinità.

Nonostante la vittoria ottenuta dagli ortodossi al Concilio di Nicea, l’arianesimo rimase comunque diffuso, spesso tutelato dallo stesso potere civile in opposizione alla Chiesa di Roma. Per questi motivi, nel 328, Costantino richiamò Eusebio dall’esilio per offrirgli il prestigioso seggio vescovile di Costantinopoli. Nel 331, anche Ario venne richiamato dall’esilio, convincendo lo stesso Costantino della sua ortodossia (a tale proposito è significativo ricordare che fu lo stesso Eusebio, nel 337, a battezzare Costantino in punto di morte). Forte della sua influente posizione, Eusebio si adoperò anche per far condannare all’esilio il suo peggior nemico, Atanasio, vescovo di Alessandria. Il conflito tra i due divenne insostenibile che obbligò Papa Giulio I (337-352) a convocare un altro concilio a Roma, nel 340, per prendere le difese di Atanasio. I vescovi ariani si rifiutarono di partecipare e organizzarono, nel 341, a loro volta e in aperto dissenso, un concilio ad Antiochia, guidati dallo stesso Eusebio. In questa occasione venne proposta una formula di compromesso che poneva l’accento non tanto sulla consustanzialità, ma piuttosto sulla coesistenza eterna di Cristo e del Padre. Nel corso dello stesso anno, pochi mesi dopo questo concilio, Eusebio morì (mentre Ario era già morto a Costantinopoli nel 336).

Dopo la morte di Eusebio, l’imperatore Costanzo II (337-361), figlio di Costantino, tra il 357 e il 359, convocò altri sinodi a Sirmio, per risolvere lo strascico interminabile di queste dispute teologiche. A complicare la situazione, durante i sinodi, vennero presentate addirittura quattro formulazioni rispetto alla natura di Cristo:

ü      identico nella sostanza a Dio, cioè consustanziale, posizione fedele al Credo di Nicea

ü      simile nella sostanza a Dio, propugnato da Basilio di Ancyra

ü      dissimile da Dio, posizione fedele al credo originale ariano più canonico, difesa da Aezio di Antiochia e Eunomio di Cizico

ü      simile a Dio, posizione vaga che parlava di una generica similitudine tra Padre e Figlio, senza, però, fornire precisazioni sulla sostanza, proposta da Acacio di Cesarea

Costanzo II dapprima aderì alla posizione teologica sostenuta da Basilio, ma, poi, dopo il sinodo del 359, favorì la versione di Acacio che dichiarò come ufficiale. Convocò, quindi, a Rimini i vescovi occidentali e quelli orientali a Selcia, per ratificare la formula acaciana. Contemporaneamente ordinò la deposizione di Papa Liberio (352-366), per pi confinarlo a Berea in Tracia. Al suo posto venne eletto l’antipapa Felice II (355-365), chiaramente di ispirazione ariana. Papa Liberio poté fare ritorno e rioccupare la sua sede solo dopo aver accettato e firmato un documento che sosteneva delle tesi molto vicine a quelle ariane. Ma nel concilio di Seleucia, del 359, al quale partecipò lo stesso Acacio di Cesarea, fu evidente la profonda divisione che regnava nel partito ariano; fu quindi aggiornato a Costantinopoli nell’anno successivo dall’imperatore stesso. Nel 361, però, con la morte di Costanzo venne a mancare agli ariani il suo forte appoggio politico (e ad aggravare la situazione fu il contesto politico che, negli anni successivi, sotto Giuliano l’Apostata (361-363), protagonista di un progetto destinato a fallire miseramente per ridar vita ad un paganesimo culturalmente ormai spento, e Gioviano (363-364), si fece caotico).

Nel 364, l’imperatore Valentiniano I (364-375) della parte occidentale si fece promotore per indire un altro concilio a Lampsaco, in cui vennero rigettate le tesi ariane condannando i vescovi ariani più influenti. Ma la parte orientale dell’impero romano, guidata dall’imperatore Valente (364-378), fratello di Valentiniano, acceso sostenitore ariano, rimase fedele alla formula e tradizione ariana. Solo grazie all’azione e all’iniziativa di tre grandi Padri della Chiesa, Basilio (ca. 330-379), Gregorio di Nissa (ca. 330-395) e Gregorio di Nazianzo (329-389), accaniti sostenitori del credo niceno, si crearono le prime crepe nel blocco ariano a favore del Cattolicesimo ortodosso. Decisiva fu anche l’azione dei due successivi imperatori, entrambi cattolici convinti, Graziano (375-383) ad occidente, ma, soprattutto, Teodosio (379-395) ad oriente, che, nel 381, convocò il I Concilio di Costantinopoli, concilio in cui venne riconosciuta alla Spirito Santo la medesima dignità divina del Padre e del Figlio, gettando le basi del credo niceno-costantinopolitano, vero e proprio cardine teologico del Cristianesimo e imposto, successivamente, nel 391 come religione di Stato (nel 394, inoltre, Teodosio divenne anche l’unico imperatore e riuscì a imporre l’ortodossia cattolica su tutto l’impero).

Questo, però non significò la scomparsa dell’arianesimo; grazie all’opera missionaria ed evangelizzatrice dei vescovi ariani orientali, era, infatti, divenuto la religione predominante tra i popoli germanici, come i Goti, i Burgundi, gli Ostrogoti, i Visigoti, i Longobardi e i Vandali. Tutte queste popolazioni mantennero il loro credo ariano per diversi secoli, e solo dopo un lento e graduale assorbimento, che durò fino all’VIII secolo, ritornarono all’ortodossia.

    

Il priscillianesimo

L’eresia priscilliana (o priscillianesimo) deve il suo nome a Priscilliano (345 ca.-385), vescovo di Avila, uomo erudito e appartenente a una nobile famiglia spagnola. Influenzato da dottrine gnostiche e manichee, a partire dal 370 circa, dette vita a un movimento ascetico che divenne molto popolare nella penisola iberica, capace di attirare anche le simpatie di vari vescovi spagnoli. Coerente con i principi del manicheismo dualista, Priscilliano predicava che il corpo era opera del demonio, principio del male e delle tenebre, mentre l’anima era costituita della stessa sostanza di Dio e che era stata intrappolata nel corpo come castigo per i suoi peccati e che poteva liberarsi dalla sua prigione solo attraverso una condotta morale estremamente virtuosa. Inoltre, Priscilliano sosteneva che Cristo fosse un’emanazione divina, negando la sua incarnazione e, quindi, il dogma della resurrezione che ne derivava. Infine, affermava che il Padre e il Figlio non erano che due modi di mostrarsi della stessa Persona divina. Influenzati dal pensiero di Priscilliano, così rigorista ed ascetico, i priscillianisti professavano un comportamento austero e severo, con digiuni e aspre critiche nei confronti della Chiesa Cristiana che, proprio in quegli anni, incominciava a dare vita ad una crescente esteriorità. Inoltre, dato che gli aderenti al movimento appartenevano, spesso, alle classi più agiate, molti di loro vendevano i loro beni per soccorrere i poveri. In polemica con la Chiesa ortodossa, alcuni di loro erano anche soliti portare via l’ostia consacrata durante l’Eucaristia in chiesa, per prenderla poi durante cerimonie di preghiera in abitazioni private o luoghi ristretti.

Su iniziativa di tre vescovi ortodossi Igino di Cordova, Idacio di Emeritu e Itacio di Ossanova, preoccupati della diffusione e dell’attrazione popolare che stava riscotendo il priscillianesimo, nel 380, venne convocato un sinodo a Saragozza, in cui venne condannato Priscilliano. Questo, però, non gli impedì, nello stesso anno, di essere nominato vescovo di Avila, carica che ricoprì per pochi mesi perché, nel 381, fu esiliato dall’imperatore Graziano (375-383). La condanna all’esilio fu, comunque, condonata di lì a poco e Priscilliano fece ritorno in Spagna, con l’effetto di allargare il consenso intorno alla sua impostazione teologica. Obbligò, a sua volta, Itacio all’esilio e questi si appellò a Massimo Magno Clemente (383-388), che aveva usurpato il trono imperiale con l’assassinio, nel, 383, del legittimo regnante Graziano. Massimo Magno convocò un nuovo sinodo a Bordeaux nel 384, dove Itacio riuscì a far condannare il vescovo priscillianista Istanzio, uno dei principali collaboratori di Priscilliano. Lo stesso Priscilliano si recò di persona a Treviri per appellarsi alla decisione imperiale. Occasione che Itacio non si fece sfuggire: attaccò veementemente Priscilliano e riuscì a convincere Massimo della sua colpevolezza, interessato anche di garantirsi l’appoggio economico e politico della parte cattolica dell’Impero. L’imperatore, nonostante l’intervento di San Martino di Tours, che riteneva che si dovessero convertire gli eretici e non condannarli a morte, accusò Priscilliano di maleficium (o magia) e lo condannò a morte, sentenza che venne eseguita mediante la decapitazione nel 385, insieme ad altri suoi seguaci.

Con questo episodio assistiamo, per la prima volta, all’intervento del braccio secolare in questioni di fede con la condanna alla pena capitale: fino ad allora ci si era limitati ad infliggere punizioni canoniche o, tutt’al più, all’esilio o all’allontanamento da una sede episcopale. L’esecuzione fu oggetto di condanna da parte del mondo cattolico, sia da Papa San Siricio (384-399) che da Sant’Ambrogio. L’ondata di indignazione che ne seguì, portò anche alla deposizione e allontanamento dalla carica vescovile di Itacio e Idacio. Per di più, la condanna a morte di Priscilliano non fece che accrescere la sua popolarità, soprattutto dopo la caduta dell’usurpatore Massimo, quando il suo corpo venne traslato in Spagna. Nel sinodo di Toledo del 400 il priscillianesimo venne condannato nuovamente, ma senza grande successo se prendiamo in considerazione il fatto che, due secoli dopo, papa Gregorio Magno si vedeva ancora costretto a contestare la dottrina priscilliana. Solo dopo il sinodo lusitano di Braga del 563, il priscillianesimo si poté dire definitivamente sconfitto ed estinto.

     

Il pelagianesimo e la predestinazione

Il monaco Pelagio Britannico (354 ca.-420 ca.), con un anticipo di secoli rispetto ad alcuni temi cari alla Riforma luterana, fu il primo a porsi la domanda se l’uomo può salvarsi con le sue sole forze, senza la Grazia divina, o, invece, è predestinato alla salvezza o alla dannazione eterna. Nato in Britannia nel 360 ca., fu un monaco teologo di grande cultura e visse a Roma a partire dal 400, rispettato da molti personaggi dell’epoca, tra cui lo stesso Sant’Agostino, che diverrà, in seguito, uno dei suoi più acerrimi avversari. Durante il suo soggiorno romano conobbe Celestio, un famoso uomo di legge di origini nobiliari, con il quale Pelagio fuggì in occasione del sacco di Roma del 410 da parte dei Goti di Alarico. I due si rifugiarono dapprima ad Ippona, in Nord Africa, e quindi a Cartagine, dove perfezionarono la dottrina del pelagianesimo (o pelagianismo). L’anno successivo si divisero, Pelagio si trasferì in Palestina, mentre Celestio, rimase in Nord Africa, subendo la condanna nel sinodo di Cartagine per il contenuto delle sue dottrine. In Palestina Pelagio scrisse numerosi testi, alcuni dei quali ci sono giunti: una lettera alla nobile romana Demetria, residente a Cartagine, contenente i principi della sua filosofia e il suo De natura, scritto nel 415 e condannato da Sant’Agostino nei suoi scritti De spiritu et littera del 412 e De natura et gratia del 415.

Pelagio criticava, infatti, la teoria della predestinazione elaborata da Sant’Agostino e sosteneva, rifacendosi al pensiero del grande teologo Origene agli inizi del III secolo, che l’uomo poteva, unicamente con la propria volontà (liberum arbitrium) e per mezzo delle preghiere e opere buone, scegliere a suo arbitrio fra il bene e il male, evitare il peccato e giungere alla salvezza eterna, senza l’intervento della Grazia divina (che per lui era semplicemente la natura stessa così come l’aveva creata da Dio). Negava, inoltre, la trasmissione del peccato originale, sostenendo che questo aveva danneggiato solo Adamo e non tutto il genere umano. E non sussistendo il peccato originale, per Pelagio il battesimo era un gesto di accoglimento nella Chiesa (se il bambino moriva senza battesimo, secondo il monaco veniva ugualmente accolto in paradiso). Uomo di severo rigore, predicava anche il distacco dalle ricchezze per condurre una vita evangelica di povertà e castità.

Nel luglio del 415 ci fu un primo sinodo a Gerusalemme, presieduto dal vescovo della città, Giovanni, in cui si cercò inutilmente di condannare la dottrina di Pelagio. Nel dicembre dello stesso anno a Diospolis, venne convocato un nuovo sinodo per la denuncia dei vescovi francesi, Ero di Arles e Lazzaro di Aix. La condanna del pelagianesimo fu, però, possibile solo nell’autunno del 416 quando furono convocati ben due sinodi, il primo a Cartagine, alla presenza di 67 vescovi, e il secondo a Milevi (in Numidia), alla presenza di 59 vescovi. Papa Innocenzo I, in un sinodo tenuto a Roma nel 417, poco prima di morire, confermò la condanna del pelagianesimo. Il suo successore Zozimo (417-418) si incontrò con Celestio che riuscì a convincerlo dell’ortodossia del pelagianesimo, prosciogliendo la dottrina di Pelagio da ogni accusa di eresia.

Nonostante ciò Agostino e i vescovi africani riuscirono a far convocare un altro sinodo Cartagine nel 418, dove, alla presenza di 200 vescovi, vennero condannati vari punti del pelagianesimo e riaffermati i dogmi del peccato originale, del battesimo degli infanti e il ruolo dei santi. Il pessimismo di Agostino, convinto sessuofobo e sostenitore che il peccato originale fosse ereditario e collegato all’atto sessuale, trionfò sulla visione “eroica” dell’uomo di Pelagio, sulla sua facoltà e capacità di scegliere fra bene e male e di operare per la salvezza con le sue sole forze, influenzando profondamente il Cristianesimo dei secoli successivi.

Dopo il sinodo di Cartagine, anche l’imperatore Onorio (395-423) prese le difese degli ortodossi ed emanò, nel 418, un ordine di espulsione dal territorio italiano per tutti i pelagiani e per coloro che non approvassero, controfirmandola, l’enciclica di condanna del pelagianesimo Epistola tractoria, inviata da Zozimo a tutti i vescovi. L’ordine di espulsione non colpì Pelagio che ormai da tempo era tornato a risiedere in Palestina e dove, probabilmente, morì nel 420 ca.

 

Il nestorianesimo

Questa eresia prese il nome dal monaco Nestorio (ca.381- ca.451), che ricoprì la carica di patriarca di Costantinopoli tra il 428 ed il 431. La sua nascita può essere collocata alla fine del 428 quando il presbitero Anastasio, uno dei favoriti di Nestorio, fu protagonista di una disputa teologica con un certo Proclo respingendo il titolo di Theotòkos (in greco, Madre di Dio) che veniva impiegato per la venerazione della Vergine Maria, come previsto nel Concilio di Nicea, dove era stato ribadito la consustanzialità di Cristo e Dio Padre e, di conseguenza, era opinione assai diffusa che la madre di Cristo fosse anche madre di Dio. Anastasio e Nestorio, influenzati dalla scuola di Antiochia, in particolare dagli insegnamenti di Diodoro di Tarso, dove si preferiva dare un maggiore peso alla natura umana di Cristo, ritenevano inconcepibile che una donna avesse potuto generare Dio. Per questo motivo Nestorio, in alternativa, propose il termine Christotòkos (in greco, Madre di Cristo) o Theodòchos (in greco, che riceve Dio). Egli era, infatti, persuaso dalla considerazione che le due nature fossero solo congiunte e che esistessero due persone perfettamente separate nel Cristo incarnato, una divina e l’altra umana. Per Nestorio, quindi, era corretto sostenere che Maria potesse essere chiamata soltanto come “madre di Cristo” e non “madre di Dio”.

Della questione si interessò il vescovo di Alessandria, San Cirillo, che si trovava già in contrasto con altri esponenti della scuola di Antiochia e che, insieme alla Chiesa di Roma, non vedeva di buon occhio il potere e prestigio della sede di Costantinopoli. Informò Papa San Celestino I (422-432) inviandogli una lettera, in cui contestò il pensiero di Nestorio accusandolo di duofisismo, cioè di sostenere la doppia natura di Cristo. Il papa convocò un sinodo nel 430 in cui venne condannato Nestorio e diede mandato a Cirillo di comunicare allo stesso Nestorio la sentenza contraria. L’alessandrino, però, andò oltre all’incarico ricevuto, redigendo di sua iniziativa un elenco di 12 anatemi, che inviò a Nestorio intimandogli che dovesse sottoscrivere di questo documento. Nestorio, ovviamente, non accettò e chiese all’imperatore Teodosio II che indicesse un concilio ecumenico, che venne, poi, convocato a Efeso nel 431. Tra scomuniche e controscomuniche, tentativi di corruzione da una parte all’altra dei due schieramenti, alla fine prevalse la posizione di Cirillo e la dottrina nestoriana venne condannata. Nel concilio venne proclamata Maria Madre di Dio e la natura del Cristo anche umana.  L’imperatore, nel 435, impose l’esilio a Nestorio in un’oasi intorno a Tebe, nell’Alto Egitto, dove morì isolato nel 451 (anno del concilio di Calcedonia).

I Nestoriani si rifugiarono in Persia, dove fondarono la Chiesa Nestoriana, e, riuscendo a inserirsi nella lotta tra cattolicesimo e monofisismo, furono protagonisti di una grande attività missionaria e di proselitismo in India e in Cina, con la conversione di milioni di seguaci, arrivando perfino a consacrare un vescovo a Pechino. Ma con l’invasione del Tamerlano del 1380 e l’espansione dell’islamismo sotto la dinastia Abbasside che portò alla conversione musulmana della Persia, i seguaci del nestorianismo si ridussero a poche migliaia (oggi rappresentati, grosso modo, dai cristiani assiri della Chiesa Caldea fondata nel XVI secolo).

     

Il monofisismo

Il monofisismo fu un’eresia cristologia assai diffusa nell’area bizantina tra il V e il VI secolo, introdotta dal monaco bizantino Eutiche (378-454), archimandrita di Costantinopoli, impegnato in una disputa teologica con Nestorio, eresiarca che affermava la presenza di due persone distinte (l’una divina e l’altra umana) nel Cristo incarnato. Rifacendosi probabilmente a San Cirillo di Alessandria (376-444, Vescovo e Padre della Chiesa) e a Apollinare di Laodicea, secondo Eutiche le due nature di Cristo erano distinte prima dell’incarnazione, ma poi si erano unite in una sola (mónos +physis), quella divina, che aveva assorbito la natura umana, presente solo in forma apparente. Attribuendo al Figlio la sola natura divina, Eutiche, di fatto, negava che la natura di Cristo fosse consustanziale a quella umana. E la conseguenza di questa asserzione era il disconoscimento della passione del Cristo, fatto questo che impedirebbe la possibilità all’uomo di redimersi attraverso di Lui, pregiudicando uno dei capisaldi teologici della dottrina della Chiesa. Per questo motivo il suo pensiero fu denunciato da Domno, Patriarca di Antiochia, e, nel 448, venne condannato come eretico nel Concilio di Costantinopoli, presieduto da San Flaviano, arcivescovo della città.

Il Patriarca di Alessandria, Dioscoro di Alessandria, successore di Cirillo, intervenne nella disputa teologica. Descrittoci come un uomo ambizioso e interessato a indebolire l’influenza del Patriarcato di Costantinopoli per aumentare il prestigio della sede alessandrina, fece convocare, nel 449 a Efeso, un concilio da parte dell’Imperatore Teodosio II (408-450), presieduto da San Flaviano, accusato dallo stesso Eutiche di essere un nestoriano. Questo concilio si svolse in un clima particolare, falsato non solo perché Dioscoro era riuscito a fare sì che i vescovi favorevoli alla questa monofisita fossero in maggioranza, ma soprattutto dalla presenza di monaci di bassa cultura e settari, capeggiati dal monaco monofisita Barsumas, che si resero protagonisti di fatti e episodi violenti: lo stesso San Flaviano fu percosso. Il concilio si concluse, logicamente, dichiarando ortodossa la posizione sostenuta da Eutiche e con la scomunica di San Flaviano. Papa Leone I (Magno, 440-461), informato dai legati pontifici di ciò che era successo, radunò un sinodo a Roma e dichiarò nullo il sinodo di Efeso, definendolo un “latrocinium”, e qualsiasi decisione presa in quel contesto, così imparziale, priva di validità. L’imperatore Teodosio II, in aperto contrasto con la posizione assunta dal pontefice romano, invece ritenne valido il concilio di Efeso e mandò in esilio Flaviano, dove morì di lì a breve.

La morte dell’imperatore Teodosio II, avvenuta nel 450, rimise in gioco gli ortodossi che, grazie all’intervento diretto dell’imperatrice Pulcheria, fervente cattolica, riuscirono a convocare un concilio ecumenico a Calcedonia nel 451, in cui venne condannato il monofisismo, dichiarando che il Figlio era consustanziale al Padre ma anche della stessa sostanza dell’uomo, ovvero una sola persona, o “ipostasi” (divina), quella del Verbo, in due nature permanenti (umana e divina) dopo l’incarnazione. Dioscoro e Eutiche furono esiliati (entrambi morirono esuli nel 454).

Questa condanna, comunque, non impedì al monofisismo di sopravvivere, giungendo fino ai nostri giorni con la fondazione della Chiesa Copta. Basti pensare che, nel 544, l’imperatore Giustiniano, sostenuto da una corte di larghe simpatie monofisite, in particolare l’imperatrice Teodora, emanò l’Editto dei tre capitoli in cui si condannavano come nestoriani tre gruppi di testi antimonofisiti e avversati dai monofisiti (gli scritti di Teodoro Mopsuesteno, morto nel 428, quelli di Teodoreto di Ciro, contro san Cirillo di Alessandria nel V secolo, e una lettera di Iba, vescovo di Edessa). Non solo, ma, nel 553, Giustiniano convocò un concilio a Costantinopoli in cui venne richiesto apertamente di condannare le decisioni del concilio di Calcedonia, obbligando lo stesso papa Vigilio a sottoscrivere il decreto imperiale per la condanna dei tre capitoli.

Dopo la condanna all’esilio di Dioscoro, l’imperatore Marciano (450-457) fece nominare vescovo di Alessandria Protervo, suscitando il risentimento della popolazione egiziana: lo stesso Protervo venne assassinato nel 457. Alla sua morte venne eletto, per acclamazione popolare, Timoteo Aeluro, appartenente alla scuola di pensiero monofisita (distante, però, da quello di Eutiche perché anziché di fusione tra le due nature, divina e umana, di Gesù Cristo, parlava di un’unione come tra corpo e anima). I cristiani egiziani si divisero, in questo modo, in due correnti contrapposte: i cattolici ortodossi, denominati anche Melchiti, fedeli all’imperatore, e i monofisiti che dettero luogo alla Chiesa detta, appunto, Copta, dal termine arabo qubt (copti). Nel 640 anche la Chiesa cristiana di Etiopia, cristianizzata a partire dal IV secolo, venne compresa in quella Copta egiziana, mantenendo, però, usanze diverse, molte di chiara influenza ebraica come la circoncisione, la festività del sabato, la suddivisione delle carni in pure e impure e, più di ogni altra cosa, la tradizione leggendaria della presenza dell’Arca dell’Alleanza nella città di Axum. Il monofisismo si diffuse anche in Siria e in Armenia.

Agli inizi del VII secolo una derivazione diretta del monofisismo fu l’eresia cristologica del monotelismo, elaborata da Sergio, patriarca di Costantinopoli, per ricomporre la disputa teologica tra ortodossi e monofisiti e che sosteneva non tanto un’unica natura di Gesù, ma l’esistenza di una sola volontà (mónos +thélein) in Gesù. Spostando l’accento non più sulla natura ma sulla volontà, l’interpretazione del monoteismo aveva toni più mitigati rispetto alla corrente del monofisismo poiché distingueva la natura umana e la natura divina nella persona di Cristo, ma l’agire della Sua volontà umana nel nostro mondo era stato determinato dalla volontà divina, alla quale era subordinata. Tra discussioni, interminabili dibattiti, interventi da parte degli Imperatori (Costante II arrivò a far arrestare il papa Martino I che fu mandato in esilio, e morì nel Chersoneso), accuse e controaccuse di eresia - sostenere la natura umana di Cristo priva di volontà equivaleva a negare una natura umana come la nostra - fu solo nel III Concilio di Costantinopoli (680-681) che la questione venne risolta, condannando il monotelismo e affermando l’esistenza in Cristo di due distinte volontà, dipendenti ciascuna dalle Sue diverse nature, comunque sempre concordi.

   

I Pauliciani

Il paulicianesimo è un’eresia del VII secolo di tipo dualista derivata dal manicheismo. Il suo inizio
tradizionalmente viene attribuito a Costantino di Manamali nel 655. La dottrina dei Pauliciani si basava sull’opposizione, di chiara derivazione dualista e gnostica, tra Dio, uno e trino, creatore dello spirito e dell’anima, e il malvagio Demiurgo, creatore del mondo materiale. Ammettevano come testo sacro solo il Nuovo Testamento (ad eccezione dell’Apocalisse e delle Lettere di Pietro) ma non il Vecchio e provavano una grande venerazione per San Paolo (da qui, con ogni probabilità, l’origine del nome del loro movimento). Ritenevano, inoltre, che Cristo non fosse veramente nato dalla Vergine Maria e rifiutavano la Sua incarnazione perché credevano che fosse un angelo. Non assegnavano nessun valore alle icone, né ai santi e reputavano inutili sia la mediazione ecclesiastica, sia i sacramenti. Inoltre, non avevano una liturgia ben definita, ma piuttosto dei riti di iniziazione, tra cui anche il battesimo. Sull’esempio di altre sette gnostiche, anche gli aderenti al paulicianesimo erano distinti in “perfetti”, asceti rigorosi nei costumi sessuali e nel cibo, e “uditori” o catecumeni.

Sappiamo che nel 682 Costantino venne ucciso e che il suo stesso carnefice Simeone, un ex ufficiale bizantino, divenne il nuovo capo della setta, ma solo fino al 690, quando venne bruciato sul rogo. Nel secolo successivo, tra controversie e divergenze di opinioni, si avvicendarono alla guida del movimento diversi capi, tra cui un certo Paolo l’Armeno, nome dal quale alcuni pensano che sia derivato il nome stesso della setta. A causa dell’ostilità da parte delle classi dirigenti bizantine e delle guerre con gli arabi, la setta quasi scomparve. Con l’avvento del riformatore Sergio si scisse anche in due correnti, quella dei Sergiti e dei Baaniti, i seguaci del precedente capo Baanes. Sotto la guida di Sergio il paulicianesimo riprese vigore e si diffuse nella Cilicia ed in Asia Minore, anche perché contemporaneamente a reggere le sorti dell’Impero bizantino era la dinastia isuarica, in particolare Niceforo I Logoteta (802-811), i cui rappresentanti, impegnati in una lotta iconoclasta contro il culto delle immagini, tollerarono la presenza di questa setta (soprattutto dopo che i suoi affiliati avevano accettato di prestare servizio militare nelle file imperiali nelle zone di confine con gli arabi).

Con l’avvento, però, della dinastia amoriana, con regnanti come Michele I (811-813), Teofilo (829-842), Teodora (reggente 842-865) e Michele III (842-867), ripresero le persecuzioni nei confronti dei Pauliciani, che, sotto la guida di Karbeas, nel 844 si ribellarono e si allearono con i musulmani, arrivando a formare un piccolo stato nella Turchia nord-occidentale (con capitale la cittadina di Tephrike o Tefrice). Dopo la sua morte, avvenuta nell’863, i suoi successori alla guida di questo precario stato cuscinetto (il cui titolo era “Chrysocheir”, ovvero “mano d’oro”), tra l’863 e l’872, partendo dalla loro roccaforte di Tefrice, si spinsero a saccheggiare tutta l’Asia Minore, creando non pochi problemi alle truppe imperiali, giungendo fino a Efeso e nei pressi della stessa Costantinopoli.

Nell’872 i Pauliciani vennero, però, sconfitti e venne distrutta anche la roccaforte di Tephrike. Nel 970, durante il regno di Giovanni I Zimisce (968-975), le comunità pauliciane sopravvissute al massacro vennero deportate nella Tracia per contrastare le invasioni dei Bulgari. Sotto l’imperatore Alessio I Comneno (1081-1118), fondatore dell’omonima dinastia dei commeni, ci fu la conversione degli ultimi pauliciani. Ma la loro dottrina dualista non scomparve del tutto, in qualche modo sopravvisse nella penisola balcanica e fu uno degli elementi principali che contribuirono alla nascita di altri movimenti ereticali dualisti, primo fra tutti quello dei Bogomili (che tanta parte ebbe nella vicenda dei Catari).

    

     

©2006 Andrea Moneti

     


   torna su

Medioevo ereticale: indice

Home