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di Franco Cardini

Combattimento dell'uccello e del serpente (manoscritto del Beato di Gerona, X sec.) Nell'iconografia cristiana medievale, la lotta tra il serpente e una creatura alata, quasi sempre un'aquila, simboleggia la lotta di Cristo contro Satana.

    

Tre caratteristiche, del resto collegate fra loro, distinguono l’aquila: la sua pertinenza rispetto alle regioni superiori dell’aria e al fuoco uranico (quello del sole e del fulmine), che ne fanno simbolo della volontà e del potere divini; il volo alto, sicuro, dritto e veloce, che la rendono particolarmente adatta a fungere da messaggera degli dei ( e nella tradizione cristiana gli angeli hanno di solito ali d’aquila); la sua natura mediatrice tra cielo e terra che le consente di coprire il ruolo tradizionale dell’animale psicopompo, che accompagna le anime dei defunti verso la loro dimora celeste.

   

Con l'aquila, si ha l'impressione di trovarsi davvero dinanzi a uno di quei simboli-base, «universali» (parola che si usa con incertezza e scrupolo: ma che, talvolta, è pur necessario usare) nel senso che danno l'impressione di essere tipici di molti popoli; di molti tempi e di molte culture: popoli, tempi e culture che poi, incontrandosi, finiscono con il far convergere i loro differenti messaggi pur senza risolvere necessariamente e totalmente ciascuno di essi in tutti gli altri.

È comunque necessario, prima di affrontare il nostro discorso, far preliminarmente notare che non sempre e non necessariamente, quando si parla di animali simbolici, ci si può riferire a delle specie zoologiche reali ed effettive. Ciò è evidente per gli animali favolosi, per i mostri o per i risultati mitici di ibridazioni (come la celebre chimera e il grifone, sintesi di leone e di aquila) che a loro volta si possono qualificare “mostri”. Ma è vero anche per animali che, in apparenza, rientrano nelle nostre comuni se non quotidiane esperienze. Nel caso dell'aquila - e di un volatile mitico che ha molto a che fare con essa ma di cui bisognerà occuparsi a parte, la fenice - queste osservazioni risultano di particolare importanza. Difatti, sotto il profilo simbolico l'aquila va assimilata a tutti quegli uccelli grandi, forti e dotati secondo le differenti tradizioni di uno speciale rapporto con il mondo uranico, determinato anche, ma non esclusivamente, dalla loro natura di esseri alati: il vedico Garuda, il falco e l'avvoltoio dell'antico Egitto, il condor andino, per certi aspetti il condor germanico e, nella tradizione cristiana, gli stessi angeli, condividono con l'aquila una serie di caratteristiche e talora possono identificarsi con essa: per contro, talora vengono qualificati a livello iconologico-araldico-simbolico «aquile», volatili che non hanno in realtà alcun elemento zoologico specifico che consenta una qualificazione del genere, ma lo statuto mitico-leggendario dei quali rinvia, appunto, all'archetipo di esse.

Tre caratteristiche, del resto collegate fra loro, distinguono quindi l'aquila: la sua pertinenza rispetto alle regioni superiori dell’aria e al fuoco uranico (quello del sole e del fulmine), che ne fanno simbolo della volontà e del potere divini; il volo alto, sicuro, dritto e veloce, che la rende particolarmente adatta a fungere da messaggera degli dei (e nella tradizione cristiana gli angeli hanno di solito ali d'aquila); la sua natura mediatrice fra cielo e terra, che le consente di coprire il ruolo tradizionale dell'animale psicopompo, che accompagna le anime dei defunti verso la loro dimora celeste.

Già quest'ultimo elemento, - correlabile peraltro ai primi due - consentirebbe una prima osservazione: il culto dell'aquila dovrebbe impiantarsi presso i popoli incineratori più spesso e più profondamente che non presso i popoli inumatori, che possono semmai averlo ricevuto indirettamente. D'altronde, quel che sappiamo sulla migrazione dei simboli ci induce a essere molto cauti in affermazioni del genere, che potrebbero risultare viziate da un pericoloso determinismo. Difatti l’aquila si pone in rapporto con una delle due regioni tradizionalmente sentite come «Aldilà», il cielo; e la vediamo spesso in lotta, difatti, con l'altro animale caratteristico per il suo rapporto con l'Aldilà e i defunti (ma un animale ctonio, che la tradizione cristiana ha demonizzato), il serpente. Le due forme di Aldilà, l'uranica e la ctonia, peraltro, come ben sappiamo, non si escludono, bensì semmai si completano a vicenda: e se l'aquila si eleva in volo dalla pira funebre degli imperatori romani ai quali spetta l'apoteosi, e ne conduce l'anima in cielo accanto agli dei, le ceneri spettano comunque alla terra.

Nello sciamanesimo centroasiatico e amerindo, caratterizzato dal culto uranoteistico e dalla pratica sciamanica, l’aquila è, non a caso, la protagonista appunto del rapporto tra il Supremo Essere celeste e lo sciamano, il quale è in grado di evocare i morti e di visitare le regioni cosmiche. Secondo un mito siberiano, l’Aquila scese un giorno, In illo tempore, sulla terra tormentata dai demoni: su ordine del Supremo Essere si unì a una donna e generò così l’essere in grado di cacciare i demoni e di salire al cielo, lo sciamano.

Questi è, appunto “figlio dell’aquila”: si adorna delle sue penne per volare in cielo (la barca tirata dall’aquila è il veicolo tradizionale dell’estasi) e per, scendere negli inferi. Presso gli indiani delle praterie americane, le penne d’aquila sono ornamento del diadema dei capi e un  bastone alla cima del quale è legata una penna d’aquila, è considerato medicina contro le infermità.

Ancora dall’Asia ci perviene un simbolo da collegarsi probabilmente alla funzione uranica e divina dell’Aquila: sulla cima dell’Albero Cosmico, simbolo dell’Asse universale che collega le aree cosmiche del sottoterra, della terra e del cielo e posata un’aquila sovente raffigurata bicipite. Una colonna sormontata da quest’animale si trova in cielo, dinanzi alla dimora del Supremo essere: essa è la colonna “che non invecchia né cade” simbolo dell’ordine cosmico
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Le due teste, poiché guardano ai due lati opposti del mondo (cioè con ciascuno dei quattro loro occhi, a tutti i punti cardinali), possono forse alludere simbolicamente all'onniveggenza divina; ma è probabile che - un po' come tutti i simboli doppi (i Gemelli, i Dioscuri, il dio Giano, l'ascia bipenne, la coppia biblica Jakin-Bohaz: quella mitriaca Cautes-Cautopates) - alluda alla bipolarità propria dell’onnipotenza, che è capace di vivificare e di distruggere, di creare e di annientare. Nel Dio cristiano queste due caratteristiche sono simboleggiate - nelle scene medievali di Giudizio Universale - nell'atto supremo del Cristo-Giudice, che atteggia la mano destra a un cenno di benevolenza e di perdono (Venite benedicti patris me!) e la sinistra a un gesto di condanna (Discedite maledicti).

L'aquila mantiene non a caso, in quanto simbolo divino e quindi regale - particolarmente adatto a qualificare le «monarchie sacre», pertanto anche quella imperiale cristiano - il suo carattere di uccello della giustizia, che può innalzare nell’apoteosi o scendere piombando sul reo come l'aquila sulla preda. I caratteri aquilini della giustizia e dell'onnipotenza di Dio sono ben rammentati nella poesia medievale e moderna. Dante, nel Paradiso, raffigura gli Spiriti giudicanti in atto di comporre con le loro luci nel cielo di Giove la scritta Diligite iustitiam qui iudicatis terram e di raccogliersi poi nella grande «m» ( che andrà immaginata come una «m» gotica maiuscola o unciale) che gradualmente si trasforma in un'aquila.

Il Manzoni, nel Cinque Maggio, allude alle caratteristiche «aquiline» di Dio, supremo giustiziere capace (secondo le parole del Magnificat) di esaltare e di deporre chi vuole, dicendolo «Iddio, che atterra e suscita, che affanna e che consola...»; e non a caso questo Dio-aquila viene avvicinato al personaggio storico che, fra quelli degli ultimi due secoli, più direttamente si è identificato con l'aquila. Una stampa popolare diffusa al tempo dei Cento Giorni raffigurava Napoleone che tornava dall'Elba in Francia volando a cavallo di un'aquila: e con ciò riprendeva esattamente il tema iconico delle apoteosi imperiali d'età romana, dove l'aquila trasporta sul dorso l'imperatore chiamato a prendere il suo posto accanto agli dei. Per contro, il Carducci della Leggenda di Teodorico, volendo dar l'idea dell'inesorabile piombare della giustizia di Dio sugli empi, dice: «e terribile scendeva - Dio sul capo al goto re». È un'immagine che richiama, per celerità e potenza, il saettare dall'alto in basso dell'aquila che scende a ghermire la preda, oppure lo schiantarsi repentino del fulmine.

Ma aquila e fulmine, entrambi messaggeri della divinità uranica, sono sovente associati e identificati: l'antica leggenda vuole che l'aquila sia l'unico uccello al quale il fulmine non può nuocere, e l'aquila legionaria romana reca tra i rostri una folgore. Giove ha appunto aquila e fulmine come suoi specifici attributi.

Uccelli teofori, messaggeri degli dei luminosi del cielo, psicopompi, combattenti contro le forze oscure del sottosuolo: questi i caratteri di base dei grandi volatili che - a parte le loro caratteristiche zoologiche, non sempre, come si è detto, chiare - possono essere assimilati all'aquila. Saranno ad esempio Garuda, l'aerea cavalcatura di Vishnu nel mondo indiano; o le aquile che affrontano i serpenti i quali a loro volta le avvolgono nelle loro spire, un simbolo di lotta fra energie dell'aria e della luce e forze striscianti sottoterra e nelle tenebre che si riscontra un po' dappertutto, dall’ America precolombiana (e nel Messico azteco una società iniziatica guerriera sarà quella che gli spagnoli chiameranno dei «cavalieri dell’aquila») sino alla simbologia cristiana, dove la lotta fra aquila e serpente acquisterà una caratteristica valenza di pugna spiritualis: l'aquila-Cristo contro il serpente-demonio, oppure l'aquila come anima del fedele in lotta contro la tentazione e il peccato.

Ma un tema iconografico remoto, anch'esso d'origine centroasiatica, presenta l'aquila che tiene fra i rostri una preda e rinvia a un contesto di vittoria sulle forze inferiori; così l'aquila che artiglia la lepre (la leporaria già ricordata da Plinio il Vecchio, un simbolo prediletto da Federico II: in quel contesto, la lepre ha un significato diabolico che la rende simbolo adatto, per esempio, all'eresia; se n'è ricordato il Carducci nella «lepre nera» della sua Faida di comune), oppure l'aquila che sottomette, ben stretto nei rostri, il drago.

Quest'ultimo simbolo ha una vicenda araldica molto particolare e interessante. L 'aquila divenne con decisione il simbolo del Sacro Romano Impero soltanto nel XII secolo, quando Federico Barbarossa - attingendo sia alla tradizione carolingia (Carlomagno aveva decorato con un'aquila romana il fastigio della sua dimora in Aquisgrana) sia a quella romana (e può darsi che l'adozione di tale simbolo gli fosse stata consigliata, in tal senso, dai giuristi di Bologna) - l'adottò nel suo sistema di segni destinati a qualificare il suo concetto di «monarchia sacra». Da allora in poi, però, l'aquila divenne anche patrimonio dei fautori degli Hohenstaufen e quindi del partito ghibellino: il che obbligò gli avversari di esso, i guelfi, a scegliere come loro arme l'altro «re degli animali», il leone.

Tutto ciò poteva andar ancora bene - ma Dante rivendicava il diritto del «santo segno» a dover ergersi sulle parti in conflitto, e l'illiceità di chiunque se ne appropriasse per degradarlo a distintivo di fazione - finché l'impero era nelle mani d'una dinastia ghibellina; ma al contrario esso si trovava talora in quelle di un casato guelfo (cioè originariamente connesso con i duchi di Sassonia-Baviera) e allora le cose si complicavano. Accadde così, ad esempio, ai primi del Duecento con Ottone IV di Brauschweig, che apparteneva appunto alla famiglia dei Welfen, eponimi del partito guelfo: come imperatore, egli non poteva rinunziare all'aquila ch'era sentita ormai come il simbolo stesso dell'impero; ma, come guelfo, non poteva accedere all'aquila ghibellina. Egli concepì dunque un'arme araldica nuova, che rappresentava un 'aquila in atto di artigliare un drago (a sua volta simbolo dell'eresia: e la propaganda guelfa voleva che eretici fossero i ghibellini). Ottone IV fu sconfitto nella battaglia di Bouvines, e sull'impero tornò a dispiegarsi l'aquila nera degli Svevi: ma di lì a poco i guelfi fiorentini, fondando la loro organizzazione di partito detta appunto «Parte Guelfa» avrebbero resuscitato l'insegna di Ottone e l'avrebbero fatta propria con alcune varianti: un'aquila rossa in campo bianco (i colori di Firenze) in atto di artigliare un drago di color verde (il verde ha, tra i suoi molti significati, anche un negativo, che lo imparenta al demonio e all'eresia).

L'aquila imperiale romana, l'aquila trionfale messaggera di Zeus, da dove proviene? La risposta a questa domanda è complessa, e forse la storia di questo simbolo divino e regale non è stata ancora scritta del tutto. Certo è che esso proviene dall'Asia, probabilmente - in origine - dalla parte centrale di quel continente: ma si è diffuso ben presto nel vicino oriente, dove lo troviamo presso i popoli semiti non meno che fra quelli indoeuropei. è simbolo di potere babilonese, persiano, microasiatico; dalla fine del II millennio a.C. si diffonde soprattutto in Asia minore in seguito all'arrivo degli Ittiti, che inalberano specialmente quell'aquila bicipide che più tardi gli imperatori bizantini faranno propria; gli eserciti di Alessandro lo incontrano in Asia e lo importano nel Mediterraneo, dove i Tolomei lo sostituiranno al più tradizionale falco nel loro impero greco-egizio.

Il mito più celebre riguardante le funzioni dell'aquila quale messaggero di Giove - o metamorfosi scelta da quello stesso dio - è d'origine prima che greca, frigia o comunque appartenente all'area degli Indoeuropei che popolavano la penisola anatolica. è la medesima area dalla quale ci pervengono tante figure aquiliformi sul piano iconologico e alla quale (si pensi al Monte Ida, la montagna sacra di Zeus) è per molti versi connesso lo stesso culto uranico del "padre degli dei". Ganimede, figlio del re Troo fondatore di Troia, era il più bel ragazzo della terra: Zeus, invaghitosene, lo rapì assumendo la forma dell'aquila per farne il suo amante e il suo coppiere donandogli l'immortalità e la giovinezza eterna. Al padre Troo, per risarcirlo della perdita del figlio, furono donati un tralcio di vite in oro, opera d'Efeso, e due bellissimi cavalli. In seguito Ganimede, avendo eccitato l'ira gelosa di Hera e di sua figlia Ebe, la divina coppiera che si trovava esautorata dal bel giovane, fu da Zeus posto fra le costellazioni (è l'Acquario).

Come tutti i miti, questo conosce molteplici varianti. Nelle Troiane di Euripide il padre di Ganimede è non già Troo, bensì Laomedonte. Un parallelo celtico, il mito di Lugh (Llew Llaw nei Mabinogion) l'anima del quale ascende al cielo sotto forma di aquila dopo che il suo "doppio" l'ha ucciso in estate per sostituirsi a lui, precisa la realtà sacrale sottostante al mito: siamo di fronte a una sorta di figura del rex unius dei, il "re d'un giorno" che viene poi sacrificato, e quindi al ciclo regalità-apoteosi. L'aquila è qui simbolo di potere regale e al tempo stesso di divinazione: la regalità sacra ne esce completamente rappresentata. Il grande volatile sottolinea non solo l'ascensione, bensì il rinnovamento della vita simboleggiato dall'esperienza eterna e divina. Ascendere al cielo e rinnovarsi. Queste le caratteristiche mitico-simboliche dell'aquila.

Ma, prima di affrontare questa che è il nucleo simbolico della figura dell'aquila, volgiamoci un istante a Plinio e facciamo il "punto" sulle conoscenze scientifiche dell'antichità, che passeranno ai bestiari medievali. Secondo il grande naturalista, dunque, esistono sei specie d'aquila: e la rassegna di esse inizia dal melanaetos, "aquila nera", che è forse identificabile con l'aristotelico lagophònos, "aquila delle lepri"; del resto, anche riguardo all'aquila Plinio segue abbastanza fedelmente Aristotele, ma è abbastanza difficile riconoscere le specie citate dal naturalista latino, che forse considera aquile anche alcuni tipi di avvoltoi. Tra questi volatili, è citato come particolarmente degno di nota l'haliaetos, l'"aquila di mare", che cattura i pesci buttandosi in mare con un volo in picchiata e poi li solleva in alto (i bestiari medievali la raffigureranno spesso come simbolo del Cristo che sottrae l'anima del fedele dal mare dei peccati). Dello haliaetos si dice che obblighi i figli implumi a guardare fisso il sole e che caccia come bastardi quelli che non ne sostengono la vista.

Plinio raccoglie anche la leggenda secondo la quale alcune aquile ingloberebbero nel proprio nido la pietra aetites, che sarebbe utile per molti farmaci e non perderebbe il suo potere neppure se fosse posta sul fuoco; si tratta di una pietra che al suo interno ne racchiude un'altra, a mo' di utero che sia gravido; forse per questo, con un consueto procedimento analogico, si considerava l'aetite un rimedio utile contro i pericoli di aborto. Altre leggende raccolte da Plinio indicano che l'aquila non muore mai di vecchiaia bensì di fame, perchè il becco le diviene adunco tanto da impedirne di assumere il cibo; e che nessuna aquila è stata uccisa dal fulmine.

La storia dell'aquila come insegna militare necessiterebbe un capitolo a parte. è incerto se essa abbia origine etrusca, com'è possibile (e allora la si dovrebbe collegare al quadro della divinazione mediante volo degli uccelli, l'augurium, o mediante l'interpretazione dei fulmini) oppure persiana. Sono stati Vegezio e Festo a farci la storia delle insegne militari romane, e sappiamo del resto che gli stessi persiani usavano l'aquila in un simile contesto. Sallustio ci informa, ad ogni modo, che Caio Mario usò per la prima volta l'aquila come insegna nella guerra contro i Cimbri: e Plinio, che di cose militari se ne intendeva, assicura che fu appunto lui, al tempo del suo secondo consolato (nel 103 a.C.) a servirsi dell'aquila come insegna delle legioni, favorendone l'ascesa rispetto ad altri quattro animali che fino ad allora, con essa, erano stati utilizzati quali insegne: il lupo, il minotauro, il cavallo, il cinghiale. L'inimicizia con il serpente e la forza, la generosità, la benevolenza rispetto agli uomini, sono altre caratteristiche aquiline che si colgono nelle pagine di Plinio.

Che l'aquila sia uccello di Zeus e insegna delle legioni, e che da ciò abbia tratto il suo statuto di simbolo primario dell'impero romano (e quindi anche di quello bizantino, czarista e romano-germanico, che in un modo o nell'altro si riallacciano a tale tradizione), è cosa che quanto abbiamo fin qui detto sarà sufficiente, ci sembra, a illustrare. Il sacro volatile diviene con ciò simbolo di potenza, di sapienza (la vista acutissima, fino a guardare il sole), di giustizia; il suo collegamento con la divinità uranica e il "fuoco celeste" del fulmine le dà un'aura sovrannaturale.
Ma ciò non basta ancora a spiegare come il suo statuto sia passato a connotare tanto positivamente la stessa simbologia cristiana, che usa l'aquila nel Tetramorfo e attribuisce ali aquiline agli angeli (cosa questa, trattandosi di messaggeri, più facile a intendersi in connessione con la stessa mitologia greca). C'è evidentemente qualcosa di più, passato dal mondo vicinorientale alla Bibbia e da lì diffuso al nostro medioevo.

«Si rinnoverà la tua giovinezza, come quella dell'aquila», dice il salmo 102. Già in Ganimede abbiamo veduto il rapporto tra giovinezza (e bellezza) e aquila, in un contesto che può intendersi come di morte e di resurrezione: dalla terra al cielo. Così commenta il Physiologus, padre dei bestiari medievali: l'aquila «quando invecchia le si appesantiscono gli occhi e le ali, e la vista le si offusca. Che cosa fa allora? Cerca una fonte d'acqua pura, e vola su nel cielo del sole, e brucia le sue vecchie ali e la caligine dei suoi occhi, e scende nella fonte, e vi si immerge tre volte, e così si rinnova e ridiventa giovane».

Prosegue il commento: allo stesso modo dell'aquila deve agire l'uomo, che individuata la Parola di Dio quale «fonte d'acqua viva» - come dice il profeta Geremia (2,13) - deve ascendere fino al «Sole di Giustizia» ch'è Gesù Cristo, e lì spogliarsi dell'uomo vecchio (le penne usurate, gli occhi offuscati dalla caligine: penne e occhi, volo e vista, come simbolo di anima e intelletto) e quindi immergersi nella fonte della parola divina tre volte, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Anche in questo come in qualunque altro caso, i bestiari hanno suggerito una quantità di variabili nel commento del simbolo: ma, come ad esempio vediamo nel Libellus de natura animalium, l'interpretazione che prevale è quella che indica nella penitenza e nel battesimo i caratteri del simbolo adombrato dal rogo delle vecchie penne e dal triplice lavacro: insomma, il recupero della giovinezza aquilina come conversio.

Altri bestiari, come quello di Cambridge o quello di Gubbio preferiscono sottolineare il mito della "prova del sole" al quale l'aquila secondo Plinio sottopone i piccoli, per indicare come l'uomo, se davvero vuol essere figlio di Dio, debba costantemente figger lo sguardo nel Cristo Sole di Giustizia. Il rapporto fra il Cristo, il Sole, l'aquila e l'angelo è stato ben circostanziato da Marcello Fagiolo nel suo commento, magistrale, al mausoleo di Teodorico a Ravenna: dove la finestra orientale cruciforme indica il Christus-Sol-Lux mentre le decorazioni stilizzate a forma di ankh egizia, la crux ansata, rinviano a figure angeliche, cioè esseri dall'aspetto umano ma forniti di ali d'aquila. Il rapporto fra ankh, sole ed aquila, già presente nella simbologia culturale proposta dal faraone Akenathon, torna nel mondo medievale: lo si può verificare nell'affresco paleocristiano, forse del V secolo d.C., a Bouit in Francia, dove un'aquila che stringe nel becco una crux ansata è stata interpretata come possibile simbolo cristologico.

Se l'aquila è attributo divino, ma d'altro canto può essere interpretata anche come messaggero di Dio e come uomo stesso che ascende verso il Sole di Giustizia, non ci si può sottrarre dal vedere in essa anche un possibile simbolo dell'Uomo-Dio. Tale simbolo, per la verità, è preferibilmente adombrato in una creatura mitica, ibrida di aquila e leone, i due animali nei quali si ama riconoscere il principio divino e quello umano: in tal senso il grifone è simbolo del Cristo nel Purgatorio dantesco.

Tale simbolo è peraltro introdotto da Dante in un contesto simbolico molto denso, che rinvia all'Apocalisse e per suo tramite alla visione del profeta Ezechiele. Dei quattro "Viventi" che stanno ai piedi del trono dell'Altissimo in figura di esseri alati (il Tetramorfo, appunto), accanto all'aquila troviamo il toro, il leone e l'uomo: ed è stato notato più volte non solo che si tratta appunto dei quattro animali le forme dei quali, variamente combinate, offrono di frequente i loro corpi ai demoni alati assiri e babilonesi (il che costituisce se non altro un punto fermo d'ordine simbolico-iconologico), ma anche che si tratta dei quattro animali-emblema sotto i quali sono raggruppati le dodici tribù di Israele.

Nei successivi ricchissimi commenti che il Tetramorfo ha suscitato, a partire da quello di sant'Ireneo tra II e III secolo, si è visto nei quattro Viventi i simboli dei quattro evangelisti (a Giovanni spetta l'aquila), ma anche dei quattro punti cardinali, dei quattro elementi e via dicendo. Infine, nel XII secolo, Ildeberto di Lavardin ha veduto nel Tetramorfo quattro attributi del Cristo e della sua esperienza nella Rivelazione: Uomo in quanto vive, Toro in quanto viene sacrificato, Leone in quanto risorge vittorioso, Aquila in quanto ascende al cielo.

Nella tradizione araldica, l'aquila è - insieme con l'orso di ascendenza celtico-germanica e il leone di tradizione romano-mediterranea - un "re degli animali". Divenuta arme imperiale romano-germanica stabilmente a partire dal XII secolo, essa è diffusa nelle insegne araldiche nobiliari soprattutto in  Austria, Svizzera e Italia Settentrionale.

                                   

      

© Franco Cardini. Articolo pubblicato per la prima volta sulla rivista Abstracta n° 13 (marzo 1987), pp. 38-43, riprodotto per gentile concessione dell'autore che ne detiene i diritti. 

   


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