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VERNIO, ROCCA

a cura di Fernando Giaffreda

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In alto: la rocca di Vervio in mezzo alla Vallata e in posizione dominante. In basso, a sinistra: l'ingresso al cortile; a destra: ciò che rimane dell'antico portale d'ingresso alla cortina muraria.

 

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La rocca di Vernio con il paese sottostante  Questa è la via d'accesso al castello di Vernio  Il cartello cronostorico eretto dall'attuale proprietà al limite della residenza privata  I resti del contrafforte murario alla porta d'ingresso  Particolare del portale d'ingresso al recinto castellare  Il portale d'ingresso non c'è più...

 

La via interna al piccolo borgo castellare  La via interna al borgo e sullo sfondo la cappella Sant'Agata  La Cappella Sant'Agata  La targa commemorativa affissa alla cappella Sant'Agata  Proseguendo, si giunge al portale del cortile  L'ingresso al cortile rifatto alla secentesca


Epoca: secolo X-XI, per opera della preesistente gens comitale longobarda dei Cadolingi, infeudata da Carlo Magno come conti di Pistoia e di Fucecchio, estintasi nel 1113.

Ubicazione: in alta Val di Bisenzio, prima del valico di Montepiano sugli Appennini tosco-emiliani, in provincia di Prato, stretto a ovest dal Poggio Cattarelle (1009m) e ad est dai Monti della Calvana (916 m). Il castello di Vernio è situato a 470 m d’altezza lungo la SS 325 Prato-Bologna, distante 25 km circa dal capoluogo provinciale. Nel sottosuolo passa la galleria ferroviaria più lunga d’Europa, la Vernio-S. Benedetto V.d. S. (18.510 m).

Stato di conservazione: metà ottimamente restaurato e abitato dal proprietario, F. Santellocco-Gargano; l’altra metà in stato meno sistemato ma in corso di restauro.

Come arrivarci: essendo proprietà privata, il castello di Vernio è visitabile in maniera soddisfacente anche dall’esterno. Quando c’è, il proprietario è solitamente disponibile ad accettare le visite occasionali. È prevista sempre una visita guidata al «castello dei Conti Bardi» nel corso della ricorrente «Festa della Polenta» (o della Miseria), indetta ogni prima domenica di Quaresima dalla locale Società della Miseria col patrocinio del Comune, per ricordare la «carestia» del 1512 alleviata dai feudatari imperiali, i conti Bardi di Vernio, con la distribuzione di farina di castagne alla popolazione affamata.

  

Cenni storici

«Castrum hibernum», generalizzato poi col neutro plurale «hibernia», era l’«accampamento invernale» che nel I secolo a. C. l’esercito di Gaio Giulio Cesare insediò nell’acuto di questa valle fluviale modellata a trivio, in preparazione della conquista della Gallia cisalpina (1) . Un luogo per svernare dunque, un ibernacolo per l’attesa della primavera: pare questo il significato e l’origine pratica del nome di Vernio, territorio e poi contea cui la storia successiva avrebbe riservato avvenimenti celebri e disconosciuti ad un tempo.

Ma intanto nel nome di Vernio risuona anche un altro termine eloquente delle sue caratteristiche naturali, questa volta non latino ma volgare illustre: «verno». Più d’un «inverno primaverile» infatti è dato passare in questo singolare angolo esposto egregiamente «a toma» (2), nella luce del basso sole invernale di ogni nuovo anno che venga misurato col calendario antico romano.

Il sito è particolarissimo e raro dal punto di vista dell’orografia fluviale. Qui si forma come torrente il Bisenzio, fiume di 55 km ancor oggi considerato incerto nel punto esatto di nascita, ma di fatto incanalato a due sensi (3) nello scorrere prima da sud a nord sgorgando come «trogolo» dal Monte Bucciana (m 1223) e dal Poggio Cattarelle (m 1009), poi da nord a sud decisamente, partendo da Vernio distinto e netto. Dante ce l'offre nel penultimo canto dell’Inferno, il XXXII, vv. 55-60, come una sorgente che si dichina in questa valle donde furono originari (e conti) i fratricidi Alessandro e Napoleone Alberti:

Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.

D'un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d'esser fitta in gelatina
.

Codesto dichinamento dunque ha luogo grazie all’insinuarsi da nord del «monte piano» che, come una piastra a cuneo, determina quella confluenza triviale di diversi rii che dà forma al Bisenzio vero e proprio, in località S. Quirico, dove ora è il centro comunale, col suo settecentesco palazzo municipale (il Casone) e la chiesa rettoria dei santi Leonardo e Quirico di Vernio.

Su questo colle sovrastante il centro del paese si erge appunto il castello di Vernio, detto anche Rocca, una fortificazione altomedievale che impropriamente viene situata e fatta coincidere con la frazione di Sasseta solo perché da lì c’è una delle possibili vie d’accesso carrabile.

Finite le guerre galliche, gli insediamenti militari cesarei furono assegnati in colonia alle popolazioni stanziali per la conduzione delle attività possibili: agricoltura montana e pastorizia, nonché produzione di legname, materiale trasportato a fondovalle in parte col Bisenzio stesso e in parte lungo la modesta diramazione valbisentina della Cassia Clodia, adoperata per la congiunzione alla consolare Emilia. Molto tempo dopo, con il crollo dell’impero romano e le invasioni barbariche, così determinanti per la futura fisionomia del luogo, in ispecie quella dei Longobardi, i quali com’è noto si spinsero oltre l’Appennino dopo la presa di Pavia (572), la valle di Vernio si popolò ulteriormente fino ad assumere le caratteristiche proprie dell’economia curtense, costituita da famiglie di coloni e pastori organizzate in mansi e sottoposte al launegild, il tributo introdotto da quel popolo invasore per lo sfruttamento del suolo libero. Per la particolarità orografica del luogo si hanno a costruire in questi siti le prime gualchiere, che insieme ai mulini (4) daranno vita alle originarie attività di trattamento e lavorazione della lana grezza. I lambardi qui svilupparono ulteriormente la pastorizia romana, introducendo come novità l'allevamento del bufalo, del suino e l'apertura di una serie di tratturi per condurre a valle greggi e armenti durante l'inverno. La località di Sasseta in particolare si distinse come posta alpestre di passaggio agli itinerari di transumanza, attraverso i monti della Calvana fino alla piana di Prato e Firenze.

È stato poi Carlo Magno, non ancora imperatore e che le cronache assicurano aver trascorso il Natale del 786 a Firenze, a insediare in Toscana, in particolare nella valle del Bisenzio (Vernio) e nel Mugello (Mangona) i vari gruppi comitali dei Guidi, degli Alberti e dei Cadolingi, assegnando loro grandi estensioni di terre intorno alle vecchie colonie romane, confermandogliele successivamente con diplomi e sigilli imperiali.

Nel 915 il re longobardo «d'Italia» Berengario I, nell'ansia e nel bisogno di assicurarsi una base signorile legittima nella precaria situazione di «anarchia politica» creatasi nel regno italico dopo la mancata discendenza diretta dei Carolingi, conferma ai Cadolingi il possesso, fra l'altro, delle terre toscane della valle del Fiumenta, dell'alta valle del Bisenzio e della zona piana e alluvionale nei pressi dei «campi» di Bisenzio, dove costoro poco più in là si apprestano, già prima del 998, col loro capostipite Bonifazio, ad edificare su un preesistente tempietto pagano l'attuale Badia a Settimo, un oratorio comunitario trasformato nel 1004 in monastero dal rampollo cadolingio Lotario. La costruzione delle pievi (fonti battesimali e pivieri) che in pieno periodo romanico caratterizzano l'impopolamento di tutti questi luoghi, interessa anche la zona di Vernio, dove l'eremita «beato Pietro» e un cospicuo gruppo di religiosi e laici attratti dalla santità sua fondarono, intorno al 1095, un piccolo monastero che oggi è la Badia di Montepiano, del quale Pietro appunto fu il primo abate di estrazione cluniacense.

È difficile stabilire se l'incastellamento di Vernio sul preesistente ibernacolo romano, ad opera degli «autorizzati» Cadolingi, sia dovuto al bisogno di protezione militare e difesa «urbana» avverso le incursioni degli Ungari, i quali pare abbiano raggiunto anche parte dell'Appennino subpadano; o, al contrario, alla manifestazione politica sul posto del nuovo potere signorile, affermatosi in questo caso pienamente proprio dopo la dissoluzione del sistema di dominio carolingio. Forse si potrebbe protendere più per la seconda ipotesi a ben considerare il perimetro del recinto castellare della Rocca di Vernio, in definitiva non così ampio da contenere a ragion veduta un numero proporzionato di famiglie ammansite, oltremodo bisognose di protezione e in fuga dai poderi diventati insicuri. I Cadolingi fra l'altro, specie nelle persone di Lotario e Uguccione, caddero in disgrazia per essersi schierati contro il «riformismo» di Gregorio VII durante la lotta delle investiture, il quale aveva preteso, con i suoi Dictatus papae emessi nel sinodo del 1075, che il pieno riconoscimento di ogni potere politico, anche delegato, dei sovrani (in particolare Enrico IV imperatore) fosse sua prerogativa esclusiva per sancirne la validità. Uguccione fu anche scomunicato prima del 1085, travolto dalla discesa della marchesa Matilde di Canossa dalla Val di Bisenzio su Prato, la quale distrusse i castelli e le postazioni filoimperiali dei Cadolingi e degli Alberti. Il che portò la famiglia alla rovina e all'estinzione, data per definitiva nel 1113, stesso anno in cui i Fiorentini, fin dall'inizio allineati dalla parte del papato per assicurarsi la propria libertà mercantile, insorsero a bella posta contro il vicario imperiale insediato a Firenze.

In quel 1113 l'estinzione dei primi feudatari di Vernio si ebbe per via del matrimonio della contessa Cecilia, vedova di Uguccione dei Cadolingi, con il conte Bernardo Tancredi degli Alberti di Prato, soprannominato il Nontigiova, il cui fratello, Gottifredo Alberti, fu vescovo di Firenze dal 1114 al 1142 (5). Con quelle terze nozze di lei, Bernardo acquisì la dote dei possedimenti di Vernio e castello, che già era epicentro di una vasta zona infeudata, costituita da alcuni popoli riuniti intorno a una fitta catena di pievi romanico-lombarde: Cavarzano, Luciana, Montecuccoli, Sant'Ippolito, San Quirico, Usella ecc.

«Conti rabbiosi» sono stati definiti dunque gli Alberti, nuovi signori di Vernio dal 1113, forse per l'impeto della loro cupidigia nel fare incetta di terre, titoli e feudi non trascurando per questo il ricorso alla prepotenza, all'intrigo e al delitto. In pochi anni essi riuscirono a formare in Toscana, anche per via di matrimoni morganatici e di concessioni imperiali, un loro stato feudale abbastanza esteso, sia pur frammentato e discontinuo, che andava dall'Appennino bolognese fino alla Maremma, entrando inevitabilmente in conflitto con le municipalità cittadine e le feudalità ecclesiastiche. Nel 1164 Federico il Barbarossa rinnovò al figlio del Nontigiova, Conte Alberto, uno dei tanti comites omonimi succedutisi in quel paio di secoli, l'investitura dei feudi di cui era stato privato il suo avo Alberto senior ad opera di Matilde di Canossa la Margravia, a colpa di non essersi quello a suo tempo voluto riconoscere feudatario sottomesso della Chiesa gregoriana. Nove anni prima, nel 1155, l'arcicancelliere di Federico I per il regno d'Italia, tale Arnaldo arcivescovo di Colonia, aveva emesso un privilegio per il possesso delle terre toscane a favore degli Alberti. I feudi confermati in quel diploma, tanto importante da esser ripescato come si vedrà nel XVIII secolo a prova di causa legale intentata e vinta dai Bardi, comprendevano ovviamente anche Vernio, ma vi si annoveravano pure i castelli posti sul versante bolognese, quali Mandorla, Treppio, Torri, Fossato e Monticelli.

Ma rabbiosi gli Alberti lo furono forse proprio per il famoso fratricidio (la Caina) citato da Dante e di cui sopra si sono riportate a riferimento le due famose terzine. Tutto dipende insomma da quell'«ingiusto testamento» del 4 gennaio 1250, rogato nel palazzo comitale di Vernio in «stile comune» da ser Guido, notaro imperiale, alla presenza di molti testimoni delegati da Prato, Firenze, Baragazza, dove il Conte Alberto di turno, pare il quinto (V) della serie, figlio di un omonimo e della contessa Tabernaria, assegna in primo luogo la dote alle figlie Beatrice e Margherita in rispettive 900 e 100 lire pisane, e poi nomina usufruttuaria della corte e del castello di Vernio la moglie morganatica Gualdrada, stabilendo che alla sua morte gli eredi universali sarebbero stati due dei suoi tre figli, Guglielmo e Alessandro. Il terzo figlio, Napoleone, doveva ereditare solo la decima parte di tutto il patrimonio. Si era nell'immediata vigilia della morte di Federico II Hohenstaufen, ormai in declino, presente a Firenze già dal 1246 per l'interposta persona di Federico D'Antiochia, quel figlio eletto podestà cittadino e nominato vicario imperiale per la Toscana, il quale aveva costruito poco meno di dieci anni prima il castello «federiciano» di Prato sull'impianto di un preesistente castello degli Alberti. Il conte Alberto V, anche lui già affidato fin da piccolo dal padre omonimo al tutoraggio dei consoli del comune di Firenze, era molto compromesso con la municipalità fiorentina, la quale fruiva tradizionalmente dei patrocinii politici della contessa Matilda. Egli obbediva in sostanza, e da tempo ormai, con la famiglia Alberti, all'obbligo per i feudatari di risiedere in Firenze gran parte dell'anno, così da averne i benefici commerciali conseguenti (6). Si trovava insomma in una situazione di cronico indebolimento, quanto mai effettivo, circa il suo potere feudale, a tutto favore della municipalità fiorentina, la quale nello stesso tempo andava attraendo nell'inframura molti dei contadini liberi e in sovrannumero. Si staccavano dalla subordinazione feudale nella prospettiva di entrare a far parte delle nuove classi sociali lavoratrici cittadine emergenti.

Ed è in questo contesto, tendenzialmente filoguelfo, che il terzo figlio Napoleone Alberti, in realtà il maggiore di tutti, venne escluso dall'eredità che contava. Egli cioè fu diseredato per ragioni politiche, anche perché l'imposizione del suo nome, tipicamente cadolingio, lo legava, agli occhi del conte Alberto, alla linea materna, e quindi lo rendeva più incline alla fedeltà verso il principio imperiale. Napoleone allora fu ghibellino, mentre il fratello Alessandro, guelfo. I due si fecero una violenta guerra fin da quel 4 gennaio 1250, disputa che portò fra il 1282 e il 1286 (7) al fratricidio finale, non si sa come tecnicamente avvenuto. Ma Napoleone guerreggiava già da molto prima contro i Fiorentini, opponendosi a tutto l'andazzo filoguelfo della famiglia. Essa aveva già ceduto al prezzo di qualche migliaio di fiorini il castello di Semifonte, avvenuto dopo una lunga contesa bellica perduta coi comuni guidati da Firenze. Nel 1259 Napoleone sconfisse addirittura il fratello Alessandro, nonostante questi fosse dipinto dai cronachisti dell'epoca, per contrasto al maggiore, un uomo «che di ragione n'era signore», con la conseguenza di essere privato di tutto il patrimonio (feuda et castella) ereditato nove anni prima. Quella perdita provocò di converso la reazione dei Fiorentini, i quali, già reduci dall'aver strappato al vescovo d'Arezzo il castello di Gressa in Casentino ed esaltati dalla vittoria, puntarono al castello di Vernio, a loro volta togliendolo, insieme a quello di Mangona, al riottoso Napoleone. La conseguenza del vittorioso assedio fiorentino fu che i popoli residenti nel feudo dovettero giurare fedeltà al Comune di Firenze, col segno e col pegno di versargli ogni anno un cospicuo tributo in danaro in occasione della festa, patronale, di San Giovanni. Ma anche dopo la sconfitta di Montaperti l'aspra contesa parentale continuò per molti anni, nonostante quell'effimera pace del 1280 firmata fra i due fratelli per mediazione del cardinal latino Malabranca Orsini. La faida comitale si complicò vieppiù perfino nella discendenza generazionale. Nel 1286, con grande clamore e impressione non solo a Firenze ma in tutta la Toscana, si ebbe l'uccisione di Orso degli Alberti, che era figlio del conte Napoleone, avvenuta nella sua camera da letto, nel castello di Mangona, ad opera di suo cugino, figlio del conte Alessandro:

Vidi conte Orso e l'anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com'e' dicea, non per colpa commisa


                                                           (Purgatorio, canto VI, vv. 19-21)

Il 22 aprile del 1273 il conte Alessandro, reinvestito dei feudi verniotti grazie alla tutela e alla vittoria di Firenze, si ritrovò anche lui a far testamento come il padre, prescrivendo che se i suoi figli non avessero avuto successori, i castelli di Vernio, Mangona, Montaguto di Val di Bisenzio e altri sarebbero dovuti andare in proprietà al Comune di Firenze.

Grazie questo tipo di impegni solenni assunti dagli Alberti residenti in città, la municipalità fiorentina ebbe sempre a pretendere e far valere i suoi diritti sulle terre dell'alta Val di Bisenzio, nonostante che nel cinquantennio successivo il casato albertesco, ormai in pieno declino, continuasse, per mano e sigillo di mogli e figli superstiti, a stipulare, col comune di Bologna da un lato e con diversi mercanti della piana del Bisenzio dall'altro, atti di vendita, di cessione, di concessione in affitto od enfiteusi su quelle porzioni feudali, suscitando ogni qualvolta le più bellicose contestazioni dei Fiorentini, che com'era noto si dimostravano sempre propensi all'espansione territoriale. Questa tendenza si dovette realizzare nel comportamento della contessa Margherita, che era erede della contea di Vernio perché sopravvissuta al marito Contino degli Alberti, a sua volta nipote del fratricida Alessandro. Nel 1332, la contessa rimase vedova anche di messer Benuccio Salimbeni, un mercante di Siena col quale s'era risposata alcuni anni prima. Costei, ormai vedova e sola, era riparata coi figli minorenni a Santa Fiora, dove stipulò con Palla Strozzi e Chiavello Machiavelli un regolare atto di vendita della contea di Vernio, riscuotendo il bel prezzo di 12.000 fiorini d'oro. In realtà si trattò di una vendita a due procuratori, i quali a loro volta, nel 1335, passarono l'intera contea verniotta ad un terzo, tal messer Andrea di Gualtierotto de' Bardi, i più ricchi e facoltosi banchieri fiorentini del momento.

Il 1335 pertanto, oltre ad essere annoverato come anno di passaggio della proprietà di Vernio dagli Alberti ai Bardi
(8), può esser assunto in generale, proprio per le caratteristiche mercantili di quest'ultimi, come un appuntamento cruciale della storia economico-sociale della Toscana medievale del XIV secolo: il mutamento tendenziale del possesso fondiario da feudale a mercantile, complici la sostanziale assenza di controllo e continuità politica esercitata dall'Impero e la debolezza della Chiesa, on quel momento completamente succube della tutela del re di Francia (cattività avignonese). Non mancarono attriti intorno alla fine degli anni Trenta del XIV secolo fra i Bardi e il comune di Firenze, quando questi pose l'assedio a Vernio e ne spogliò il possesso per colpa della loro ribellione alle deliberazioni municipali. Pertanto, il 15 gennaio del 1341, Andrea de' Bardi, per riottenere il castello, dovette pagare 4.690 fiorini d'oro, aggiungendone altri 7.750 per riavere anche Mangona, sempre legata a Vernio in qualche modo.

Insieme ai Peruzzi e agli Acciauoli, i Bardi, subentrati nel possesso di Vernio, ebbero in Firenze diversi esponenti, i più celebri dei quali furono, già nel XIII secolo, Bartolo, uno dei primi Priori di Firenze (1280); Simone, marito di Beatrice Portinari, l'amata di Dante, anche lei figlia di un banchiere; nonché - nel XIV secolo - Contessina de' Bardi, moglie di Cosimo I de' Medici, nonna di Lorenzo il Magnifico. I Bardi stavano a capo di una grossa compagnia finanziaria composta da una fitta catena di filiali creditizie, sparse in tutta Europa dall'Atlantico al Nero, legate fra loro da un originale sistema di autonomia e mutualità che dava loro un tratto caratteristico e raro. Con questo sistema costoro davano a prestito ingenti somme denaro, e titoli finanziari equivalenti, ai nobili di tutta Italia, ai pontefici, ma anche alle nascenti monarchie nazionali europee. In particolare, il possente esercito della monarchia feudale di Edoardo III d'Inghilterra, impegnato contro la Francia nella guerra Cento Anni per il possesso delle Fiandre e il controllo della locale produzione tessile, i Bardi l'avevano finanziato col prestito di una quantità di denaro tale che «valea un reame», come testimoniò lo storico contemporaneo Giovanni Villani, anche lui imprigionato per il crollo economico-finanziario che dovette seguire. Causa ne fu il fallimento della Compagnia de' Bardi del 1345, crollo che si estese a tutta Firenze. Edoardo, soprannominato Principe Nero per il colore dell'armatura, si rifiutò apertamente di restituire ai Bardi il prestito ottenuto, causando di fatto la bancarotta di tutto il sistema creditizio impiantato dai conti di Vernio. Costoro fra l'altro, già due anni prima, durante una rivolta popolare antimagnatizia collegata a quelle tensioni economiche, si erano visti assalire e saccheggiare le loro residenze commerciali d'Oltrarno. Per tutte queste circostanze, i Bardi insomma dovettero ritirarsi a dimorare nel feudo di Vernio, previo un placet di Firenze che fu concesso formalmente per mediazione di messer Bartolo de' Guazzalotri di Prato. Lì, in cima alla vallata del Bisenzio, a Pietro de' Bardi fu ordinato di rimettere a posto la campana della fortezza, esonerando totalmente Firenze da ogni spesa. E ai suoi figli, nel 1351, fu imposto di ripristinare le difese della rocca di Vernio, quasi completamente distrutte dalle truppe dell'arcivescovo di Milano Giovanni Visconti, che durante il suo dominio su Milano si era spinto a impadronirsi prima delle terre bolognesi di confine, e poi di Bologna intera per mano del nipote Gian Galeazzo (1350-53).

La fortuna dei Bardi tuttavia girò nel 1355, appena dopo le ondate di peste che colpirono l'Italia e l'Europa dopo il 1348. Quello è l'anno dell'incoronazione di Carlo IV di Lussemburgo a imperatore, avvenuta nella Roma di Cola di Rienzo, ad opera e ufficio di un cardinale delegato dal papa avignonese Innocenzo VI, tale Egidio Olbornoz. Fu questo prelato ad essere incaricato appositamente a deporre la corona in capo nuovo re dei romani. Per grazia e riconoscimento di un ingente prestito in fiorini d'oro offertogli per l'occasione dai Bardi, il nuovo imperatore, subito soprannominato «re mercante» per la capacità che avrebbe dimostrato nel condurre con strumenti non prettamente politici gli affari sovrani, concesse a Gualtierotto de' Bardi il Vicariato imperiale sul feudo di Vernio. A dire il vero, quel possesso feudale Carlo gliel'aveva loro riconosciuto già nel 1338, ma era solo re del Lussemburgo. Questa volta invece si presentava come imperatore, e perciò il vicariato ai Bardi lo rilasciò formalmente con un diploma stilato nel castello comitale. Nacque così la Contea di Vernio. Col beneplacito del comune di Firenze beninteso, il quale aveva di buon grado delegato ai Bardi il compito di tener buono e lontano, col danaro appunto, l'imperatore, evitando per sé, molto opportunisticamente, le possibili intromissioni e le temute pretese di una sgradita subordinazione politica. Carlo, battezzato dal padre Giovanni Venceslao, era nipote di quell'Enrico (Arrigo) VII di Lussemburgo che morì a Buonconvento di malaria senza metter a posto le cose italiane e fiorentine, come Dante aveva implorato. Era logico pertanto che Firenze paventasse una ripresa della vecchia politica ghibellina per opera di Carlo IV imperatore.

Per fortuna il lussemburghese si dimostrò preso più dall'affanno di portare a compimento il rafforzamento dinastico del suo potere in ambito nordeuropeo (Polonia, Boemia, Ungheria, ma anche Slesia e Germania del nord, ecc.), che occuparsi del labirinto italiano. Infatti trascurò deliberatamente le questioni italiane in cambio di denaro e riconoscimenti solo formali di sovranità da parte dei comuni italiani, Firenze e Milano in testa. Intellettuali a lui contemporanei quali il Petrarca, dallo stesso Carlo IV nominato poi conte palatino, si lamentarono solennemente per la noncuranza imperiale spesa nei riguardi della Penisola, in particolare per il penoso lassismo da lui dimostrato verso il problema dell'assenza del papato da Roma. Carlo intratteneva però rapporti troppo buoni con il re di Francia. Era cresciuto a Parigi e quella corte gli aveva dato anche l'educazione giovanile. Non avrebbe potuto discutere, anche se avesse voluto, la tutela francese sui papi di stanza ad Avignone. Anzi approfittò di questa debolezza della Chiesa per rafforzare ulteriormente il suo potere. Col meccanismo elettivo da lui introdotto con la famosa Bolla d'Oro del 1356, Carlo abolì definitivamente la clausola dell'approvazione papale all'elezione dell'imperatore, togliendo definitamente al Papa il diritto al vicariato imperiale nel caso di vacanza temporanea nella successione. Il titolo di Vicariato di sua maestà l'Imperatore, concesso ai Bardi di Vernio in queste circostanze, veniva ad assumere pertanto un carattere e una forza del tutto eccezionali.

Poste queste condizioni nei rapporti feudali fra Chiesa e Impero, la situazione italiana risultò consolidata e sostanzialmente immobile nei secoli avvenire: i Bardi si sarebbero tenuti per quasi mezzo millennio i diritti di signoria sulla Contea di Vernio, non senza trascurare ovviamente i lucrosi affari bancari che irradiavano da Firenze. Nel corso delle epoche successive, forti del privilegio su Vernio, essi si imparentarono con un po' tutte le famiglie fiorentine dividendosi in più rami: i Peruzzi, i Salviati, i Ginori, i Medici, i Pazzi, i Ridolfi, i Guicciardini, i Rinuccini, e via dicendo, senza tralasciare quasi nessuna fra le più conosciute. La posizione sociale anzi permise loro di ottenere da Francesco II di Lorena, con una cerimonia avvenuta il 14 giugno 1751, l'ammissione al patriziato fiorentino, un'istituzione aristocratica molto importante a quei tempi, che ebbe come corollario la conferma ulteriore del diritto imperiale su Vernio così come esso era stato istituito nel 1355 da Carlo IV Venceslao, imperatore e re del Lussemburgo. Quello fu il presupposto della lunga «carriera» possessoria e nobiliare dei Bardi, ottenuta faticosamente per tappe, riscatti e diplomi, quale per esempio quello del 1487, quando riacquistarono i palazzi originari di famiglia, perduti col crollo bancario del 1343-45; o quando, un secolo dopo, esattamente nel 1576, ebbero dalle mani di Francesco I de' Medici, signore di Firenze da appena due anni, la restituzione dell'imponente palazzo (de' Bardi) sito in Oltrarno, un immobile di aspetto ora rinascimentale confiscato a Pietro Capponi, reo di aver congiurato coi Pazzi ai danni di Cosimo I dei Medici. Oppure ancor prima, nel 1512, allorché i Bardi, poco prima del rientro dei Medici a Firenze avvenuto nello stesso anno, si fregiarono di un atto di beneficenza verso la gente del feudo verniotto che pesò anch'esso nei riconoscimenti blasonari futuri. In seguito poi alla discesa degli Spagnoli, che avrebbero messo a sacco Prato e sotto assedio Firenze, si verificò a Vernio una grave carestia, che i Bardi intesero alleviare con la distribuzione alla popolazione affamata di una cospicua quantità di farina di castagne. La derrata venne cucinata all'interno della Rocca sotto forma di un gran pastone, successivamente celebrato per tradizione e ricordo come «Festa della Polenta», un anniversario popolare che ancor oggi si rinnova nei programmi fieristici e flokloristici del comune.

Un terzo riconoscimento imperiale, pure questo molto importante per i Bardi, i signori di Vernio l'ottennero dalle mani dell'imperatore Leopoldo I d'Asburgo, il quale, reduce dai successi riportati nelle campagne per la sovranità contro turchi e francesi, rinnovò ai banchieri fiorentini, questa volta nella persona del conte Ridolfo de' Bardi, il titolo di vicariato imperiale sul feudo di Vernio con un diploma stilato nel 1697. La carta sanzionava definitivamente il richiamo alle concessioni già istituite dal Barbarossa nel 1164 e da Carlo IV nel 1355.
Ma poco prima, il 17 febbraio 1693, il conte Ridolfo de' Bardi aveva fatto rogare il suo testamento, nel quale disponeva che tutto il cospicuo patrimonio della vallata del Bisenzio sarebbe dovuto andare ai sudditi verniotti, citati letteralmente «vassalli» nel testo, purché si fossero costituiti in una compagnia secolare, poi effettivamente denominata «Opera pia di San Niccolò di Bari», in onore e venerazione del santo pugliese
(9), ma che lui aveva appositamente voluto e fondato. Nel 1706 Ridolfo de' Bardi muore, non senza aver terminato la costruzione della nuova sede della contea vicariale di Vernio, presso la chiesa di San Quirico (e S. Leonardo). L'immobile, che oggi è denominato «il Casone», una costruzione barocca sovente scambiata a torto per il castello feudale originario, divenne la nuova dimora conti, i quali vi costruirono adiacente anche l'Oratorio della stessa opera San Niccolò.

Questa volontà testamentaria del conte Ridolfo Bardi può forse apparire curiosa o estemporanea, ma in realtà nascondeva alcuni calcoli di potere non del tutto peregrini per un uomo e una casata peraltro non estranei alle suggestioni accademiche e a forme di mecenatismo culturale. Si pensi che i Bardi erano strettamente legati alla fondazione della Camerata musicale fiorentina, nata nel XVI secolo a Firenze appunto come «Camerata de' Bardi»; e perfino alla fondazione della stessa Accademia della Crusca, dove vi ebbero dei rappresentanti attivi. E nei Bardi non mancava certamente il lato del feroce padrone feudale, se nel 1778 si annovera per dover di cronaca che il conte Flaminio de' Bardi, personaggio di una certa levatura anche spirituale, ricavò nei locali della Rocca di Vernio una serie di anguste carceri, alte neanche un metro, atte a dissuadere e intimidire rivolte popolari come quella verificatasi a Vernio l'anno prima.

In realtà, le vere questioni di potere si espressero sotto la forma dei diritti dell'appannaggio sovrano, tipici dell'assolutismo, benché «illuminato», nella Toscana del XVIII secolo. Nel 1778, di fronte alla corte cesarea il Granduca Leopoldo I di Lorena, pose avverso ai Bardi la questione della sovranità giurisdizionale sulla contea di Vernio, per il fatto che i conti valbisentini vi amministravano la giustizia per danaro e in malafede, e secondo lui senza autorizzazione e diritto, permettendo addirittura che truppe sparse degli stati limitrofi o anche banditi mercenari vi trovassero stanza e rifugio, con evidente pericolo e danno al Granducato. A dire il vero, sulla questione Leopoldo all'inizio vi era andato più morbido, proponendo ai Bardi, come del resto andava facendo con altri esponenti dell'aristocrazia fiorentina per altri territori da essi posseduti a vario titolo, una trattativa particolare per l'acquisto della contea previo pagamento di adeguate somme di denaro. Ad ogni modo, il giureconsulto prof. Migliorotto Maccioni, difensore incaricato degli interessi del Granduca, avviò nell'interesse del Granduca, in quello stesso anno, la causa contro i Bardi, portandola al giudizio della suprema corte giurisdizionale imperiale che si trovava a Vienna, denominata Consiglio Aulico. I Bardi lì si difesero bene, adducendo a prova della loro sovranità, presentata conforme all'impero sacro dei romani cattolici, anzitutto i tre diplomi di concessione feudale: del Barbarossa (1164), di Carlo IV (1355) infine di Leopoldo I d'Asburgo anch'egli imperatore (1697). Ma alla vittoria legale dei Bardi sul Granduca valse non poco il presupposto giuridico di quell'importante testamento del conte Ridolfo fatto nel 1693, dove si enumeravano e descrivevano i titoli di provenienza dei beni fondiari lasciati a favore dell'Opera di San Niccolò.

La Rivoluzione francese e l'epopea napoleonica, che come si sa hanno posto il termine definitivo al feudalesimo europeo e al sacro romano impero, corollari sostanziali del medioevo storico, avrebbero dismesso di lì a poco anche l'ancien régime in Vernio, durato otto secoli nella forma del dominio feudale fra gli Alberti e i Bardi, e quasi mezzo millennio nella forma della contea signorile di quest'ultimi. Col decreto del 6 settembre 1797 (20 Fruttidoro Anno Quinto), Vernio è annesso definitivamente alla Repubblica Cisalpina entrandone a far parte nel relativo Dipartimento di Bologna. Trascorsi appena dieci giorni dal decreto, il Commissario Straordinario del Governo francese a Vernio, l'avvocato Leoni di Poppi, scortato da un battaglione franco-polacco di 200 uomini, esegue il decreto, deponendo formalmente dal potere i conti Bardi e insediando la nuova amministrazione governativa nel Casone a S. Quirico. Nello stesso tempo, i sudditi verniotti, già vassalli per Ridolfo, vennero dichiarati cittadini, e perciò sciolti dalle prestazioni e dai tributi feudali come da ogni fitto, censo, livello od enfiteusi. I successivi passaggi «politici» di Vernio furono quelli del 1802, quando il paese divenne «italiano» a tutti gli effetti, essendo la Cisalpina divenuta Repubblica Italiana; e quello del 26 maggio 1805, quando fu annesso al Regno Italico; e ancora nel 1811, quando Napoleone ebbe creato l'Impero Francese, con Vernio in Toscana che entra a far parte del Dipartimento dell'Arno.

Caduto Napoleoone, la ricostruzione dinastica dei troni europei impiantata a tavolino (diplomatico) dal Congresso di Vienna (1815), per opera del barone Clemente von Metternich, finì coll'annettere Vernio di nuovo al Granducato di Toscana, negando ai Bardi l'istanza, ivi nuovamente addotta, di ripristinare la Contea di Vernio alla stregua dei piccoli ducati appennino-padani appena ricostituiti. In alternativa chiesero almeno il ritorno dell'allodialità dei beni posseduti, in sostanza dei vecchi tributi feudali, riservandosi di intentare ancora una volta un'adeguata causa legale. Un parziale riconoscimento giuridico i Bardi l'ottennero solo nel 1822, ma le rivendicazioni tributarie ebbero termine solo con l'estinzione dei vari rami della disparata famiglia, l'ultimo dei quali, il Bardi-Serzelli, che è titolare del rilevantissimo omonimo archivio conservato nel palazzo municipale di San Quirico, si estinse nel 1954, la proprietà passando all'attuale erede della nobile gente di Santellocco e di Gargano.

La sorte delle condizioni fisiche del castello di Vernio invece è segnata dalla seconda Guerra mondiale, la quale coi bombardamenti sì è portata via la torre, gran parte della cinta muraria e altre strutture in progetto di parziale ricostituzione.

    

© 2009 Fernando Giaffreda, testo e foto.

   


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