Sei in: Mondi medievali ® Storia dell'arte medievale ® Pavimenti musivi figurati


 

di Luisa Derosa

pagina 2


 Introduzione  -  Le aree culturali  -  Le schede: BitontoIsole TremitiBariTarantoOtrantoTraniBrindisiGiovinazzoBibliografia essenziale


Otranto, Cattedrale: il mese di Gennaio nel mosaico pavimentale

 

Il grande albero è sostenuto da due tranquilli pachidermi. Il tema degli elefanti in funzioni di cariatidi è abituale in Puglia: esso appare, ad esempio, su uno degli stipiti del portale centrale della chiesa di San Nicola. La scena otrantina, con la presenza del piccolo elefante sollevato sulle zampe anteriori, fra le zampe dello stesso elefante di sinistra, farebbe riferimento, secondo alcuni critici, ad una diffusa trasposizione iconografica di un passo del Physiologus in cui si racconta che l’elefante, privo dell’articolazione del ginocchio, è costretto appoggiarsi ad un albero se vuole riposare. Di questa caratteristica si giovano gli indiani che per catturare l’animale segano l’albero che trascina con sé nella caduta la bestia, incapace di rialzarsi. Neanche i compagni, che accorrono ai suoi barriti, sono capaci di aiutarlo: ci riesce solo un piccolo elefante che, messa la proboscide sotto il corpo del pachiderma caduto, lo tira su. Nel Physiologus i due pachidermi simboleggiano Adamo ed Eva: come questi si unirono dopo aver mangiato il frutto dell’albero così i due elefanti al momento dell’accoppiamento vanno ad Oriente “prope Paradysum”, dove il maschio si ciba, per poter generare, di un albero detto mandragora. Il piccolo elefante, spiega il Physiologus, rappresenta Cristo redentore. Non a caso, secondo questa interpretazione, Adamo ed Eva figurano ad Otranto alla cima dell’albero mentre stanno per portare alla bocca il frutto proibito della scienza del bene e del male, il fico, mentre il serpente avvolto alla cima dell’albero striscia malizioso verso Eva. I due progenitori suggellerebbero, in tal caso, la conclusione della prima parte del mosaico secondo un percorso circolare. Gli elefanti di Otranto, inoltre, presentano caratteristiche che consentono di identificarli come un maschio ed una femmina, per la presenza del piccolo elefantino sotto il pachiderma di sinistra, con accanto un piccolo cerchio allusivo all’organo genitale femminile. Nel Physiologus è riferito, inoltre che l’accoppiamento dei due animali avviene di tergo, proprio come la raffigurazione qui analizzata.

In questa prima zona, nonostante il viluppo di rami, foglie, frutti e piccoli animali, quasi sempre con qualche caratterizzazione sorprendente (si osservi, ad esempio, sopra l’immagine dell’elefante sinistro un curioso ‘gatto con gli stivali’), adoperati come sapienti riempitivi, emergono delle figure che guidano la lettura del mosaico stesso. Tra queste la celebre raffigurazione del volo di Alessandro Magno (cfr. scheda Taranto), qui raffigurato come simbolo della smisurata bramosia di grandezza e superbia. A sottolineare, in questa prima parte del mosaico, questo valore negativo, è la scena della torre di Babele, in posizione chiastica con l’episodio di Alessandro. I movimenti concitati e quasi convulsi degli operai intenti alla grande impresa trasmettono in modo esemplare il senso della follia dell’impresa. La caratteristica più notevole della raffigurazione otrantina è costituita dalle due scale che sono appoggiate alla torre, per le quali non esistono altrove riscontri, ad eccezione del mosaico relativo a questo episodio nella chiesa di San Marco a Venezia. Solo in un testo ebraico (la Pirke del Rabbi Eliazar), che, probabilmente, funse da fonte letteraria per entrambe le rappresentazioni, vengono descritte le due scale.

Bisogna osservare che il susseguirsi delle scene bibliche rappresentate fino a questo momento (Torre di Babele-Arca di Noé) inverta l’ordine storico biblico: qui ad Otranto, dunque, il discorso religioso pur appoggiandosi al testo sacro, si articola secondo una propria linea di svolgimento oratoria anche se, secondo alcuni critici (Gianfreda), la lettura del mosaico procederebbe dall’abside verso la navata.

Enigmatica rimane, ad onta delle varie spiegazioni che ne sono state date, la figura del leone quadricorporato, straordinariamente somigliante nel viso al leone bicorporato scolpito su un capitello nella sottostante cripta della cattedrale. Quanto alle numerose raffigurazioni umane, animali e fantastiche che riempiono lo spazio musivo, al di là dei valori simbolici di ciascuna di esse, bisogna osservare che la loro presenza costituisce quasi una sorta di contorno, di ambientazione e di supporto alle scene principali qui raffigurate. Nei quattro centauri collocati immediatamente sopra la figura di Alessandro (realizzati, come in un climax ascendente, con una, due e tre teste) potrebbe leggersi il richiamo alle avventurose campagne militari del sovrano in Africa e nel Medio Oriente fino all’India, descritte nei testi letterari sopra ricordati. La stessa figura femminile di sinistra, con arco e freccia, rappresenterebbe un’Amazzone, anche per la presenza sull’abito, all’altezza del petto di uno squarcio profondo che mette a nudo la carne: un riferimento questo, alla lunga avventura di Alessandro con questa popolazione di guerriere e con la loro regina.

Un altro affascinante particolare è dato dall’inserimento, accanto al cervo trafitto dalla guerriera, di una scacchiera in bilico sul capo di un centauro dallo sguardo malvagio. Vi potrebbe essere in questo caso un diretto riferimento alla morte, vista in alcuni contesti come una giocatrice di scacchi. Ma potrebbe anche trattarsi di un ulteriore richiamo alla figura del Macedone, essendo il gioco degli scacchi un gioco regale, inventato da Ulisse e Palamede durante il leggendario assedio alla città di Troia. Altre figure, come quelle dei due guerrieri a sinistra dell’elefante, sarebbero legate allo stesso Alessandro, dal momento che uno di essi, quello di destra indossa, infatti, calzature della stessa foggia del sovrano e, in più, rispetto al suo avversario, ha veste orlata e lunga come un soldato macedone, intento in questo caso a combattere uno dei tanti nemici. Non sappiamo quanto queste interpretazioni siano realmente alla base delle scelte figurative del mosaico otrantino: ma si tratta di un problema generale connesso all’ambiguità di molti simboli medievali.

Un dato interessante è relativo alla presenza di alcune figure intente a suonare la tromba che accompagnano gli episodi principali di questa prima zona. Una coppia di centauri appare accanto alla scena dell’ascensione al cielo di Alessandro Magno; un’altra coppia con la tromba, a cavallo di un pesce, è posta all’altezza della torre di Babele, mentre un fanciullo con la tromba, a cavallo di uno strato uccello (forse uno struzzo), introduce la scena dell’arca di Noé. Molto convincentemente tali figure sono state considerate una sorta di “sigla di apertura” degli episodi principali di questa sezione del mosaico, inseriti per consentire allo spettatore di focalizzare ulteriormente l’attenzione su quegli episodi salienti che danno senso all’intera raffigurazione (Frugoni).

La scena della costruzione della Torre e dell’avventura di Alessandro, proprio per il loro esplicito significato di superbia, prefigurano la condanna di Dio, che interverrà in entrambi i casi a impedire all’orgoglio umano di raggiungere il cielo. Così la narrazione otrantina prosegue con il grande esempio del Diluvio che condanna l’umanità colpevole, annunciato dai grandi preparativi per la costruzione dell’arca. Ma la condanna divina è anche legata ad un discorso di speranza e di salvezza. La scena rappresentata ad Otranto con grande realismo si riferisce, infatti, alla fine del Diluvio universale: una colomba sta tornando da Noé con il ramoscello di ulivo in bocca (Gn. 8,11), mentre visibili sono ancora i miseri resti degli affogati, di cui alcuni animali stanno facendo scempio. Un uccello tiene tra le zampe una gamba umana, mentre un’altra spunta dalla bocca di un gigantesco pesce.

La tematica della salvezza, fin qui descritta, deve però passare attraverso il lavoro umano, cui l’uomo è condannato in conseguenza del Peccato originale. Ecco così che in dodici tondi compaiono le raffigurazioni dei mesi e dello zodiaco. Si tratta di un tema particolarmente diffuso nella plastica romanica, utilizzato soprattutto nella decorazione di capitelli e portali, che compare anche con una certa frequenza nelle composizioni musive del periodo. Per le sue dimensioni, però, il ciclo di Otranto non trova confronti con analoghi esemplari.

Otranto, schema generale del mosaico

Presbiterio: la regina di Saba  Presbiterio: Salomone  Re Artù  Il mese di marzo

In modo del tutto originale l’anno non inizia, come ci si sarebbe potuto aspettare, con il segno dell’Acquario, ma con quello del Capricorno. Manca, inoltre, ad Otranto, la canonica rappresentazione, per il mese di Gennaio, della figura di Giano bifronte, ampiamente diffusa per indicare il carattere di transizione peculiare a questo mese. è pur vero che in molte versioni di ambito francesi alla figura della divinità, rappresentata tra due porte, si sostituisce in questo periodo un personaggio seduto dinanzi ad un fuoco intento a scaldarsi le mani, proprio come nel caso pugliese. Negli altri tondi compaiono elementi che denotano un certo gusto per scene di genere. Così nella rappresentazione del mese di Marzo una figura di origine classica, lo Spinario (la cui presenza si collega probabilmente alla credenza medievale di marzo come mese carico di influenze maligne e lussuriose) si trasforma, secondo una raffigurazione molto realistica, in un contadino nell’atto di pulirsi i piedi con uno strumento adatto. In questo caso si fa riferimento, più che a un significato allegorico, alla ripresa del lavoro nei campi.

La narrazione prosegue con la scena del Peccato e della cacciata dal Paradiso e le storie di Caino e Abele. Tra queste è, però, inserita un’altra scena attinta al repertorio profano, relativa a Re Artù. Si tratta di una raffigurazione il cui significato ancora oggi ci sfugge, dal momento che tra le varie leggende bretoni conosciute nessun episodio fa riferimento alla scena illustrata ad Otranto. è pur vero che nei poemi della fine dell’XI secolo Artù figura come l’eroe per antonomasia, cacciatore e vincitore di mostri feroci. Parrebbe qui riproposta la stessa corrispondenza, osservata nella prima zona del mosaico tra una scena attinta al repertorio biblico (in quel caso la costruzione della torre di Babele) ed un esempio tratto dal repertorio profano (l’ascesa al cielo di Alessandro). In questo caso alla sequenza del Paradiso terrestre viene correlata la storia di Artù, sottolineata dal parallelismo visivo delle due figure soccombenti, il re e Abele.

Sotto l’episodio della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre è posta la figura di un uomo cinto da un semplice perizoma che indica una porta chiusa. Secondo alcuni critici si tratta della figura del buon ladrone Dismas, di cui parlano ampiamente i Vangeli apocrifi. In essi si narra di un «uomo di umile aspetto» che giunto dinanzi alla porta del Paradiso si era fermato fuori, per consiglio dell’angelo, ad aspettare il progenitore del genere umano Adamo insieme a tutti i giusti. In un sermone siriaco del IV secolo, che è alla base di un’analoga rappresentazione nel mosaico di Torcello (XII secolo), si dice che Cristo chiamò a se il buon ladrone e lo mandò in un luogo di beatitudine dandogli la chiave per «aprire la porta serrata da Adamo». Nel caso di Otranto la scena non traduce semplicemente il passo del Vangelo apocrifo ma lo interpreta in maniera più profonda, isolando i due poli della salvazione: la caduta dei progenitori da un lato e l’avvenuta redenzione, rappresentata dal primo uomo salvato dal sacrificio di Cristo, dall’altro.

Nel complesso le scene fin qui descritte paiono essere legate da un tema di significato salvifico: al peccato (Torre di Babele, Alessandro sui grifoni), ed al conseguente castigo (Diluvio universale, Cacciata dal Paradiso terrestre) si contrappone la speranza di salvezza, esemplificata, per quanto riguarda il destino terreno dell’umanità, dalla fine del diluvio e, per l’altra vita, dalla figura del Buon ladrone, primo uomo redento dal sacrificio di Cristo. Il culmine di questo discorso per immagini è rappresentato dalle figure di Giona e Sansone, collocate nell’abside, simboli entrambi della resurrezione di Cristo.

Il mosaico nella zona corrispondente al quadrato del transetto riprende il tema delle rotae abitate, già visto nella raffigurazione dei mesi. Anche in questo caso molte figure restano enigmatiche; alcune di esse paiono inserite nella composizione con un intento puramente decorativo.

A spiegare, però, la sequenza di tanti animali, che paiono evocare il favoloso Oriente, potrebbe aiutarci la stessa tradizione biblica legata al saggio e virtuoso re Salomone, che appare nel registro superiore di questa sequenza, accanto alla regina Saba. Nel primo libro dei Re (5, 10-13) si ricordano, infatti, le approfondite conoscenze di zoologia del re di Israele. Per tale motivo sotto il nome di Salomone circolarono nel corso del Medioevo numerosi libri di carattere magico-superstizioso riguardanti la natura degli animali. Nello stesso Physiologus il re biblico è tra i personaggi più citati, ed il suo nome è a volte addirittura identificato con quello stesso del Physiologus.

Un’ulteriore osservazione si può fare a proposito della regina Saba, curiosamente ritratta non in ginocchio o in piedi dinanzi al Re, come ci si aspetterebbe, ma seduta su un basso sgabello (in contrasto con il lussuoso faldistorio su cui è assiso Salomone), con il piede sinistro nudo. La regina regge, inoltre, nella mano sinistra, un curioso oggetto che per forma e colore richiama la scarpa destra. Un’interpretazione della scena si basa su un passo del Vangelo di Matteo (12, 39-42), in cui la regina, comunemente appellata nel Vecchio Testamento col suo nome, viene in quest’unico caso chiamata ‘regina austri’. Tale ipotesi non spiega, però, il legame esistente tra queste figure, gli animali ed i progenitori, raffigurati in basso nello spazio centrale. Curiosa è la figura del piccolo monaco accanto all’unicorno, che secondo un’interpretazione corrente rappresenterebbe lo stesso Pantaleone.

Il mosaico si conclude con la raffigurazione di due grandi temi biblici che riprendono e completano il discorso di speranza e di salvezza cui tende l’intera narrazione otrantina: il ciclo di Giona e la scena di Sansone sul dorso del leone. Simboli entrambi, come accennato in precedenza, della resurrezione di Cristo, il primo per essere ritornato in vita dopo aver dimorato tre giorni nel pesce, il secondo per aver sconfitto e debellato Satana negli Inferi.

La circostanza che il ciclo di Giona sia rappresentato in tutta la sua estensione, mentre Sansone compaia una sola volta nell’atto di spaccare la mascella al leone, ha fatto avanzare l’ipotesi che il profeta stia qui a prefigurare non solo la morte e la resurrezione di Cristo, ma anche il ruolo fondamentale della predicazione e della missione dottrinaria della Chiesa (ricordiamo che il profeta compare numerose volte nella decorazione degli amboni). A questo si aggiunge il fatto, non secondario, che Giona possa impersonare l’arcivescovo stesso Gionata, il più alto titolare dell’ufficio di predicatore e del potere dottrinario della chiesa di Otranto. In questo caso il chiaro ammonimento al castigo di Ninive celerebbe un esplicito riferimento alla tormentata situazione politica che caratterizzò il regno di Guglielmo il Malo.

Significativo è anche il particolare che tale ciclo sia stato rappresentato proprio nell’abside, intorno all’altare maggiore, culmine dell’azione liturgica. Anche coloro che paiono irrimediabilmente succubi del peccato, come gli abitanti di Ninive, possono ancora sperare nella grazia divina e nel perdono, nella misura in cui si pentono senza riserva del loro empio agire.

La complessità dei temi trattati fino a questo momento si riflette anche nelle decorazioni dei mosaici delle navate laterali. Se ancora aperto resta il problema dell’interpretazione del mosaico navata destra, di più facile comprensione risulta quello della navata sinistra. Qui è rappresentato il Giudizio Universale, con le rare raffigurazioni di Infernus e Satanas tratte probabilmente dal repertorio dei Vangeli Apocrifi. La rappresentazione dell’Inferno e del Paradiso in questa zona proietta in una dimensione escatologica il discorso della navata centrale. La gioia della salvezza raggiunta e l’angoscia del peccato non sono più viste in una dimensione terrena e immanente, ma fissate in quelle senza tempo dell’eternità. Da un lato Abramo, Isacco e Giacobbe ricevono le anime degli eletti, dall’altro i dannati soffrono atroci torture, custoditi da Satana incoronato, seduto su un trono di mostri, con accanto Infernus, incatenato mani e piedi. Tra le figure di dannati, accanto alla donna nuda, avvinta tra i serpenti e morsa nella bocca a causa delle calunnie di cui fu protagonista in terra, appare il Ricco Epulone, circondato da lingue di fiamme mentre accenna con la mano destra verso Lazzaro nel ventre di Adamo.

Sopra i patriarchi la figura di un grande cervo, evidenziato dalla scritta a lato, rimanda immediatamente al noto simbolo dell’anima del cristiano desiderosa di raggiungere il luogo dell’eterna salvezza.

 

Osservazioni: Nonostante i vari guasti subiti il mosaico di Otranto è, tra i tanti pavimenti medievali italiani, l’unico ad esserci pervenuto in uno stato di completa leggibilità. Considerato come un immenso tappeto di preghiere, per la complessità delle problematiche che esso solleva, «relative non solo all’iconografia ma anche alla genesi stessa dell’opera ed ai legami con la tradizione figurativa orientale ma soprattutto occidentale» (Belli D’Elia), costituisce ancora oggi un vero “enigma”.

Al contrario, le iscrizioni che accompagnano il mosaico, ci informano sul nome del committente e del suo artefice. Da esse si ricavano anche precise indicazioni relative alla cronologia dell’opera ed ai tempi occorsi per la sua realizzazione. Benché infatti, il tema principale dell’albero si snodi dall’ingresso verso il presbiterio e l’abside, la stesura è proceduta in senso inverso, dall’abside fino alla navata. La data più antica del 1163 compare, infatti, nell’iscrizione collocata sotto i gradini dell’altare. Entro l’agosto di quell’anno era stata, dunque, ricoperta l’intera superficie dell’abside. La restante decorazione della navata centrale venne eseguita entro il 1165. La realizzazione dell’intera opera aveva portato via all’incirca due anni, tempo considerato dalla critica sufficiente per la realizzazione del mosaico.

Dell’arcivescovo, committente e ideatore, sappiamo ben poco. Una prima volta compare in una bolla di papa Alessandro III del 1173, con incarico di redimere una vertenza giudiziaria insieme a Paliner, abate del monastero di Santo Stefano a Monopoli. Una seconda volta figura invece tra i partecipanti al concilio Laterano II, celebrato dallo stesso papa Alessandro III nel 1179. Il suo nome compare, infine, nel testamento di un magistrato di rango molto elevato alla corte normanna, un certo Iudex Tarantinus. Tali dati inducono a pensare che egli avesse stretti legami con la curia romana e fosse anche un personaggio di un certo rilievo nella corte di Palermo. L’enfatica citazione, per due volte ripetuta, del nome di Guglielmo I re di Sicilia, accompagnata dai titoli di magnificus rex e di triunphator, ha fatto interpretare il mosaico anche come documento politico, rivolto in particolare alla esaltazione della monarchia normanna.

Le iscrizioni di Otranto costituiscono,comunque, i documenti più rilevanti del suo episcopato ed offrono anche lo spunto per delinearne la personalità. è indubbio, infatti, l’intento celebrativo che Gionata intende affidare all’opera da lui intrapresa: non solo l’iterazione del proprio nome ma anche la presenza di una delle iscrizioni intorno alla cornice che racchiude la figura del re Salomone, pare voler stabilire un diretto legame con il saggio e giusto re dell’Antico Testamento, costruttore del Tempio di Gerusalemme. Ricordiamo che in un altro famoso caso, la monumentale tomba dell’abate Elia, ricorre nell’iscrizione celebrativa il paragone tra l’arcivescovo Elia e Salomone. Dalle iscrizioni emerge anche la consapevolezza dell’alto valore dell’opera da lui intrapresa, l'insigne opus creato per commuovere coloro che lo guardano.

Del tutto misteriosa rimane, invece, la figura dell’artista esecutore del progetto, il prete Pantaleone, il cui diretto intervento è stato ipotizzato anche nel pavimento musivo della cattedrale di Trani, che dal mosaico otrantino dipende per stile e iconografia (cfr. scheda Trani).

La prima domanda da porsi è se in realtà Pantaleone sia stato l’esecutore materiale del mosaico otrantino. L’estrema coerenza che caratterizza lo stile del mosaico della navata centrale e dell’abside rende plausibile una risposta affermativa, senza escludere, naturalmente, l’intervento di diverse maestranze impegnate in varie operazioni tecniche, dal taglio delle tessere alla stesura delle malte.

Le singole figure sono delineate con un contorno irregolare, dai tratti incerti, campito da stesure di tessere disposte senza un ordine preciso. Assente è qualsiasi ricerca di volumetria e di massa. L’interesse dell’artista pare volta soprattutto alla ricerca di effetti di vivace accostamento cromatico. Nulla che accomuni questo mosaico alla raffinatezza di segno delle figure di Tremiti e Bitonto, o alla impaginazione geometrica delle rappresentazioni di Taranto. La grandezza delle figure otrantine consiste nella loro capacità di disporsi liberamente sulla superficie musiva, senza un ordine apparente, per creare effetti di grande dinamismo. La loro disposizione nello spazio genera l’effetto di un tessuto compatto e inestricabile, al punto che molte delle raffigurazioni paiono non entrare nella narrazione musiva se non come semplici drôleries di gusto popolare, con indicazioni a volte scherzose: così il mostro con testa di asino, braccia e gambe umane,zampe di cane; oppure l’asino che suona la lira, il gatto con gli stivali e via dicendo (Belli D’Elia).

La fervida fantasia compositiva dell’autore del mosaico raggiunge effetti di grande creatività soprattutto nella zona absidale. Le diverse scene del ciclo di Giona sono disposte senza una reale sequenza narrativa. Ogni episodio deve essere integrato dall’osservatore che di volta in volta è chiamato a ricostruire l’ambiente, ritrovando, nel disordine in cui sono collocate le figure, un itinerario di lettura, e restituendo un ordine di successione ai vari episodi.

Se un’identica tendenza si ritrova anche nei mosaici corrispondenti alle ali del transetto, diverso appare lo stile: rigide e inerti le linee di contorno, piatte e incerte le figure, prive di quelle vibrazioni coloristiche che costituiscono la sigla dello stile di Pantaleone. è ipotizzabile in questi casi, così come è stato sostenuto dalla critica, che una diversa mano sia intervenuta nella realizzazione dei mosaici, che potrebbero anche essere stati eseguiti in un secondo momento.

Varie e complesse sono le fonti a cui ha attinto l’ideatore del mosaico, la cui cultura spazia dalle fonti bibliche a quelle profane, dai romanzi cavallereschi (come il Livre d’Artus) ai racconti ebraici (la Pirke del Rabbi Eliazar), alle leggende arabe (alle quali si rifà forse la singolare iconografia della regina Saba con la scarpa in mano). Un ruolo importante rivestono anche i Vangeli apocrifi, soprattutto quello di Nicodemo, fonte ampiamente utilizzata in tutto il Medioevo per molteplici rappresentazioni. Accanto a questi testi vi è anche il Physiologus, vero e proprio repertorio a attingere modelli e iconografie inusuali. In alcune rappresentazioni riecheggia l’eco di figure di origine classica, come nel caso di Sansone, trasposizione cristiana dell’eroe pagano Ercole, o dell’Amazzone che reincarna il mito della cacciatrice Diana. Alla base di una così vasta cultura e di una così libera capacità di contaminare e unire le diverse fonti letterarie, religiose e profane emerge un racconto che si articola secondo una propria linea di svolgimento oratoria e che mostra, nella sua interezza, la grandezza e la straordinaria unicità dell’opera.  


BIBLIOGRAFIA SPECIFICA

C. SETTIS FRUGONI, Per la lettura del mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, in «Bollettino dell’Istituto Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», lxxxii (1970), pp. 243-270.

M. D’ELIA, Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto. Cronaca di un restauro, in «Quaderni Medievali», 3 (1977), pp. 121-131.

C.A. WILLEMSEN, L’enigma di Otranto, Galatina 1980.

C. ROBOTTI - A. MONTE, Il mosaico dell’Albero della vita in Otranto. Nuovi ritrovamenti e problemi di conservazione, in Atti del iii Colloquio aiscom (Roma 5-7 dicembre 1994), a cura di I. Bragantini e F. Guidobaldi, Bordighera 1995, pp. 569-578.

G. GIANFREDA, Il Mosaico di Otranto. Biblioteca Medievale in immagini, Lecce 1996.

M. CICCUTO, Segni di una precoce figurazione volgare nel mosaico pavimentale del duomo di Otranto, in M. Santagata e A. Stussi (a cura di), Studi per Umberto Carpi. Un saluto da allievi e colleghi, ETS, Pisa 2000, pp. 291-298.

Ch. von UNGRUH, Zur Ikonographie von Apokalypsekommentaren: das Apsisbodenmosaik der Kathedrale von Otranto, in «Concilium medii aevi», 3 (2000), pp. 59-82.


REFERENZE FOTOGRAFICHE: da C.A. WILLEMSEN, L’enigma di Otranto, Galatina 1980. Alcune parti di questa scheda sono tratte da: C. SETTIS FRUGONI, Per la lettura del mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, in «Bollettino dell’Istituto Italiano per il Medioevo e Archivio Muratoriano», lxxxii (1970), pp. 243-27.


Vedi anche, nel sito: Otranto: Cattedrale (di Stefania Mola); Cattedrale di Otranto: ciclo dei mesi del mosaico pavimentale (di Stefania Mola)

   

  

©2005 Luisa Derosa

  


  indietro

  su

 Indice

Home